mercoledì 13 ottobre 2010

Paolo Sostero, Purgessimo UD

http://Nato il 30 giugno 1910

Nastro 1996/3 - Lato A                                 15 aprile 1996

I soldati venivano qua a riposare [...] restavano quindici venti giorni; si vedono ancora gli spiazzi che avevano preparato per gli attendamenti.
Quel monte che si vede, noi in friulano lo chiamiamo Uispít e ho letto nella storia che quando i longobardi venivano giù gli indicava la pianura, perché prima di venir avanti guardavano, mica andavano a mosca cieca. Uispít vuol dire punta, ma nella mappa viene chiamato Purgessimo.
Sopra al Purgessimo ora c'è il trasmettitore.
Si può salire da quelle case sopra il paese, prima della chiesa c'è un bar da dove parte la stradina a zig zag.
Vicino a Castelmonte, dove c'è il confine, era pieno di trincee. Sono andato a vedere quei posti, in motorino, quando ero più giovane.
Anche qua sopra sul Purgessimo le avevano fatte, e qualcosa si vede ancora [quando] a volte vado a raccogliere quella specie di asparagi selvatici (urtisúi).
Dopo la guerra sono stato consigliere di Purgessimo, per la Democrazia Cristiana. Ma adesso qua sono tutti quanti [della Lega], parlano tutti di Bossi.
[...]
All'epoca della prima guerra ero piccolo, e un giorno sono venuti tanti compressori, cinque sei, guidati da dei civili. Ero là con mio fratello e mi hanno detto: «Aspettate qua, state attenti se viene il nostro comandante e venite a chiamarci», e sono andati a bere mezzo litro di vino.
Poi hanno fatto il ponte. La piana non era come adesso, non era stata bonificata: c'erano tutti appezzamenti, acquitrini, e quando veniva un temporale si vedeva acqua dappertutto perché non c'era deflusso. È stato poi Pelizzo, il sindaco che è diventato anche onorevole, a bonificare. A ricordo gli hanno anche fatto una cappella che c'è ancora là. L'acqua veniva fatta defluire fino al Madriolo, attraverso i campi.
Nei giorni della ritirata gli italiani hanno portato quattro cannoni di grosso calibro, 305: ne ho anche un proiettile a casa, vuoto. Sopra il Purgessimo c'erano i 75.
Alcuni giorni prima [della ritirata] i soldati ad un certo punto erano partiti tutti da qua. «Guarda, non si vede più nessun soldato», diceva la gente meravigliata che veniva a curiosare con i mezzi che c'erano allora, che non c'era neanche la bicicletta. Erano andati via, erano andati tutti a rinforzare le linee.
Da qua i cannoni italiani di grosso calibro sparavano in direzione di Luico e del Matajur. Gli altri hanno risposto ma hanno sbagliato tiro e tutti i proiettili sono finiti nei campi. Hanno fatto dei buchi ma non sono riusciti a prendere i nostri cannoni che erano postati vicino alla bottega di Margutti che vendeva pane (ma all'epoca era dei fratelli Busolini, uno Beppo, uno Antonio e un altro non mi ricordo).
I cannoni erano proprio in centro al paese. Sono venuti una mattina. Noi si andava a scuola: c'era un capannone, non la scuola come c'è adesso che l'hanno fatta nel '35. Eravamo in venti nella mia classe, fra bambini e bambine, in prima elementare. Noi bambini si andava un giorno a scuola e un giorno si andava a cercar carrube (sa che i soldati mangiano carrube), si andava a cercar pagnotte. Poi c'era la cavalleria, i cavalli, c'era un sacco di gente e noi eravamo curiosi di vedere. [...]
In quella casa di Margutti detto Cencic – sono slavi venuti da Montefosca, mi pare – là, in quella zona, avevano fatto un poligono. Tante baracche. Hanno chiamato le donne per portare la polvere, mi pare che poi abbiano anche scioperato. O Dio, ma tante cose non me le ricordo. Facevano dei sacchetti. C'erano tante stoffe e le donne facevano dei sacchetti per mettere questa polvere da sparo per i cannoni. La pallottola poi aveva dentro come delle piastrine, come fossero delle caramelle.
Insomma noi ragazzi si andava a vedere.
Nel 1917 è stata un'annata un pochino scabra [magra] perché c'è stata la siccità, e qua nel Friuli se non piove un mese addio granoturco.
Io e mio fratello si andava a prendere acqua là, dove c'è una sorgiva che noi chiamavamo di Bachetti e adesso chiamano della Madonnina, perché c'è una cappellina dietro quella catasta di legna e adesso ci vanno anche tanti ragazzi a drogarsi e lasciano le siringhe per terra; un'altra sorgiva è la vicina e si chiamava di Quain, è un soprannome locale, poi c'e n'era un'altra ancora. Erano due tre fontane, sorgenti, e le si chiamava come la prima, la seconda, la terza... Poi c'era anche un acquedotto [militare]. Mi ricordo quando hanno portato la tubatura, ma noi l'acqua non l'abbiamo mai bevuta perché la portavano fino a Pavia [di UD].
Dietro la fontana di Bachetti i soldati avevano fatto una buca dove portavano ad abbeverare i cavalli, altrimenti avrebbero dovuto andare sul Natisone. Là c'erano questi depositi di polvere da sparo e qualche giorno prima della ritirata il deposito ha preso fuoco, non so se per una sigaretta o per quale altro motivo.
Quando c'è stata la battaglia [di Caporetto] la gente scappava. Venivano da Castelmonte e da tutte le parti, da Tribil, da tutti quei paesetti e quando arrivavano qua gridavano «scappate, scappate».
Certuni dicevano: «Io non scappo, saranno mica demoni! saranno mica bestie!»
Difatti mio padre e mio fratello sono restati qua, mentre mia mamma con sei di noi altri, tutti bambini – il più grande aveva 14 anni io ne avevo sette – siamo andati via. [...]
Siamo venuti via, abbiamo caricato; mi ricordo che io non trovavo una scarpa, uno zoccolo e così sono scappato con un solo zoccolo ai piedi tic, tac, tic, tac ... abbiamo caricato un camion.
I soldati sono venuti giù, hanno lasciato tutto abbandonato, però sono riusciti a tirare giù i cannoni: mi ricordo che quei cannoni li avevano portati su con i cavalli, ma poi non so come li abbiano portati giù.
Da Purgessimo c'era anche un telefono che andava al corpo d'Armata che era a Spessa o a Corno di Rosazzo, mi pare. Poi c'era un comando di divisione anche in Carraria, qua vicino nella villa di un signore, che noi si chiamava l'Umanitaria (più tardi, al tempo del fascio).
I soldati che venivano giù ci hanno detto «scappiamo». C'era un camion vuoto e vi siamo saliti in quattro cinque famiglie su un unico camion. Mi ricordo che vi era montata una vecchia. Piangeva e teneva in braccio un bambino piccolo di tre anni e mi diceva «stai vicino a me, tieniti alle gonne».
Non siamo andati a Udine direttamente per Moimacco, ma dapprima verso Manzano.
Io non avevo mai visto le lampadine ... vedere una lampadina rossa, una lampadina verde.
La gente veniva dall'alto Friuli, da Gemona. Tutti quanti sapevano. Spingi, spingi.
Ci siamo fermati alla stazione di Udine. Prima ci hanno mandati in prefettura da dove ci hanno detto: «Andate alla stazione, ci sono gli ordini di andare alla stazione.»
C'erano i carabinieri, confusione, scuro. C'era solo qualche lampadina rossa. La gente spingeva, mi sono perso. Mia mamma! piangeva, «dov'è il mio bambino?»
Mi ricordo l'indomani mattina m'ha ritrovato e m'ha fatto sedere sul treno e là sono stato senza mangiare, fino a Bologna.
Nelle stazioni venivano sempre le crocerossine. Davano una scatoletta di carne, o una pagnotta, o qualcosa da bere.
Ma quanta confusione, quanti profughi!
Siamo andati fino a Sessa Aurunca. Mi ricordo che siamo passati per Roma che pioveva e pioveva e in questo vagone, che era stato un pochettino in abbandono, pioveva anche dentro.
Due miei fratelli sono andati dove si appoggiano le valigie e dormivano là. Insomma siamo arrivati fin laggiù.
A Sessa Aurunca si andava a scuola. Noialtri, poiché parlavamo in friulano, la gente ci era un pochettino avversa, ci dicevano «tedeschi».
Eravamo in un castello, e due anni fa sono tornato da quelle parti anche se non sono andato proprio in quel castello.
Era la diocesi più piccola del mondo. [...]
Il Castello era nel centro del paese. Là c'erano le scuole, proprio sul cucuzzolo: c'era una scalinata e si andava su.
Noi però si dormiva dabbasso, in un convento di frati. Sotto c'era anche una centrale elettrica che funzionava non con la dinamo ma scaldando l'acqua, come con una locomotiva. Ottenevano la corrente elettrica con cui facevano illuminare il paese fino a mezzanotte. Era un paese vecchio, con viuzze così.
In questo convento ci avevano preparato bene da dormire, per ogni famiglia, e quando siamo arrivati ci avevano preparato anche un pranzo. Sono venuti a prenderci coi camion a Sparanise, e poi ci hanno fatto una bella festa in una chiesetta antica sconsacrata.
Io riuscivo a capire la loro lingua u napoletano, e anche adesso ... quando qua da noi sentivo i soldati napoletani che parlano con quella enfasi, con quella maniera di esprimersi, mi piaceva sentirli parlare. Il romano no, mi è antipatico, perché non parlano neanche con le labbra, non è vero?
Mi ricordo che si andava a scuola e il mio compagno di banco mi portava sempre una mela.
Un giorno siamo andati a fare una passeggiata col maestro. Eravamo in 28-30 in classe, in seconda elementare, e il maestro aveva detto: «Portate qualcosa da mangiare anche ai profughi», e tutti portavano qualcosa, chi una mela, chi un po' di pane.
Mia madre mi svegliava alla mattina quando dovevo andare a scuola e prima mi diceva: «Vai a prendere il pane». Bisognava andare sul cucuzzolo di questo paese, su per gli scalini. Appena arrivavi là c'era il vigile che ci conosceva e diceva: «Avanti, prima i profughi». Allora c'era sempre qualcuno che protestava: «Accidenti ai profughi, è colpa loro se ci hanno messo la tessera sul pane», come fosse colpa nostra quando in realtà era una cosa nazionale. Dopo portavo a casa il pane e si mangiava quello che c'era.
Comunque non è che si abbia patito la fame, ci si arrangiava.
Eravamo in diversi del nostro paese, tutte famiglie del paese. Eravamo andati giù con i camion e volevamo stare tutti assieme.
Siamo stati là fino in febbraio-marzo del 1918 quando ci hanno detto che chi voleva lavorare, guadagnarsi qualcosa ... perché con il sussidio noi prendevamo una lira e i vecchi due, come si fa a mangiare, vestirsi, con così pochi soldi? ... ci hanno detto che se volevamo lavorare potevamo andare in Lombardia.
Siamo andati a Rezzato, in provincia di Brescia. Il paese è sotto una montagna, ma la ferrovia passa tanto in giù.
Noi bambini si andava a scuola, ma io non sono stato promosso perché sono arrivato in ritardo. Dopo mi è venuta anche la spagnola.
Andavo anche a risponder messa e il prete mi dava una scodella di caffelatte, mi voleva anche bene.
La spagnola per me è consistita in un po' di mal di testa e vomito. Mia mamma a tutti quanti ci ha messo nel letto, ci ha portato del brulè, un po' di vino. Chi andava a badare che il ragazzo non deve bere? e io mi sono poi alzato. Ho visto invece morire un altro ragazzo, che stava davanti a casa mia, figlio unico con il padre al fronte, c'erano la nonna e la mamma con lui. Il ragazzo si è ammalato ed è morto, in due giorni.
Della nostra famiglia non è morto nessuno, anzi, dicevano in paese: «Guarda, i profughi hanno portato il male! di loro non muore nessuno.»
[C'era sempre un po' di diffidenza], come adesso che sono qua i bosgnacchi, oppure i croati, i sloveni, che ancora sussiste una politica di odio e di rancore, che non vogliono pagare i debiti di guerra, le foibe. Potevano ben pensarci prima, ma hanno aspettato che morisse Tito, per risolvere, ma non si risolve più.
A Rezzato, i nostri paesani hanno fatto sapere che volevano mangiare polenta. Il comune ci ha portato una "caldaia" di rame: si comprava la farina e si faceva polenta col radicchio, polenta e salame. Si mangiava con le mani o col pirü come dicevano i lombardi.
A Sessa Aurunca gli abitanti del paese non mangiavano polenta, erano tutti pecorai.
Sono stato poco tempo fa in quel paese, con mio cognato. Il paese è sotto e io gli ho detto andiamo a veder sopra. Ma poi lui non aveva tempo perché voleva tornare a casa in serata.
A Rezzato i grandi li mandavano in una fabbrica di birra che c'è prima di arrivare a Brescia, una di quelle rinomate, e questi ragazzi che avevano finito la quinta elementare andavano a lavorare, per due lire al giorno.

Nastro 1996/3 - Lato B

Di Sessa Aurunca nel complesso il ricordo è positivo. Era buona gente ... poi c'è sempre l'ostile. Hanno detto quelle donne, anche un prete ha detto: «Potevate stare nei vostri paesi.»
A Sessa Aurunca eravamo in sei famiglie di Purgessimo, quelli che erano stati caricati sul camion, sull'unico camion. Eravamo sempre stati assieme. Erano i camion 15 Ter della Fiat, con le gomme piene. Era un camion grande, ci stavano tante persone.
Dopo la guerra 15-18, nella guerra successiva, io ero soldato a Sassari e li avevamo ancora in dotazione nella nostra compagnia.
[Nel camion 15 Ter] ci eravamo stati stretti stretti, in piedi. Arrangiarsi.
Non ci siamo portati via niente da casa. solo un po' di roba da vestire. Qualcuno è riuscito a portarsi un paio di lenzuola, un ricambio di biancheria, un po' di soldi o qualche ricordo caro.
A Rezzato, c'era con noi il marito di una sorella di mia madre, ed eravamo solo in nove. C'era un ragazzo che era andato a lavorare in una fattoria, là a Rezzato.
[...]
Siamo ritornati a casa nel mese di marzo del 1919, e in una casa qua nel centro del paese c'erano una trentina di prigionieri austriaci e ungheresi, tutti insieme.
Ai prigionieri hanno fatto esumare i soldati italiani che erano morti sulla collina durante la ritirata: erano 11 casse.
Durante la ritirata [i soldati italiani] erano arrivati non da Stupizza, ma attraverso le montagne [...] i nostri non sapevano neanche le strade.
Me l'ha raccontato mio padre che aveva voluto rimanere in paese, cosa è successo quella volta. A tutte quelle baracche gli italiani in fuga hanno dato fuoco, mio padre è andato là e ha portato via quattro lamiere che abbiamo ancora.
C'era un lanciafiamme, e c'era anche una scuola di lanciafiamme qua a Purgessimo; mi ricordo che si era ragazzi e si andava a vedere.
Mio padre diceva che i soldati sono venuti giù... Un italiano è stato colpito. È rimasto là a terra per due giorni e chiamava «aiuto!», ma nessuno aveva coraggio di andarlo a prendere, per paura che ci fosse una spia o qualcuno di guardia e così è morto. Gli hanno messo una croce, che c'era ancora là nel '19. L'hanno sotterrato proprio là, dove c'è quella catasta di legna vicino alla fontana della Madonna.
Lassù sulla montagna invece erano in undici, i morti. Erano su per la montagna, si vedeva la croce. Quando li hanno raccolti li hanno portati un po' nel cimitero di Cividale e un po' in quello di Udine.
A mio padre i tedeschi che stavano scendendo dietro alla gran massa degli italiani hanno chiesto:
«Dove sono gli italiani? Dove sono?»
«Eh, sono giù di là», indicando Cividale, e l'hanno lasciato andare.
Mio padre, Antonio, era del '62 del secolo scorso.
Mio padre aveva voluto restare a casa assieme al figlio (Antonio anche quello, classe 1904). Ha seguito per un po' la gran massa che scappava ma poi è tornato subito indietro, perché aveva le mucche, a casa.
C'era una croce [sepoltura] anche giù di qua, appena fuori del paese, poi ce n'erano altre due [...] sulla strada.
Dice mio padre che ha visto la truppa austriaca venire avanti: è venuto giù anche il comandante a cavallo e c'era un soldato italiano davanti a loro che correva e correva, ma a Cividale avevano fatto saltare mezzo ponte. Il soldato non riusciva a passare, ogni tanto veniva fuori per vedere se riusciva a trovare la strada per passare ... e in quello un tedesco gli ha mirato e lo ha fatto fuori. L'ufficiale ha estratto la pistola e ha ammazzato il soldato che aveva ucciso l'italiano.
[...]
Durante l'anno di occupazione, a Cividale c'era un monsignore decano, si chiamava Liva e lui sapeva il tedesco. È venuto come a patrocinare gli interessi dei parrocchiani, a dirimere le questioni, anche le ruberie, perché c'erano anche dei borghesi che andavano nella casa del confinante.
Mio padre che aveva un dieci dodici pezzi tra pentole e rami vari, li ha sotterrati, perché il rame era ricercato per le spolette delle bombe. Ma andavano a vedere dove la terra era mossa: erano i borghesi, i friulani stessi, gente del paese. Se non era di questo paese era di un paese vicino, oppure era gente che era scappata, disertori, gente che si nascondeva e che si metteva in combutta con questi civili perché avevano bisogno di soldi.
Mo padre aveva una mucca e ha sempre fatto il vitello. Faceva 24 litri di latte quando era fresca di parto, per due-tre mesi; dopo ne faceva dieci, undici. L'ha tenuta per tanti anni che era venuta tanto vecchia questa bestia. L'ha presa e l'ha portata dove ci sono quelle rocce là, sulla montagna, ma erano quelli del paese, che venivano a vedere e ti facevano la spia e [volevano soldi] «altrimenti ti denuncio.»
C'erano delle commissioni per la distribuzione, come poi al tempo dei partigiani, e se c'era qualcuno che aveva odio contro di te ... senza sapere perché e per cosa ti ammazzavano.
La gente dava un milione di corone per avere un litro di latte. Erano soldi grandi come fazzoletti. Mio padre un giorno ha detto «ma cosa vuoi fare di queste qua», ha preso le corone e le ha buttate sul fuoco. Tutti si sono scandalizzati: «Oh, Antonio "soci" - che vuol dire cieco, il soprannome - Antonio ha bruciato i soldi, che ricco che è». Ma poi quando era andato a fare il cambio non gli hanno dato niente. Vai, vai, gli hanno detto.
È venuto su uno giovane, un disertore che non era riuscito a passare il Piave. Con lui erano altri due e sono rimasti nascosti a casa. Mio padre li guardava e appena finita la guerra sono tornati a casa. Uno era di San Donà di Piave, giù di là. Io non li ho visti, perché quando sono tornato da profugo erano già partiti. C'erano delle spie, gente invidiosa [...] e sono venuti i soldati tedeschi con la baionetta in canna a cercarli, ma mai sono stati scoperti.
Degli altri due disertori, uno era originario di Mantova, proveniva da un ospedale militare perché aveva preso la sifilide e poi è morto.
Dicono poi, così raccontavano i vecchi, che c'era un comando di divisione che aveva la cassaforte, durante la ritirata. Da quella casa che si vede là davanti, sulla collina, sono venuti giù con il mulo portando la cassaforte del reggimento. Ora è un'osteria, da Mosolo; la chiamavano l'osteria a Mezzastrada, nei pellegrinaggi per Castelmonte. Là si dice che gli italiani abbiano lasciato la cassaforte. L'hanno sotterrata con l'accordo che quando sarebbero tornati avrebbero diviso il capitale, perché la chiave l'avevano portata via con sé i militari. Sono tornati poi i militari, ma dov'era la cassaforte? Quello dell'osteria gli ha detto: «Io non vi conosco, io non so niente». Da quella volta l'osteria ha cominciato a marciare bene, la casa è stata aggiustata, hanno messo a posto bene il tutto, e la gente di queste cose si è accorta...
Il paese di Purgessimo non è stato né bombardato né rovinato; aveva preso fuoco appena qualcosa... Quando da Luico sparavano di qua, tutti i proiettili sono andati nel terreno paludoso, c'erano un mucchio di buche.
Durante l'anno dell'occupazione c'era molta miseria. Morire di fame no, ma miseria sì. [...]
Quando siamo tornati, nel 1919 al mese di marzo, non siamo neanche andati a scuola perché avevano bombardato la scuola perché là dentro ci avevano messo un magazzino di bombe. Nel resto del paese era solo stato bruciato qualche fienile.
Questo monsignor Liva aveva la funzione di paciere. Più di una volta a mio padre diceva: «Se non porti il latte all'ospedale ti denuncio alle autorità tedesche, ti faccio mettere nel concentramento». Mio padre gli rispondeva: «Ma se non ne ho». Perché la mucca fa latte quei tre quattro mesi ma dopo non ne fa più, eh! E se fa un litro di latte dobbiamo pur mangiare anche noi. [...]
Ognuno cercava di arrangiarsi. Vicino a noi un uomo aveva undici mucche. Ognuno che veniva, tagliava la catena e si portava via la mucca. Non era tanto il tedesco che rubava, ma la gente del luogo che poi ti vendeva la carne al mercato nero, come è stato anche in questa guerra qua.
In quei giorni della ritirata di Caporetto è stata una baraonda, saranno restate qua in paese neppure ottanta persone, su duecento scarsi che erano. [...]
C'erano tante di quelle armi! Dio quante armi che c'erano! Munizioni da tutte le parti. In un posto poi le hanno fatte saltare, nel 20-21. Noialtri ragazzi si andava a vedere, le si trovava lungo i fossi, si avvisava la maestra e la maestra avvisava i carabinieri. C'erano quelle bombe con il manico che chiamavano "le signorine", oppure quelle altre che chiamavano "sipe". [...]
Il parroco di Purgessimo era scappato [...] Tanti qua del paese sono scappati anche con i buoi. Caricavano sul carro il maiale, e dicevano che poi per strada lo avrebbero ammazzato.
All'inizio in paese e dappertutto c'è stato un gran spreco e poi, dopo la prima fase, sono venute le truppe di stanza che non trovavano più niente ed erano inferociti.
Mi raccontava un vecchio che abitava nel mio cortile che il 1917 era stata una buona annata di vino. Non era Tocai o Verduzzo, quella volta. Era Malvasia, vino americano, ma allora bastava far vino, nero o bianco che fosse. Sono venuti giù i tedeschi e tam, tam, tam nelle botti: fuori il vino a volontà. Dapprima facevano bere il padrone, e diceva questo vecchio che in cantina c'era vino per terra alto fino al ginocchio.
Qualcuno aveva il maiale che ormai era quasi pronto. Mio zio che aveva il porcile proprio a portata di mano, là sulla porta di casa, si è visto tirar fuori il maiale e squartarlo. Lo facevano cuocere, mangiavano e bevevano e poi molti morivano, perché anche per loro erano mesi che stentavano in linea, lassù. Dopo davano la colpa ai paesani e volevano bruciare il paese...
Quando abbiamo dovuto scappare [...] qualcuno ha detto di essere andato fino a Manzano, qualcuno un pochino più in giù fino a Basagliapenta, Codroipo, ma poi sono tornati a casa con le pive nel sacco, senza riuscire a passare il Tagliamento.
[...] In principio, appena dichiarato guerra, ce n'era della roba! [...] A Sanguarzo c'era una fila di forni e facevano pane per tutti, ma montagne di pane.

martedì 12 ottobre 2010

Oreste Simonella, Chiarano TV

Nato nel 1911

L'intervista è stata registrata nell'abitazione del testimone, a San Stino di Livenza, durante un incontro fra amici organizzato da Giuseppe Gasparini (San Donà di Piave).

Nastro 1986/3 - Lato A    (da 06:20 a 25:29)                               19 gennaio 1986

Abitavamo a Chiarano e si era la prima casa dopo il fronte. Davanti a noi erano spariti tutti, profughi.
Da noi c'era il comando tedesco e saranno stati in cinquanta.
I tedeschi non volevano vedere ragazzini in casa, perché disturbavano e via discorrendo.
Mi ricordo che si aveva un barco dove mettevamo il foraggio, e si era in ventotto bambini sotto questo barco. Quando gli italiani l'hanno scoperto - perché più degli italiani non sono stati - hanno iniziato a bombardare. La prima bomba è caduta sul barco. Per fortuna ha battuto sul filo di ferro sovrastante. È esplosa in aria e non c'è stato neanche un ferito, ma noi bambini siamo scappati tutti.
Davanti alla nostra casa i tedeschi avevano piantato dei palloni [aerostatici] e mettevano delle rame [rami, frasche] perché gli italiani non vedessero.
Poco prima dell'offensiva [sul Piave, giugno 1918 - battaglia "del Solstizio"] i tedeschi sono stati otto giorni con i cavalli attaccati e con i carreggi pronti. Dovevano andare sul Piave, e sono andati sul Piave e là sono restati tutti. Alcuni di quelli che erano da noi sono tornati indietro e dicevano «mama tuti kaputt». Voleva dire che li avevano ammazzati tutti.
[Durante l'occupazione] siamo sempre rimasti a Chiarano. Andavamo in cerca di mangiare, che mangiare non ce n'era e mi ricordo che mi sono gonfiato le gambe ad andare "a carità". Si andava a carità di patate, di quello che si trovava. [...]
Si avevano 40 capi di bestiame e ce li hanno portati via tutti. Ci hanno lasciato solo due vacchette. [...]
Sono arrivati a San Martino.
C'erano i maiali nel porcile. Li ammazzavano e gli bruciavano il pelo con la paglia. Le interiora e tutta quella roba là la buttavano via e noi la si andava a prender su per mangiarla.
Il granoturco e le pannocchie distrutte tutte. Distrutti tutti i raccolti.
La cantina era piena di vino. "Bottoni" da venticinque [ettolitri]: gli sparavano con il fucile e a forza di bere si sono ubriacati. 
Su tutte le nostre cantine c'era una vasca che, se la botte spandeva, recuperava il vino. Si sono ubriacati, sono andati nella vasca e sono morti. Quattro di loro, quattro tedeschi, annegati; ubriachi che erano, morti tutti, annegati.
Il povero Carlo Sessolo, che abitava vicino a noi – era lui e la moglie con tre figlie piccole – i tedeschi ... i ongaresi [ungheresi], sono andati là. Hanno acceso il fuoco e hanno messo su una calièra de aqua. Quando sono andati per ammazzare il maiale, Carlo è saltato fuori con la forca. Sai cosa hanno fatto? Lo hanno preso e lo hanno piantato dentro alla caliera bollente. Il maiale gliel'hanno lasciato e sua moglie avendo visto questo "specchio" è rimasta sabóta [balbuziente]. Non parlava più.
Il povero Ernesto Simonella, che sarebbe stato mio zio ... si aveva un poco di pollame e si aveva un barco. Tutto questo pollame lo avevamo messo sopra il barco. I ongaresi, i tedeschi, i vol ndàrghe ciavàr e gaìne [vogliono andargli rubare le galline]. Lui corre fuori con la forca e se non scappa in camera nostra – che era una stanza nascosta – e non va sotto il letto, dio c. i o copa anca lù.
[...] Eravamo quaranta persone. Si aveva un muss [asino] e andavamo giù alle Basse a carità. Tornavamo a casa con due tre zucche e ... prova a mangiare polenta e sorgo, come l'ho mangiata io ... se te caghi altro! Poenta e sorgo o pestarèi de zuca con a poenta e 'na presa de sorgo.
D. Come sarebbero stati questi pestarei?
R. La zucca la si puliva e si faceva fuoco. La si faceva chiara come quando si pestano i fagioli e poi gli butti la pasta. Noi si faceva così, tutto per farne di più, perché si era in quaranta, mica uno, eh! Si buttava dentro la farina di sorgo macinata con un macinino a mano, sorgo di quello rosso [saggina], quello da scoati [scopini da secchiaio].
Si mangiava un pasto al giorno di quella, e al gabinetto non andavi più. Potevi affittarlo!
[...] Una volta i tedeschi ci hanno preso tutti e ci hanno chiuso su una stanza, da un'altra famiglia. Aspettavano ordini se avevano da ammazzarci tutti o lasciarci liberi. Hanno aspettato e siamo rimasti chiusi un giorno e una notte. Anch'io, tutti. C'erano donne e bambini. Tutti chiusi. Dopo una giornata e mezza ci hanno lasciati liberi.
Con le femmine [donne adulte] loro "no i se intrigava"; con le ragazze, piuttosto. Le ragazze dovevano star nascoste.
Ma più che ... non era proprio il vero tedesco, era l'ongarese el cancaro pi gross.
[...]
Dopo, aspetta, è scoppiato il colera.
D. Colera o spagnola?
R. No, colera, gli si diceva noi. E andavano nel lazzaretto, nel bosco di San Marco.
Erano rimasti senza mangiare e mangiavano pannocchie crude, cani, gatti.
Eh! Lo sai che hanno perso la guerra perché non avevano più niente da mangiare?
E mangiando queste robe è scoppiato il colera.
A noi borghesi, sebbene si mangiasse male, non ci è successo niente ... ma a loro, cara mariavergine, il lazzaretto del bosc de Cessalto [in realtà il testimone si riferisce all'ex "bosco di San Marco" che sorgeva in località Santa Maria di Campagna, al confine fra Chiarano e Cessalto] ... era pieno pieno, perché li portavano tutti là per l'infezione del colera.
D. Lei l'ha visto il lazzaretto? Come era fatto?
R. Eh, porco diose! Il lazzaretto era formato come un ospedale. Aveva due saloni, uno a destra e uno a sinistra dell'entrata e dopo c'era l'ambulatorio dei dottori.
Dottori là non ne dormivano, andavano una volta al giorno a visitarli.
In testa ai due saloni c'erano i gabinetti. Era come un ospedale, né più né meno.
Domanda di un ascoltatore. C'era qualcuno che si salvava?
R. Ehi! Non ne ho mai visto neanche uno. Morivano, e dopo andavano a seppellirli sui cimiteri di qua e di là.
Il colera era dal mangiare male, mangiavano pannocchie crude. 
Sai le pannocchie quando sono "mezzo grano"? Loro mangiavano di quelle là con un po' di zucchero, roba così; si vede che non erano abituati, più il caldo che c'era...
Di civili neanche uno dentro a quell'ospedaletto. Tutti tedeschi.
Noi abbiamo patito tanta fame, mangiato polenta di sorgo, quella sì, ma noi si era in casa, si avevano due vacche nascoste, si mangiava qualcosa.
I tedeschi sapevano che avevamo le due vacche ma lasciavano stare. Vedevano che eravamo in tanti: si era ventisette bambini, mica uno. C'erano sette spose che pompavano!
Gli facevano pecà [pena] questi figli e allora ti lasciavano le due vacche.
*
La nostra casa si trovava dove adesso abita Scolaro, in cao al bosc de San Marco.
I tedeschi tagliavano i róri [roveri] ... C'era un bosco di roveri che tu non hai neanche un'idea. C'erano dei roveri che ci volevano due uomini ad abbracciarli. Grossi! Guarda che con una doppietta non riuscivi a colpire un uccello che era sopra un rovere, da alto che era.
Il povero mio padre era boscaiolo, lavorava dentro nel bosco [...] c'erano segherie là. Tutti i ponti che c'erano sulla Bidoggia sono stati fatti con quei roveri. Il bosco era del comune.
I soldati tedeschi hanno distrutto il bosco. Hanno tagliato per loro, l'hanno adoperato là, e la rimanenza l'han portata via per far fortezze.
[...] Hanno portato via tutto i soldati della prima guerra: tagliato e portato via tutto. Ti dico che noi eravamo la prima casa dopo del fronte, eravamo di fronte al bosco.
*
I tedeschi, sai che sono arrivati fino a Meolo? Il Piave lo avevano passato [nell'offensiva del giugno 1918].
Gli italiani hanno lasciato che passassero il Piave e quando sono andati oltre – che sono arrivati con il fucile, senza riserve, con poche di munizioni – hanno "alzato" l'acqua del Piave e loro indietro non sono più riusciti a tornare.
Prima, [quando l'avevano passato, il Piave] era asciutto. L'hanno attraversato con cavalli e via discorrendo. Dopo, quando gli italiani hanno levà [lasciato scorrere] l'acqua del Piave ... sono rimasti dentro i cavalli, i militari non potevano più passare e per sgomberare l'acqua hanno dovuto dargli cannonate. Tra cavalli, carretti e soldati avevano fermato l'acqua. Hanno dovuto cannoneggiare il groviglio che si era formato nel Piave, per romperlo e permettere il deflusso dell'acqua che andava verso il mare.

Nastro 1986/9 - Lato A

Aggiunte e precisazioni, 30 gennaio 1986
[...]
Noi si era ventisette-ventotto ragazzini e si era tutto il giorno nel bosco, durante la guerra del '15-'18. Erano rimaste molte munizioni e tutti noi ragazzini, sai cosa si faceva? Si prendeva, si smontavano un poche di bombe, casse di polvere ... si faceva una riga di polvere di duecento metri che andava a finire sul deposito delle munizioni. Si dava fuoco alla polvere e si scappava. La polvere andava via ardendo, andava nel deposito delle munizioni e scoppiava fuori tutto. Quello era il giudizio che si aveva!
Non si vendevano questi residuati, munizioni, fucili, cannoni. Noi la munizione la si faceva saltare. L'altra roba sono venuti i soldati a prenderla dopo.

[Il racconto della guerra si interrompe con vari episodi di vita nell'antico bosco di San Marco]

[...] Dopo la guerra – che il bosco era andato distrutto – carestia di legna. Se a qualcuno gli occorreva legna ... andavano in questo bosco con un badile e una manera e in due ore ti buttavano fuori tre quattro quintali di legna. Tutta a stèle [schegge, stecche]. Avevano mannaie di quelle giuste ed era gente che conosceva la vena del legno. 
Terminata la guerra, il bosco è stato tirato ad agricoltura e hanno messo dei concentramenti di baracche di profughi, robe così.
Ci saranno state un migliaio di persone dentro, un cinque-seicento famiglie. In località Campagna [...] dove c'è il ponte sulla Bidoggia [lungo la Calnova], subito di lato c'è una strada che va dentro. Vai avanti mezzo chilometro e vedi il lazzaretto dove c'erano i militari con il colera. La nostra casa era fuori del bosco e adesso c'è una famiglia che anche loro sono in affitto con l'Ospedale. Abbiamo abitato là fino al 1934.
Il bosco con la guerra, sparito tutto. I tedeschi hanno portato via tutto, tagliavano con le asce. C'era il reparto boscaioli e anche i nostri boscaioli del paese andavano ad aiutarli. Avevano requisito tutti. 
boscariòi erano un "reggimento" per conto loro ... ma a tagliare il bosco, lo hanno tagliato tutto gli italiani mobilitati, roba di guerra. 
Facevano trincee, ponti. Là sulla Bidoggia, di ponti ce n'era uno ogni duecento metri. Era per andare alla guerra sul Piave [perché non erano sufficienti i ponti che già c'erano]: uno a Campodipietra, un altro sulla Calnova e dopo - dalla Calnova - un altro era in Grassaga. Così, frammezzo ai ponti [di pietra], con i roveri hanno fatto altri ponti.
Il bosco deve essere stato complessivamente sui 350 campi e nel tempo del 15 e 18 è stato tagliato tutto.
Prima, quando c'erano gli italiani, tagliavano i roveri che venivano segnati dalla forestale e facevano trincee con i roveri. Gli italiani tagliavano secondo le regole, quando è iniziata la guerra.
[...]
I tedeschi hanno fatto piazza pulita del bosco. Erano rimasti quattro roveri, proprio là "sopra" la strada, presso la famiglia M. Erano persone poco per bene, avevano fatto amicizia con i tedeschi e gli hanno lasciato quattro-cinque roveri.
D. Perché proprio a questa famiglia?
R. O spie dei tedeschi, o chissà cosa. Glieli hanno lasciati e dopo loro se li sono tagliati e se li sono portati via. Ormai il bosco era distrutto, non c'era più niente.
Quando sono andati via i tedeschi non c'era più niente al posto del bosco. Niente, niente. Netto. Un poca di ramada [ramaglia] e sóche [ceppaie].
In primavera hanno iniziato a darne tre campi a uno, quattro a l'altro. Andavano a cavarsi queste legne e le soche e l'hanno tirato ad agricoltura.
[...]
Il comune ha dato gratis il bosco alle famiglie. Un campo-due ciascuna, e in un anno: pulito tutto, non esisteva più neanche un bacchetto.
Dentro al bosco senza esagerazione ci saranno state una media di mille persone al giorno, ognuna sul suo pezzo di terra.
A noi hanno dato due campi. Mio padre è venuto fuori dalla famiglia patriarcale ed è andato ad abitare nel bosco in una baracca americana. Si abitava nella baracca e si andava a ripulire il nostro pezzo di bosco per mettere un poco di mais.
A quelli che andavano ad abitare nel bosco con la baracca gli assegnavano un pezzo di terra. Il resto del bosco l'hanno dato a chi se lo voleva prendere, operai...
A quel tempo là lavori non ce n'erano ... e carestia di legna. Andavano nel bosco, pulivano il loro pezzetto di terra e piantavano mais, patate, fagioli e robe così.

1986/9 - Lato B

[...] I baraccati sono rimasti là per molto tempo.
Noi abbiamo fatto dieci anni e siamo venuti via nel '33. Eravamo orfani, perché mio papà è morto del '20.
Le baracche nel bosco devono esserci rimaste per altri vent'anni, finché è venuta fuori la legge che ha detto che tutti quelli che erano nelle baracche dovevano andare nelle case e hanno fatto le case rurali, quelle casette lungo la strada che una volta non c'erano.
Ci saranno state 6-700 baracche. 
Gli chiamavano Matausen [Mauthausen] perché era un concentramento di poveri [Cfr. Giulio Boa, Far West trevisan, 1987. Vita nelle baracche al "canile" di Treviso, sempre dopo la 1GM].
Quando qualcuno di noi delle baracche andava fuori, magari in paese, gli dicevano «sei da Matausen, taci!». Matausen vuol dire miseria.
[...]
La nostra baracca era americana. [...] Era chiamata americana perché quelle baracche le adoperavano gli americani quando sono venuti a combattere in Italia bevendo la birra.
Dopo loro si sono ritirati e ci hanno lasciato tutte le baracche che le hanno date ai poveri. 
Io ho ancora il tetto della baracca, sul barco. Quando abbiamo disfatto la baracca, il tetto l'abbiamo messo sul barco, ed è ancora là [dove Simonella abita ora, nella bonifica delle Sette Sorelle, a San Stino di Livenza]. È ancora sano...
Quando siamo venuti via, i nostri due campi li abbiamo lasciati al comune perché si pagava l'affitto. Abbiamo disfatto la baracca e l'abbiamo portata qua nella palude dove l'abbiamo usata finché si è guastata "torno torno" [alla base] e non stava più in piedi. Allora abbiamo fatto su una casetta e l'abbiamo coperta con il tetto della baracca. Siamo andati avanti vent'anni e dopo abbiamo comprato dove siamo ora (sempre nella zona). 
Abbiamo buttato giù la casetta là, costruito questa casa qua e il tetto della casetta - che era quello della baracca - è sopra il barco. Quanti anni ha, quel tetto? [...]
Ritorna a parlare della vita nell'ex bosco di San Marco
[...] Più di asini là non c'erano, in quel concentramento. Si aveva uno stradone, per andar fuori, che quando andava bene sarà stato un metro di fango. Si aveva un pozzo al quale si servivano tutte le famiglie; meno male che non è venuto il tifo. Eravamo senza acqua e il comune ci ha fatto nel centro un pozzo. Ognuno, quando gli occorreva l'acqua, andava al pozzo con la mastella e la corda e si tirava su l'acqua; poi si portava via la corda e la mastella.
Pensa: con cento mastelle, con mille mastelle che vanno giù nel pozzo, che acqua buona poteva esserci stata?
Non è scoppiato il tifo perché Gesù Cristo ha detto che se gli mando il tifo muoiono tutti.
[...]

domenica 10 ottobre 2010

Annunzio Putto, Segusino TV

Nato il 24 marzo 1902

Nastro 1994/11 - Lato B                         24 agosto 1994

[Dopo Caporetto] per un po' di tempo siamo rimasti qua e dopo ci hanno dato lo sgombero. Metà degli abitanti li hanno mandati dalle parti di Vittorio Veneto e Fregona, metà siamo andati su per Feltre. Io sono andato a Feltre.
Siamo partiti a piedi, di notte, quando avevano già iniziato ad arrivare le granate degli italiani.
Con i riflettori gli italiani guardavano la strada verso Vas dove noi camminavamo. Hanno visto che si trattava di borghesi e non hanno più sparato. Erano qua sul Monfenera.
Siamo partiti di sera tardi.
Il prete invece è andato dall'altra parte, verso Vittorio Veneto.
Mezzi da una parte e mezzi dall'altra, ogni gruppo ha girato per conto suo.
A Feltre sono stato fino a febbraio e poi sono andato su a Santa Giustina.
A Feltre abbiamo trovato un palazzo lasciato vuoto dai padroni, siori che erano scappati. Siamo andati su in soffitta di questo palazzo e abbiamo bruciato libri tutta la notte perché era freddo. Era il tredici dicembre e c'era un po' di neve per terra. Non so che libri fossero, erano libri, romanzi. Il palazzo era di certi signori Sasso, ma non ne sono del tutto sicuro, so solo che erano scappati.
Eravamo in 19 in questo palazzo, noi e altre tre famiglie. 
Noi eravamo la mamma (Flora Zanella), il papà (Pietro) e tre figli: Luigi (1905), io (1902) e Giovanna (1896). In totale cinque persone. Ora di questa famiglia sono rimasto io solo. [...] 
C'erano inoltre la famiglia di Tomaso Doro e i fratelli Antonio e Angelo Furlan, nostri vicinanti.
A Feltre ce la siamo passata male. La prima notte abbiamo bruciato i libri in soffitta. Abbiamo potuto far fuoco perché il pavimento era di "terrazzo", non di tavole.
Era una bella casa, piena di soldati ungheresi che poi sono andati loro di sopra e noi ci hanno messo al piano terra, in una cucina dove si faceva fuoco per tutti 19 e si dormiva per terra.
Per mangiare si andava in cerca di farina, a Feltre ma soprattutto fuori per i paesi. Siamo andati fino a Fonzaso. Erano soprattutto mio papà e mia mamma che andavano "par carità". Qualche volta andavo anch'io – che allora avevo quindici anni – specie nel primo periodo quando eravamo a Feltre. Poi quando sono andato a Santa Giustina ho lavorato, ho trovato un padrone e facevo il calzolaio.
In città a Feltre erano rimasti quasi tutti gli abitanti. Erano scappati i siori perché erano stati più furbi di noi. Era pieno di tedeschi e i negozi erano pieni di cavalli. Nei negozi non c'era più niente: portato via tutto e dentro vi avevano messo i cavalli.
Gli ungheresi che erano sulla nostra casa facevano i forneri, bekerèi gli si diceva noi ... e si prendeva qualche pagnottella. Avevano dei forni mobili, su macchine e camion.
Ma ormai si iniziava a non trovare quasi più niente, allora siamo scappati e siamo andati su a Santa Giustina che è un paese più agricolo e si riusciva a trovare qualcosa in più da mangiare.
A Santa Giustina siamo stati in casa di ... non ricordo il nome. Nella casa abitava una signora che aveva una bambina di un anno e mezzo-due e che aveva il marito militare.
In quella casa eravamo la nostra famiglia e quella di Doro: una decina di persone.
Io ho trovato lavoro da scarper [calzolaio] e così avevo da mangiare a mezzogiorno, ma fame ne avevo sempre tanta lo stesso.
C'era una signora che abitava là vicino e che in casa aveva un comando tedesco. Ogni tanto mi chiamava e mi dava un piatto di pastasciutta perché sapeva che ero profugo. Non mi ricordo più come si chiamasse, so che aveva una cucina di militari nella sua casa.
El scarper invece più di tanto non mi poteva dare da mangiare perché aveva una famiglia con sette figli da mantenere. Era un uomo sulla mezza età e si chiamava Adriano. Sapeva il tedesco come il padreterno perché era stato in Svizzera tanti anni. 
A Santa Giustina c'erano questi fornai e noi avevamo lavoro. Si preparavano le scarpe, le si rivoltava e in cambio si prendevano tante pagnotte di pane. Il padrone aveva il contratto di lavoro in cambio di pane. Fin che c'erano loro il calzolaio stava bene. Dopo io l'ho lasciato e sono andato da un altro scarpèr, perché da Adriano non c'erano più i forneri: erano andati via e lui non mi voleva più dare da mangiare.
Per fortuna in paese c'era un altro calzolaio. [...]
I fornai avevano da mangiare di più perchè dall'Ungheria veniva il grano bianco; bella farina e bel pane bianco.
L'altro calzolaio di Santa Giustina come paga mi dava da mangiare, e io sono andato da lui. Si chiamava B. e aveva la bottega vicino alla stazione. Era vedovo, con un figlio un po' deformato perché l'aveva avuto con sua figlia. La figlia nel frattempo era morta. Tutti morti, morta la moglie e anche la figlia. Quel calzolaio mi ha trattato abbastanza bene e mi dava da mangiare.
La fame l'ho patita soprattutto a Feltre, perché i feltrini stessi dentro in città non avevano niente.
Andavano fuori "par carità" mio papà e mamma, su per Fara, Foén, fino a Fonzaso e qualcosa portavano a casa.
Pochi soldi avevamo portati via da casa. So che a S. Giustina c'era un'altra famiglia che stava abbastanza bene e ci ha prestato dei soldi, quelli italiani, con i quali si riusciva ancora a trovare qualche chilo di farina dal mugnaio. Nei soldi tedeschi invece non c'era nessuna fiducia. In questa famiglia di Santa Giustina avevano anche dei marenghi dalla Svizzera e con i soldi italiani e con i marenghi si comprava un poca di biava che si macinava nei mulini che ancora funzionavano. In particolare noi andavamo dal mulino di un certo Dal Pont che mi sembra funzionasse con l'acqua del Cordevole.
Poi mio padre e mia sorella sono andati a lavorare con i tedeschi e gli hanno fatto fare non so che lavori. So che mentre io andavo a fare il calzolaio loro andavano dai tedeschi che a mezzogiorno gli davano la minestra e poi gli pagavano anche qualche corona. Lavoravano soprattutto sulla strada.
Per le donne e le ragazze il pericolo è stato quando si era ancora a Segusino, quando sono arrivati i tedeschi. Siamo rimasti in paese quasi un mese, poi siamo andati su a Miliès. Tanti sono scappati sui casolari in montagna. 
Quando c'erano le famiglie isolate così, là aggredivano le donne. Ne hanno violentate tre [...] che non hanno avuto figli come conseguenza. Erano i germanici soprattutto, poi sono rimasti gli austriaci.
I germanici erano terribili, più cattivi, facevano spavento. Erano loro fatti così. Invece gli austriaci erano come nostrani, più boni, e poi gli austriaci sono un po' anche cattolici e avevano si vede un po' più di misericordia nei confronti della popolazione.
Per il mangiare i tedeschi erano padroni loro. Hanno pestato tutto, hanno portato via le vacche e i vitelli.
Su questa casa che c'è qua in paese vicino all'osteria, lungo la strada c'erano dentro gli austriaci. Arrivano i germanici: fuori gli austriaci ed entrano loro.
A Miliès ci hanno trovato subito perché i tedeschi arrivavano tutti da quella parte, dalle montagne. Da Valdobbiadene facevano il passo di Marièch e venivano giù per la valle, di Miliès. Passavano di là perché altrimenti gli italiani che erano sul Monfenera li avrebbero visti. Lassù a Marièch non c'erano cannoni, i cannoni li hanno portati lungo le rive quaggiù.
Siamo rimasti a Miliès per un mese, poi sono stati i tedeschi ad ordinarci di partire.
A Miliès le bombe non arrivavano, a Segusino sì.
Quelli che erano rimasti a Segusino sono partiti quindici giorni prima e sono andati per Vittorio Veneto e Fregona con il parroco Don Antonio Riva. 
Con il parroco sono partiti metà dei paesani. Si sono avviati verso Valdobbiadene, anche loro sotto il tiro ... ma si vede che poi hanno visto che erano borghesi e non hanno più sparato. Il sindaco comunque è stato ferito durante il percorso, dalle parti di San Vito. Beniamino Verri, si chiamava. È stato ferito ad un piede, ma è riuscito comunque a proseguire. Il sindaco non era scappato.
Tanti erano scappati, quelli un po' più intelligenti.
A casa mia sono stato io a non voler scappare. È stata colpa mia, proprio mia. Mi sembrava impossibile che la guerra dovesse fermarsi qua. Mia mamma e mia sorella invece dicevano «'ndón via» e avevano la carrettina pronta. Si sarebbe caricata un po' di roba e si sarebbe andati di là del Piave. Bastava passare il ponte di Fener e si sarebbe stati a posto.
Neanche il parroco è scappato. Voleva stare con la gente.
Io speravo che fosse un passaggio, che andassero avanti e invece si sono fermati proprio qua.
Tanti sono morti, da fame più che sia. Chi non era messo troppo bene col fisico ci è rimasto, a Fregona soprattutto.
Invece noi e la famiglia Doro ce la siamo cavata tutti dieci.
[Finita la guerra], appena scappati i tedeschi noi siamo ritornati, siamo venuti giù di corsa. Li avevamo visti partire, con gli italiani che gli correvano dietro. Mi ricordo che sono arrivati gli italiani e noi eravamo matti dalla contentezza. Mi vengono ancora i brividi e mi commuovo a pensarci...
Abbiamo trovato un camion che veniva giù di qua a far rifornimento, perché i ponti erano tutti saltati e ci hanno preso su. Era un "15 Terzi" e ci hanno portato fino a Segusino.
Qua abbiamo trovato tutto un quarantotto. Per fare fuoco e riscaldarsi avevano levato i suoli e le travi delle case. I muri comunque erano in piedi, la nostra casa aveva preso una granata su un fianco ma era rimasta su; tante invece erano state abbattute.
Il comune di Quero ha avuto le conseguenze peggiori. Le trincee tedesche erano sulla collina che domina il paese, il "Pianà", e da là sparavano sul Monfenera.
Ritornati a Segusino ci siamo arrangiati in qualche modo nella nostra casa; abbiamo trovato una stanza che aveva ancora il suolo e là ci siamo messi.
[Quando sono arrivati, nel 1917], i tedeschi hanno adoperato le botti per fare le passerelle sul Piave. Mollavano il vino e portavano le botti laggiù, al termine della strada che dal paese porta al Piave.
A noi non hanno dato la baracca, siamo rimasti sempre a casa nostra. Tanti invece hanno avuto la baracca.
La casa era di nostra proprietà e dopo ci hanno dato dei soldi, è venuta la perizia.
Appena arrivati, gli italiani non ci hanno dato niente; dopo sì che sono venuti con i viveri.
Gli italiani sono arrivati subito dopo che i tedeschi erano andati via. Gli erano sempre adosso, ai tedeschi. Infatti un italiano, poveretto, è stato ammazzato proprio sull'ultimo giorno, dopo tre anni di guerra, e proprio là a Santa Giustina. Era un soldato anziano, avrà avuto sui 35 anni. Era un ciclista ed è stato colpito allo stomaco, lungo la strada. Io non l'ho visto ma sentivo che dicevano che era successo: gli austriaci si ritiravano facendo resistenza.
Sono cose che non dimenticherò mai e mi commuovo a ricordarle.
I giovani non sanno queste cose e, se le racconto, a loro sembra impossibile che siano successe.
Di tutto Segusino, secondo me, ben 5-600 non sono tornati, per malattie fame o altro: tanti! ... più che sia i vecchiotti. Si può dire che siano morti più civili nel solo ultimo anno che militari durante tutta la guerra.
All'epoca Segusino aveva tremila abitanti, adesso invece siamo duemila.
Nella mia vita io ho sempre continuato a fare il mestiere di calzolaio, in paese. Mi sono sposato vecchio, avevo quasi cinquant'anni e ho avuto una figlia quando avevo 52 anni.
Oramai sono rimasto il più vecchio del paese, come uomo; di donne invece ce ne sono ancora cinque di più vecchie.
Io non ci arrivo no ai cento...

Nastro 1994/35 - lato B

Aggiunte e precisazioni (16 settembre 1994)
Mia mamma era casalinga e mio papà ha fatto il carabiniere per una trentina d'anni e poi, ritornato a casa, ha comperato un po' di terra e ha fatto la guardia campestre.
[...]
Da Segusino, quando siamo partiti per Miliès, la strada è: Riva Grassa e Stramare. Da là venivano anche i tedeschi. C'era la strada, ma non asfaltata come adesso.
Per andare a Feltre siamo ritornati in paese e abbiamo preso la strada per Vas. Abbiamo passato il ponte sul Piave e siamo andati a Feltre. 

sabato 9 ottobre 2010

Renato Schioppalalba, Varago TV

Nato il 6 febbraio 1903

Nastro 1994/1 - Lato A                                     Giovedì 3 marzo 1994


Renato Schioppalalba, Varago di Maserada, 1903
Sono nato nel "palazzo" [villa veneta] che si vede dietro la chiesa e che in questi giorni stanno restaurando. I miei antenati erano signori da Venezia, proprietari di quel palazzo e di 160 campi di terra in paese. Inoltre avevano un negozio di pellicceria a Venezia. Un fratello di mio bisnonno era un canonico che è stato seppellito nella chiesa di Santa Maria del Giglio a Venezia.
Mio padre si chiamava Elia e mia madre Tersilia Pianca, rispettivamente nati nel 1872 e nel 1881. Hanno avuto cinque maschi e una femmina.
[...]
Sono andato a imparare il mestiere di fabbro a 13 anni nel 1916, a Vascon, da Cuzzato. Era un vecchio che aveva i figli soldati. Aveva una botteghetta da fabbro, prima dei portici.
Sono rimasto là un pochino e poi sono andato a Spresiano a fare il maniscalco in una bottega mandata avanti da due ragazzi perché il padre era morto da poco; il più vecchio dei due era del 1900. Mettevamo i ferri ai cavalli e le ciape [appositi ferri] ai piedi dei buoi.
All'epoca di Caporetto lavoravo a Spresiano. 
La bottega di maniscalco era proprio in centro, un poco prima di dove hanno poi costruito il monumento, lungo la strada statale. Ricordo che lungo la strada c'erano tutti paracarri a intervalli regolari. A fianco della chiesa di Spresiano c'era inoltre un portego che passava sopra la strada, da un lato all'altro. Sopra c'erano delle abitazioni, di cui era proprietario o un Mingotto o un Beltrame (non ricordo). In paese lo chiamavano "el portego de Bressan" e sotto al portico c'era uno stallo per i cavalli. L'osteria di Beltrame era più indietro, prima del monumento, dove c'è l'osteria anche adesso.
Sotto il portico si fermavano i cavalli. Avevano la possibilità di mangiare l'avena sulle mangiatoie e anche si riparavano se pioveva. Lo stallo era di proprietà di Bressan.
La nostra bottega da maniscalco era proprio piccola, 'na botegheta: sarà stata tre metri per tre. Oltre alla nostra bottega in paese c'era un altro maniscalco.
Io ho sempre avuto passione di fare il fabbro e per le macchine, fin da piccolo. Ricordo che quando venivano in paese le macchine da battere frumento, quelle a vapore ... "mi iera mato pa e machine". Mio padre voleva farmi studiare, o ingegnere o dottore, ma io niente, avevo passione per le macchine.
Mio padre faceva il tessitore, come i fratelli Monti. Lavorava in proprio, a casa sua e ha lavorato fino all'epoca di Caporetto. Faceva la tela: tela da braghe, tela da camice. Aveva un unico telaio. Faceva la tela e poi la vendeva a metri. Lavorava soprattutto il cotone, che andava a comperare a Treviso.
Ritirata di Caporetto
Ricordo tutto questo via vai di gente che vedevo dalla nostra botteghetta. Profughi che scendevano con i carri e i buoi, con i cavalli. Venivano giù dal Friuli, perché i tedeschi venivano avanti e loro scappavano. Tutta una processione di gente. Soldati con i camion. Chi andava, chi veniva, un'enorme confusione. Finché l'ultima sera che siamo rimasti in paese abbiamo iniziato a sentire le sciopetae qua sul Piave.
Così mio padre ha preso la decisione: «Fagoti e via!»
Abbiamo fatto fagotti. Eravamo cinque fratelli e io era il primogenito. [...] Siamo partiti a piedi portandoci dietro quel po' di roba che si poteva prendere. 
Avevo messo i viveri dentro a un sacco legato sopra e legato sotto in modo da poterlo mettere in spalla a mo' di zaino. Dentro ci ho messo del pane, dei salami, vino, formaggio, farina da fare la polenta, fagioli, cipolle ... quello che c'era.
Mio padre su un altro sacco più grande aveva messo dentro le pignatte, i mestoli, i cucchiai, i coltelli.
Nel palazzo di famiglia sono rimasti il fratello e la sorella di mio padre (Bepi e Maria), che erano da sposare. Sono rimasti "par tendarghe [vigilare] a so roba". E vi sono rimasti per tutta la guerra. Non gli è successo niente anche se il palazzo è stato colpito da dodici granate (ma è rimasto in piedi).
Dentro al palazzo si è messo il comando di presidio e gli zii si sono stabiliti in una loro casetta adiacente. La scritta "comando di presidio" è rimasta impressa ancora per anni sulla facciata, sopra la porta centrale.
Avevamo tutti un sacco in spalla, un saco par omo
Mia mamma aveva in braccio mio fratello Bepi; mia sorella che era piccola aveva solo un fagotèl, una roba piccola. Ognuno secondo le sue possibilità. Tutti a piedi, senza carri.
Siamo partiti da casa nostra di sera, noi cinque fratelli con il papà e la mamma; siamo partiti per andar a prendere il treno a Treviso. Era sul tardi, circa le otto della sera. Niente dormire, camminare a piedi nel buio, colonne di militari che scendevano e che salivano.
Quando siamo arrivati a Lancenigo – dove ora c'è la pizzeria e all'epoca c'era una fornace (fornace Bettiol) – abbiamo trovato una colonna di militari con i camion 18 BL che risalivano la strada verso il Piave.
Mio padre ci chiamava sempre per nome, perché era buio e aveva paura di perderci. C'era un'enorme confusione, movimento di soldati e di profughi; ci tenevamo per mano, con i sacchi in spalla.
Sulla colonna di militari che risalivano si trovava quella sera anche il proprietario dello stabilimento Monti, che era il figlioccio di mio padre: si chiamava Bruno Monti, e quando ha sentito mio padre chiamarci ha chiamato a sua volta: «Sàntolo! Aristide!»
Ci ha chiamato e ha chiesto a mio padre:
«Santolo, dove andate?»
«Eh – ha risposto mio padre – vuoi che restassimo qua che si sentivano già le schioppettate? Vado via, vado via.»
Monti gli ha detto: «Spetè santolo, che chiedo al tenente se vi può portare avanti un po' con il camion, magari fino a Treviso.»
È andato a chiederlo al tenente ma è ritornato dopo poco dicendo che no, non era proprio possibile, perché c'erano molti blocchi, uno a Lancenigo, uno al capitello di Sant' Artemio...
Abbiamo continuato a piedi. Abbiamo camminato per tutta la notte; piano, perché c'erano dei bambini piccoli. Alle prime luci del mattino, verso le sei, siamo arrivati alla stazione di Treviso, senza aver dormito niente. 
Non pioveva, era una notte nuvolosa.
Le strade erano piene, c'era confusione. La strada non era asfaltata.
Nessuno era passato ad avvisarci e a farci partire. Siamo partiti per iniziativa di mio padre. Il prete è rimasto in paese.
Mio padre originariamente era intenzionato di dirigersi all'isola d'Elba, perché aveva conosciuto in paese un militare che gli aveva detto di andare a casa sua, all'Elba, dove ci sarebbe stato solo suo padre e sua madre che li avrebbero di sicuro accettati in casa.
Arrivati alla stazione di Treviso c'erano le crocerossine che distribuivano generi di conforto. Ci hanno dato del caffelatte e dei biscotti. C'erano anche delle suore.
Verso le otto ci hanno imbarcati in un treno e siamo partiti con quelle vaporiere di una volta, ciuf ciuf ciuf ciuf, e avanti fino a Bologna, dove siamo arrivati alla sera. Dalle 8 della mattina alle 8 della sera.
A Bologna ci hanno mandato in sala d'aspetto. Anche là c'erano delle crocerossine che ci hanno dato caffelatte e biscotti.
Siamo rimasti a Bologna per la notte. Al mattino ci hanno caricati su un treno e ci hanno detto che si doveva andare a Pistoia, dove forse c'era posto per i profughi.
Siamo arrivati a Pistoia verso le 10 e siamo stati fermi alla stazione, in treno. Poi sono venuti a dirci che posto non ce n'era, e bisognava andare a Pescia.
Metti in moto ancora il treno e andiamo a Pescia. A Pescia ci tengono fermi un'altra ora e neanche là c'era posto; bisognava andare a Montecatini.
Intanto si era fatto il primo pomeriggio e finalmente siamo arrivati a Montecatini dove abbiamo trovato posto.
Ci hanno sistemati da un'affittacamere. [...] Eravamo su due stanze e una cucina fuori della casa, di là del cortiletto, su un'altro edificio.
L'affittacamere era una donna anziana, con una nipote, non del tutto apposto con la testa.
Siamo rimasti a Montecatini fino alla fine della guerra.
Ci trovavamo bene e poi andavamo anche a lavorare.
All'inizio ci passavano 250 grammi di pane al dì a testa, con la tessera; e anche il riso e la pasta, ma tutto con la tessera.
Ci davano un sussidio di una lira e 50 a testa e due lire al capofamiglia.
Certo che duecentocinquanta grammi di pane noi lo mangiavamo già prima de far marenda [prima colazione]. Allora io e mio fratello Aristide andavamo per la campagna con il sacco. Mio padre ci aveva dato dieci lire d'argento per comperare la farina. Noi chiedevano ai contadini se avevano un po' di farina da vendere e questi contadini rispondevano: «Oh bimbo mio non ce n'abbiamo manco per noi! Il governo ci ha sequestrato tutto, ma se ne volete una brancata.» Avevamo un sacchetto per la farina e un sacchetto per il pane e così un po' di qua un po' di là alla sera venivamo a casa con i sacchetti pieni di roba e tutta la famiglia poteva mangiare.
E soldi non ne volevano.
Tutti i profughi andavano in giro per le case in cerca di mangiare.
Per far fuoco andavamo per le pinete in cerca di pigne. I pinoli erano già usciti e le pigne cadevano per terra; si andavano a raccogliere le pigne con il sacco e con quelle si faceva fuoco. Si andava in collina, sulle montagne che circondavano Montecatini, io e i miei fratelli Ferilio e Aristide. Ci eravamo fatti prestare un carretto e con i sacchi si andava su, e in qualche maniera si faceva fuoco per una settimana. Per mangiare avevamo un focolare
Niente stufa in camera, niente gabinetto in casa ma fuori.
Poi siamo andati a lavorare, io e mio padre, in un'officina in cui si producevano granate. Officina che era venuta profuga anche lei a Montecatini, da Castelfranco Veneto: l'officina Rebellato, di cui era capotecnico militarizzato Menon Guglielmo da Roncade. In quest'officina lavoravano una cinquantina di persone sia maschi che femmine a turni continuati notte e giorno. 11 ore a turno più un'ora di riposo a mezzogiorno e una a mezzanotte.
Io avevo poco più di quattordici anni e mi hanno messo a lavorare al tornio (avevo già un'infarinatura da casa). Si trattava comunque di un lavoro "fisso": tirar giù il pezzo finito, mettere su quello grezzo e mettere in moto il tornio che era già programmato. Lavoravo "a contratto" [a cottimo] e sono arrivato a prendere sette lire al giorno – mi sembra che fossero circa 20 centesimi al pezzo – mentre la paga normale era sulle tre lire e mezzo al giorno. Cioè prendevo circa il doppio; ed erano bei soldi.
Mio padre l'hanno messo invece al montaggio, dove provavano le ogive e i diaframmi dentro. 
Facevamo granate da 149 e da 105 mm diametro, lunghe circa mezzo metro.
Mai nessun incidente in fabbrica e neppure scioperi o proteste.
C'erano sia uomini che donne ma le donne erano di meno. Inoltre c'erano una ventina di operai specializzati con la fascia tricolore sul braccio che coordinavano il lavoro; cioè impostavano il lavoro delle singole macchine in modo che noi non facevamo alto che prendere il pezzo grezzo e portarlo a compimento.
I militarizzati erano una specie di capi. Poi c'era il capotecnico Menon che era sopra tutti.
Nessun problema in fabbrica, di nessun genere.
Con la gente del posto mi trovavo bene, ma in fabbrica lavoravano prevalentemente profughi. Pochi erano del posto; gli operai erano profughi e militarizzati.
Montecatini anche all'epoca aveva alberghi e l'ippodromo.
I toscani ci trattavano bene, altro che qualche volta dicevano, magari ai bambini loro: «Stai zitto sennò ti faccio mangiare dal profugo!». 
Però non c'era ostilità nei nostri riguardi. Noi ne abbiamo conosciuti tanti del posto.
Recentemente – sette anni fa – sono ritornato a Montecatini. Ho rivisto la casa d'allora. Non c'è più l'affittacamere ma la casa, sia pur rinnovata, c'è ancora e si trova all'angolo di Via del Salsaro [Salsero]. In quell'occasione ho trovato l'attuale proprietario e gli ho detto che nel 1917 ero stato profugo là, e il proprietario mi ha fatto festa e mi ha invitato in casa sua.
Siamo ritornati a casa appena finita la guerra. 
Già il giorno 10 [novembre 1918] eravamo a Varago, io e mio padre, anche se non si poteva. 
Non ti davano il permesso di ritornare in quella che era la zona di guerra, ma noi siamo ritornati da "clandestini", senza permesso e senza niente. Un "franco" in tasca l'avevamo, perché da profughi eravamo riusciti a metter da parte 10.000 lire. Tutti soldi che tenevamo in casa, non in banca; tutte carte da mille, quelle grandi.
Arrivati di sera alla stazione di Mestre vi troviamo sentinelle dappertutto che ci chiedono cosa facciamo là. Con le sentinelle non si poteva pensare di uscire... Siamo rimasti un po' in sala d'aspetto e poi siamo andati un pochino in giro all'interno della stazione, fino all'una circa. All'una, me lo ricordo come fosse adesso, c'è la sentinella seduta là con il fucile sulle ginocchia, che dormiva. Abbiamo provato a fare un po' di rumore e il soldato non si muoveva. Mio padre ha detto: «Proviamo ad andar fuori». E pian piano, pian piano ce l'abbiamo fatta ad uscire dalla stazione.
Siamo arrivati a casa a piedi. Dall'una di notte alle undici e mezzo del mattino. Lungo la strada c'erano camion di soldati, ma non ci hanno fermato.
Quando siamo arrivati a casa nessuno ci aspettava. Abbiamo trovato i fratelli del papà che - sorpresi - ci hanno chiesto: «Qua siete voi? come mai ?»
Poi io sono rimasto a casa, mentre mio papà è ritornato a Montecatini.
A Montecatini eravamo venuti a sapere subito di questo armistizio.
La notizia si era diffusa subito e non si è andati più a lavorare in officina. Tutti fuori a far festa, una festa che non so. Tutti in piazza con le bandiere a sigàr [urlare] che la guerra è finita.
Quando sono arrivato nei miei campi a Varago, proprio dove c'era un filare di viti ci saranno stati due quintali di cartucce, baionette e munizioni varie. Perché nei nostri campi, oltre ad esserci il comando nel palazzo, c'era un accampamento di militari con le tende. E proprio a cinquecento metri dal centro del paese, sulla nostra proprietà, c'erano quattro piazzole di cannoni da 149, lo stesso tipo di granate che facevamo noi.
Tutte le siepi di acacie erano sparite. I soldati avevano tagliato tutto. Secondo me era per facilitare il transito delle truppe che dovevano passare dappertutto. Però a ben pensarci le viti erano rimaste in piedi. Allora forse le siepi erano state tagliate per far legna da fuoco...
A casa nostra, nella stalla, aveva trovato alloggio la Settima compagnia inglese dei pontieri, quella a cui è stato dedicato il monumento di Salettuol. Quando noi siamo tornati gli inglesi erano già partiti perché erano andati a fare il ponte sul Piave e ci hanno rimesso le penne quasi tutti, tanto che gli hanno fatto il monumento. Ed erano partiti proprio da casa nostra, dove avevano dormito sulla tèda [deposito di fieno sopra la stalla].
La nostra campagna era tutta devastata perché vi avevano camminato sopra con i camion, con i trattori, con i cannoni. La nostra terra in linea d'aria è distante circa due chilometri dal Piave, ma non c'erano trincee e non c'erano neppure morti.
Ma ne ho visti di morti, sul Piave. Perché sono andato subito sul Piave – dalla parte dei tedeschi sulla sinistra – e sono passato sulla passerella a Salettuol (ma ce n'erano diverse di passerelle). Vi sono andato assieme ai miei amici, a quelli che non erano andati via, perché in tanti erano rimasti a Varago, anche ragazzini della mia età o più giovani.
Siamo andati subito a vedere e ricordo un ricovero. Era stato sfondato perché vi era caduta una granata che aveva forato i travi di acacia, sopra i quali era stata distesa della terra. Dentro là ho visto tre morti tedeschi che erano ancora là dopo una settimana.
La campagna un po' alla volta l'hanno messa a posto mio zio e mia zia che erano senza figli e che lavoravano sette campi di terra [...].

Nastro 1994/1 - Lato B  fino 19:37 [su cassetta]  venerdì 4 marzo 1994 

[...]
00:45 Monti, quello della tessitura, era anche lui come mio padre un piccolo tessitore di paese. Erano alcuni fratelli ma due in particolare facevano quel mestiere: Venerio ed Evaristo, mentre Bruno, che era figlioccio di mio padre faceva il falegname. I due tessitori avevano un telaio ciascuno e inoltre avevano altri telai per alcuni dipendenti. Tre di questi telai erano meccanici, e non essendoci la corrente li facevano andare con il motore a scoppio. Pon pon pon pon pon, si sentiva il rumore.
Erano partiti dal nulla e hanno trovato l'articolo giusto.
Prima della [grande] guerra facevano la tela, perché i contadini della zona coltivavano la canapa e il lino. Lo lavoravano in casa, in famiglia – lo filavano – e poi lo davano ai tessitori che preparavano la tela che serviva per le braghe, le giacche, uso familiare e consumo locale.
*
03:06 Le munizioni che ho visto appena arrivato a casa sono state raccolte poco dopo da una squadra di soldati che è venuta a pulire tutto, anche le bombe.
Io poi sono andato a lavorare con le cooperative che erano sorte per la ricostruzione, bianche e rosse. Sono andato a lavorare come fabbro per una cooperativa e facevo canevassi [catenacci] per le porte, bartoèi [cerniere] per i balconi, ecc. Era una cooperativa rossa di cui non ricordo il nome, sorta ad opera di piccoli impresari della zona. Era di Maserada, ma non ricordo con precisone, perché non vi sono rimasto molto parché no i pagava mia, i iera tuti deinquenti. Facevano lavorare e poi non pagavano.
04:49 Sono andato via e ho impiantato una bottega di fabbro a casa mia. Avevo 19 anni [...] e mio fratello dell'11, Ferilio, mi faceva da garzone. Lavoravo lo stesso per le cooperative, però mi facevo pagare alla consegna della merce.
Erano tutti ladri uguali, quelli delle cooperative, tanto che Bruno Monti che faceva il falegname assieme allo zio Renato, fratello di mia mamma, si è messo in società con una grossa falegnameria per costruire i serramenti delle case. Questa società "Monti-Pianca" è andata in fallimento, perché le cooperative non pagavano. Hanno chiuso con un deficit di 44.000 lire, di quegli anni.
06:24 Chiusa la società, Bruno Monti è entrato nello stabilimento che avevano aperto i suoi fratelli, mentre invece mio zio Giuseppe Pianca è stato sistemato dal senatore Caccianga che gli ha dato una mano ad avere l'appalto [rivendita generi di monopolio] e un'osteria. L'osteria c'è ancora a Saltore, ma ora è un bar. Là vicino c'è anche la villa di Caccianiga, che però non si vede dalla strada perché è in mezzo a un bosco. Sempre là vicino c'è anche la villa del senatore Visentini, che un tempo era anche quella proprietà di Caccianiga: infatti il senatore ha sposato una Caccianiga ed è venuto ad abitare in una di queste due ville.
08:13 Ad un certo punto le cooperative hanno finito di lavorare e a me è rimasto ben poco lavoro per i contadini: fare i carri, i cerchi per i carri, gli attrezzi di campagna. Ma i contadini soldi non ne avevano e ho dovuto chiudere bottega, perché quando era ora di andare a comperare il carbone e il ferro per fare il lavoro non avevo i soldi per farlo. Li "avanzavo" ... e ancora li avanzo!
Il fatto è che anche i contadini non avevano soldi. Aspettavano sempre quando avevano le gaete [i bozzoli], quando avevano un vitello da vendere, il frumento, il granoturco...
09:37 Sono stato costretto a smettere e nel 1921 sono andato a lavorare da Ronfini, [in via Roggia] a Treviso e vi sono rimasto finché sono venuti i fascisti che hanno spaccato tutto perché il padrone era repubblicano [...] 

13:27 Ho fatto il militare in artiglieria a Ferrara e finito il militare sono andato a lavorare da Menon a Roncade, da quello che era stato il mio capo a Montecatini. A Roncade faceva motorini, biciclette, automobili, di tutto.
Io ho cambiato specializzazione e sono andato sui motori e sulle macchine a vapore che venivano riparate là da Menon.
Da Menon ho lavorato poco più di un anno. Poi mi sono licenziato perché si trattava di fare 11 ore di lavoro al giorno e 16 km all'andata e 16 al ritorno con una bicicletta tedesca che se gli metti un motorino di quelli di oggi non riesce neppure ad andare avanti.
14:49 Ho trovato posto a Treviso nel garage di via Canova dove lavoravo sempre nelle macchine – manutenzione dei motori – e dove sono rimasto fino al 1930.
Nel 1930 sono andato a Spresiano, davanti alla stazione, come meccanico da un padrone che aveva tre macchine a noleggio e un camion a rimorchio. Il padrone si chiamava Roberto detto Bala ... il vecchio padrone era Luigi, con i figli Ciliano e Ferruccio che avevano anche osteria e ristorante.
16:05 Sono rimasto a Spresiano cinque anni finché sono partito per l'Africa orientale, dove sono stato 13 anni a l'Asmara. Ma ho girato tutto l'impero come camionista. Lavoravo per conto dei Bet di Treviso: Angelo Bet e Giuseppe, Bepi, e i suoi tre fratelli più giovani. Angelo no, lui era rimasto a Treviso.
17:00 La sede della ditta era a Decamerè, a circa 40 km dall'Asmara e là vicino c'era l'aeroporto di Gura dove si trovavano tutti gli autotrasportatori italiani.
Io sono arrivato fino a Gima, al lago Tana, a Gondar. Trasportavo tutta roba dei soldati; non era difficile il lavoro.
Sono ritornato nel 1948 perché prima non si poteva rientrare: ci voleva il permesso dei signori inglesi. Ero stato prigioniero, ma sono scappato due volte dal campo di concentramento... [19:37 - fine intervista]