martedì 1 giugno 2010

Emigrante in Francia: mi chiamavano macaronì

Ricordi di un emigrante italiano in Francia fra la Prima e la Seconda guerra mondiale. 
Luigi Disastri, nato nel 1900 a Saletto di Breda di Piave (Treviso)

Questo brano fa parte di una più ampia intervista effettuata da Camillo Pavan nel corso delle ricerche sull'ultimo anno della prima guerra mondiale, dopo Caporetto.
A differenza dalla quasi totalità degli altri testimoni veneti, in questo caso l'intervistato parla prevalentemente in italiano, anziché in dialetto.
Luigi Disastri, che nel secondo dopoguerra ricoprì anche incarichi pubblici, con la sinistra, nell'Amministrazione comunale di Breda, è morto nel 2004.

Nastro 1993/4 – Lato B                             1 settembre 1993

Ero caporal maggiore (sergente, quasi). Mi son congedato [nel giugno 1922] e mi son messo a fare il falegname. Tutti i lavori che ho fatto per qualche mese qui a Saletto non me li hanno mai pagati nessuno [...]
Ero vestito bene, avevo le scarpe rosse. Avevo fatto un po' di camorra ...
["far camorra": pratica molto diffusa in tutti gli eserciti, presumo. Certamente in quello italiano ai tempi della leva di massa e nell'immediato primo e secondo dopoguerra. In cosa consista lo spiega molto bene Disastri]: «ci si arrangia, da militari
Con questo tenente si andava in motocicletta a prendere della nafta, a prendere del gasolio, a prendere della roba, a bidoni, che poi lui lasciava un po' di lasco anche per me...
Avevo le scarpe belle, un vestitino bello a righe, il cappello, la camicetta e quando mi son presentato a tirar i soldi mi hanno detto: «Vestito così, vieni a soldi? Non ne abbiamo soldi ... aspetterai».
Allora ho preso su e sono andato in Francia, ed è stata una catastrofe.
Perché in Francia non è che si trovino le mele mature che cadono dal melo... . [C'era] una cortina non indifferente. Prima perché non sai parlare e poi perché quando arrivi là credi di trovare un mondo nuovo che ti dà la pappa in mano.
Invece, prendi il [mio] primo datore di lavoro, un certo [...] Robert; il primo che ti prende a lavorare. Ma ti porta a mettere dei piloni, dei travetti di sostegno sotto una baracca dove c'è tanto fango così. E devi mangiare, andare lavorare, ed è inverno. Poi prendi il carretto, carica i pezzi di travetto e tira in due. Andar lavorare così. L'ho fatto tre mesi finché dove mi alloggiavano ho conosciuto una ragazza, una certa Fifine che non mi ricordo più il nome di famiglia ... che avevano una piccola osteria. Essa mi ha portato a Villars.
A Villars (vicino a  Saint-Étienne, nella Loire) c'era uno stabilimento di falegnameria e mobilificio.
D. Come mai lei è andato proprio lì, all'inizio?
R. Io, quando sono andato via da qui sono andato a Saint-Étienne.
D. Chi le aveva detto di andare lì?
R. C'era già uno che lavorava in "mina", ci sono tutte mine [miniere] là. Lui ci ha detto che si trovava del lavoro. Siamo andati in tre, là. Uno poi è andato a finire in mina. L'altro è venuto a casa per non andare in mina; io ho trovato lavoro da questo monsieur Robert.
Erano tutti e tre da Saletto. [Quello che ci ha chiamato ... ] era un Davanzo, era il figlio di Andrea Davanzo e lo chiamavano el moro; era tutto moretto, era come un africano. Lui lavorava in mina, era già pratico, lui. Aveva una donna, assieme. Dormiva nelle case dei minatori.
Io da Saint Etienne sono andato a lavorare a Villars in uno stabilimento dei signori Renaud e Mattous. E là sono stato tre anni. M'hanno voluto bene, andavo in corriera da Saint-Étienne a Villars. Mi portavano a mezzogiorno a mangiare a casa, mi riprendevano all'una e mezza e mi riportavano a casa alla sera.
Dopo è venuta su mia moglie; mi sono sposato, dopo tre anni che ero in Francia [...]
Vicino a dove abitavo io c'era uno che aveva una bottega di ferramenta e mi ha trovato un [nuovo] padrone che aveva un'azienda di mobili, che montava mobili in serie. Mi ha detto: «Guarda, se vuoi guadagnare soldi, ti porto, ti faccio prendere io da monsieur Noiret... », un nome così, che finiva con T, non mi ricordo più.
Così ho lasciato Villars e sono andato da questo qui. Per un periodo di tempo ho lavorato a cottimo e battevo tutti i cinquanta operai. Li battevo tutti, perché al massimo c'era un operaio che faceva 50 lire al giorno e quando io ne facevo 70 si è vergognato e si è licenziato. Un napoletano faceva 12 franchi al giorno. E poi più di 35, 40, 50 franchi al giorno nessuno riusciva a fare. Eravamo 60 o 70 operai.
D. Cosa c'era da fare?
R. Montare mobili in serie, in stile Liberty.
Ci davano tutto preparato, pronto. Bisognava essere svelti, bisognava essere svelti, svelti, svelti. Comunque facevo sui 70-75 [franchi al giorno]. Poi hanno fatto uno sciopero e io ho dovuto accodarmi allo sciopero. Il padrone è montato su un tavolo e ha detto: «Sentite, cosa volete?»
«Vogliamo che i prezzi siano aumentati ... ». E lui: «Fate come monsieur Disastrì, che guadagna 75 franchi al giorno». Eh, gli ho detto: «No, 70». E lui: «Eh no, 75 al giorno ne fate, non 70!».
Poi [il padrone] ha dovuto andare via e io non ho voluto seguirlo, perché mi piaceva stare a Saint-Étienne.
Allora questo negoziante di ferramenta mi ha mandato da un'altra ditta ... una ditta per la quale nessuno voleva lavorare perché il padrone era molto bravo ma cattivo. Aveva 50 – 60 operai, ma un padrone che era ... macchè ingegnere, aveva gli occhi di fuoco. Bell'uomo. Ma, tutti avevano paura. C'erano pochi ... bisognava essere molto bravi per restare da lui.
[Quello della ferramenta] mi ha detto: «Ascoltatemi, Disastri ... Ecouté moi, monsieur Disastrì. [... il padrone] ha nome Robert, ma lo chiamano tutti "la vacca", perché è cattivo, eccetera eccetera. Provate a vedere se ce la fate». Mi ha scritto un bigliettino e mi sono presentato nell'ufficio.
Buon giorno signore, chiedo del lavoro, mi manda il signor [...]
E lui mi ha chiesto - in francese, si capisce - «Cosa sapete fare?»
Io gli ho risposto: «Mi metta a lavorare, poi vede cosa so fare» [...]
Mi ha dato del lavoro, e c'era un certo Regìs, che era il magazziniere ed era un piemontese che era con lui da vent'anni, anche trenta. Già vecchio, questo Regìs, ma bravo, buono. Ero il primo italiano che andava dentro là, su sessanta operai.
Il padrone ha detto a Regìs di portarmi il lavoro, una tavola con un disegno in piccolo. Io conoscevo un po' il disegno, grazie ai militari che mi avevano fatto studiare un po'. Mi ha fatto portare tutto il necessario davanti, così. Qui c'era la porta dell'ufficio, qui c'era la porta che andava fuori e io ero qui così... Il padrone, quando mi hanno portato la roba [...] è venuto, si è presentato davanti con la riga in mezzo, con degli occhi di fuoco, faccia rotonda, forte come un leone, con la vestaglia grigia e poi si è messo davanti così, davanti al banco.
Io ho preso dei pezzi e poi mi sono fermato.
[Il padrone] ha detto: «Continuate, continuate».
E io: «No».
«Perché?»
«Perché se lei va via continuo a lavorare, sennò io non vado avanti».
Beh, [mi ha assunto e in quello stabilimento] ci sono stato dieci anni e otto giorni.
Sono stato là e ho guadagnato molti soldi. Ho battuto ... a un certo punto ho battuto il capo operaio, che gli mancava un dito e mi chiamava macaronì. E proprio perché mi chiamava macaronì quando mi hanno dato da fare un campione, un campione di colonne per l'hotel Gillet de Lyon ... quando mi hanno dato la seconda colonna da fare, dopo la sua ... lui ha impiegato 48 ore e io, per batterlo, ho impiegato 24 ore.
Allora è venuto vicino, quando gli ho presentato la colonna, fatta meglio di lui, senza neanche un, chiodo, tutto incollato con [...], pulita; una colonna molto bella, che divideva la hall di un albergo. Mi è venuto vicino e mi ha detto: «Dì, macaronì, non sei mica morto a forza di lavorare, non sei crepato... »
«Eh, mi è rimasta ancora un'ora... !» E poi, tanti anni dopo, quando ero artigiano in proprio, è venuto a domandarmi scusa e mi ha detto; «Mi hai battuto, eri più forte di me.»
Ma quando ero giovane come te, facevo con questa mano qui ... quando ero giovane come te, non mi batteva nessuno.
D. Dove ha fatto l'artigiano?
R. In Francia, sempre, e sempre sui mobili. E adesso le faccio anche vedere ... ne ho anche un pezzo qui, un pezzo che facevo a quell'epoca e che ho rifatto in questi giorni, dopo 60 anni, perché lo facevo che avevo 32, 31 anni e lavoravo per Bois d'Auray di Parigi... ed era nel '32.
D. È sempre rimasto nella zona, o...
R. Si, sempre rimasto là. Ho lavorato anche per Lione, ho lavorato anche per Parigi, ma sempre rimasto a Saint Etienne. [...]
Poi c'è stato qualcosa, guardi. Là dicevano molto male degli italiani. Io difendevo il mio paese, sapevo parlar bene il francese e quando questi francesi dicevano male di Mussolini, dell'Italia, che qua morivano di fame, che non avevano neanche i chiodi per inchiodare la cassa da morto ... io mi ribellavo, e li mettevo a posto. Con le buone, ma gli facevo capire che in Italia c'è gente onesta, che sono più poveri [a causa del]la natura, perché non hanno le risorse che avete voi. Vengono qui, io lavoro, mi guadagno il pane, ma spendo il mio denaro qui, mangio qui, dormo qui. Dunque aumento il benessere.
Sapevo difendermi.
C'erano degli sbandati, c'erano tanti italiani sbandati che facevano quasi pena, a dir il vero. Non avevano un po' di moralità, niente. Se c'era uno sciopero facevano tutti lo sciopero. Se c'era da gridare «Abbasso Mussolini» correvano tutti per le strade...
Io ho cominciato - con Peratone e Cesa - a formare un gruppo, una società di italiani. Un gruppo di italiani in società. Abbiamo preso una stanza in affitto, pagando poco, che poi il governo italiano ... poi ci hanno anche rimborsati, a dir il vero. Abbiamo formato la «Casa dell'Italiano».
Dunque tutti gli italiani, di qualunque colore... È stata dura, ci son voluti cinque sei anni, eh. Che siano di destra, di sinistra, bianchi, rossi e verdi, tutti potevano venire al giovedì a giocare le carte (si apriva al giovedì sera) e alla domenica giocare le carte e stare insieme, leggere dei libri. Avevamo una piccola libreria, eccetera; c'era un grammofono. Abbiamo formato questa «Casa dell'Italiano».
I francesi sono un popolo in gamba e anche molto organizzati. Perchè loro, [con] tutti gli stranieri, secondo la nazionalità, ne radunavano venti o trenta attorno a lei. Lei ha trenta nominativi di italiani: nome, indirizzo ... lei deve sapermi dire cosa fanno cosa non fanno, se vivono onestamente, se sono ladri, se sono patrioti, se sono troppo patrioti, se sono antifascisti, se sono fascisti. Perché io poi ho conosciuto il maggiore Campigli e la Guglielmina, che era figlia di italiani; il dottore – era bravo quel dottore [...]
D. Erano antifascisti o fascisti, questo dottor...
R. No, quelli lì erano impiegati francesi, gente messa dalla Francia.
D. Ma quelli che lei ha conosciuto, erano fascisti o antifascisti?
R. Erano tutti antifascisti, esclusi i militari. In Francia erano tutti antifascisti, escluso la gente colta. Tutte le persone che avevano una certa cultura, non erano antifascisti, al contrario. Tutti gli altri, che è la grande fascia del settanta per cento al di sotto, erano tutti antifascisti, ma tutti, anche i partiti che non capivano la ragione. Inutile spiegargli che Mussolini non ha fatto tutto del male, che ha messo dell'ordine, che c'erano i Balilla [...]. Qui c'era qualcosa anche di buono, non tutto cattivo.
D. Lei spiegava queste cose, allora?
R. Si capisce! Ma la persona colta capiva la ragione, la sapeva meglio di me, perché era istruito, veniva anche a prendere il caffè in casa. Gli altri non lo capivano.
A un certo punto io sono venuto in ferie, Era nel '38, nel tempo che hanno fatto .... c'era Hitler, gli Inglesi e poi c'era Lavall che hanno fatto un convegno non so dove [...] per arrangiarsi fra di loro. E c'era uno sciopero quasi generale, in Francia, contro proprio questi affari. Io ho preso su e ho detto, visto che c'è sciopero, invece di far sciopero vado a casa un po' di giorni e ho scritto sulla porta «Chiuso per ferie». Quando sono venuto in Italia, loro mi seguivano.
D. Loro...
R. Quelli che mi stavano dietro, che stavano dietro a tutti gli italiani. «Disastri si è spostato, è andato in ferie», e prendono nota... questi francesi addetti a questo gruppo di stranieri nel quale c'ero anch'io. [...] Quando sono arrivato alla frontiera, non so il perché, c'è stata una discussione, da ridere, da scherzare, e il poliziotto, il finanziere che doveva timbrarmi il passaporto che io entravo in Italia non lo ha fatto. Io avevo anche dato in mano a lui, ma non hanno timbrato i passaporti, me l'hanno tornato senza timbrarlo, tanto il mio come quello della moglie.
Quando sono rientrato in Francia dopo dieci-quindici giorni, che qui avevo dei parenti, mi sono portato dietro delle zucchette a forma di uovo - una volta ce n'erano molte da queste parti, le tenevano per bellezza. Arrivato alla frontiera la Finanza francese apre le valigie e trova queste zucche piccole come uova, e mi fa: «Cosa sono queste qui?». Dico: «Sono uova che fanno le galline italiane». E allora dai, ridi con queste uova delle galline italiane ... e non mi hanno timbrato il passaporto.
Quando ero andato in Italia avevo delle economie, e le avevo depositate (perché là alla cassa di risparmio alle volte mi permettevano di ritirare, alle volte chiudevano e non li davano più, c'era un po' di tira molla) ... le avevo portate in casa di un certo nipote di [...] E quando sono andato in Italia mi son ritirato i miei soldi nel caso mi occorressero [...]
Il fatto è che non mi hanno timbrato il passaporto. Loro hanno saputo che sono rientrato, hanno saputo che sono uscito ... come hanno fatto non lo so. Il fatto è che un bel giorno mi sento arrivare nel corridoio, con quel passo che hanno loro, con gli stivali con le scarpe pesanti, con l'elmetto e con il sottogola, con il fucile nella spalla, mi sento arrivare qualcosa che è militare. E mi arrivano i carabinieri, la Gendarmerie. Mi fanno:
«Bonjour monsieur Disastrì»
«Bonjour messieurs, in cosa posso servirvi?»
«Il passaporto»
«Non ce l'ho qua, bisogna che vada a prenderlo». Vado a prenderlo e apro il passaporto.
«Siete uscito il giorno tale – avevano una carta in mano – e qui non ve l'hanno timbrato. Dove siete passato?»
«Eh, si scherzava, si rideva...»
«Qui siete rientrato...»
«Guardi che c'è stato quell'affare delle uova, che poi erano zucchine...»
«Ah – ha detto – bisogna che voi andiate in tal punto, domani.»
E m'hanno mandato a un commissariato. Io conoscevo il sindaco. Lo conoscevo perché con il mio padrone avevo lavorato con il sindaco e mi stimava molto, perché aspettava che mi naturalizzassi lì, questo sindaco. Me l'avrà detto venti volte: «Si faccia naturalizzare, che poi è tranquillo, lavora per conto suo. Vi aiutiamo noi...»
No, no... non potevo fare il francese, essendo italiano, io. Poi gli altri, quelli che sanno fare le facce, a me non interessano. Il fatto è che vado in questo ufficio e lì mi fanno parlare e dico quello che ho detto ai gendarmi.
«Non è sufficiente. Il giorno tale è andato in tal punto»
E difatti là ho conosciuto quel dottor ... dentista, oculista, eccetera. Era bravo. E lui era assieme, che poi ho conosciuta questa signora Guglielmina che faceva parte di quelli che seguivano gli italiani. Là questo dottore seduto così e io ... qui c'è una porta semiaperta, qui c'è una porta chiusa. Lui mi parla e mi dice:
«Monsieur Disastrì dovete dirmi tutto ciò che è successo».
Gli dico esattamente quello che è successo. Ho detto:«Guardate, io non farei tanto così contro la Francia, vivendo in Francia, ma neanche se mi coprono di milioni». Perché i carabinieri mi hanno detto: «Voi siete un ex ufficiale» - «Ma piccolo – ho detto – molto piccolo. Non un ufficiale che si occupa di servizi... ».
Spiego e rispiego poi gli dico: «Guardate dottor - De Angelis si chiamava, guarda, adesso mi viene – guardate dottor De Angelis che io, quando vado fuori di qui preparo le valigie e me ne vado a casa».
Ha detto: «Ma siete matto, vous êtes fou», e dice: «La polizia fa il suo dovere, non dovete mica offendervi. Sono male informati, forse li hanno informati male. Non dovete scappare. Scappare, perché? Non vi hanno mica detto di andare via»
«Senta, ma io non voglio storie, me ne vado via».
Fatto sta che mi convince intanto di restare là e di continuare. Poi – quando gli ho spiegato – mi dice: «Adesso madame, che c'era la signora, potete chiudere la porta dietro». C'era la polizia che sentiva.
Non mi è andato bene. Non mi è andato bene. Ho litigato con i clienti che avevo. Ho pagato dei debitini che avevo. Avevo duecento franchi di legname, che non mi ricordo più il nome, verso la piazza Carnot ... era un magazzino che riforniva di legna, gli ho detto "venitevelo a prendere" che io vado a casa. Vado via.
Sono andato a Lyon. Al consolato ho detto: «Mi mandi quelli lì che fanno il trasporto internazionale».
Sono venuti, hanno caricato tutto quello che c'era e sono venuto a casa .
Sono venuto a casa e sono andato a lavorare prima al Campo Sant'Angelo a Venezia, da una ditta. Poi mi sono stabilito qui. Ho portato a casa, mi sono messo qui, sulla casa di mio padre. Ho cominciato a fare l'artigiano, ho lavorato anche molto.
D. Aveva figli?
R. Sì, due maschi e due femmine.
D. Dove sono adesso i figli, dove abitano?
R. Uno è in Francia, la ragazza è a Torino. Due, un maschio e una femmina abitano qui a Saletto.
D. Non è più andato in Francia?
R. Ah ... sono andato sempre. Sono andato cento volte. Ci andrei anche domani. La Francia è il mio paese. Io ho gli amici, là. [...]