martedì 31 agosto 2010

Luigi (Vittorio) Rosiglioni, Noventa di Piave VE

Nato il 6 febbraio 1903

Nastro 1993/6 - Lato A                          11 settembre 1993

Luigi (Vittorio) Rosiglioni, 1903, Noventa di Piave
Figlio di Vittorio (cl. 1849) e di Maria Pasqualini.
Eravamo 11 fratelli, di cui 4 (due maschi e due femmine) sono morti da bambini. Mio padre era negoziante (commerciante) di cavalli. Andava in Jugoslavia, in Austria. Abitavamo in via Calnova ed eravamo abbastanza benestanti, ma non avevamo campagna: solo la casa con attorno un campo di terra.
Ricordo che ad un certo punto si è sparsa la voce: «I riva, i riva, i riva, bisogna scampar, riva el nemico.»
Arrivavano frotte di militari [italiani], ammalati, feriti. Noi siamo scappati; altri invece sono rimasti come ad esempio mia moglie Ida Polita, da Romanziol, poi trasferitasi in via Roma, vicino all'attuale osteria da Elio.
Mio padre ha detto: «È meglio scampar via.»
Mio padre conosceva uno che era proprietario di cavalli e di carri.
Hanno caricato un po' di roba su due carri trainati da tre cavalli, e sul carro sono saliti anche un mio zio (Giovanni Rosiglioni) con la famiglia; zio che abitava a Calnova.
In tutto saremmo stati una ventina di persone, e nei carri siamo riusciti a mettere poca roba, soprattutto da mangiare.
Hanno preso la direzione di Mestre e la prima notte ci siamo fermati fra Mestre e Padova, un po' più in là di Dolo, mi sembra.
Siamo scappati di mattina, e per poco io ho rischiato di rimanere di qua del Piave perché mio fratello Giovanni, che era in guerra, aveva lasciato la sua bicicletta dalla fidanzata Elisa Schiabello che abitava in via Lampol, qua a Noventa.
Sono andato a prendere la bicicletta e i miei nel frattempo erano già arrivati al ponte di barche costruito dai soldati italiani per congiungere le due sponde del Piave all'altezza del passo a barca, proprio dove anche adesso c'è il ponte di barche. Per pochi minuti ho rischiato di restare da questa parte di qua. I miei erano già passati e io ho fatto appena tempo di passare, che il ponte è stato fatto saltare.
Avevo fatto appena in tempo di andare sull'argine di Fossalta quando hanno fatto saltare il ponte di barche. Mio padre e mio zio mi aspettavano un poco più avanti e mi hanno preso su.
08:00 Mio fratello era soldato dalle parti di Gorizia e non è mai stato mai ferito. Avevo anche altri quattro fratelli in guerra e se la sono cavata anche loro. Uno (Giovanni) era di fanteria; un altro (Giuseppe) era di artiglieria pesante campale; un altro ancora (Antonio) era di artiglieria mentre l'ultimo dei fratelli, cl. 1899, era dei pontieri e si chiamava Pietro.
Mio fratello Giovanni quando aveva dovuto andare in guerra aveva lasciato la sua bicicletta dalla fidanzata Elisa, che era operaia nella fabbrica dello jutificio [di San Donà]. Lo jutificio c'è ancora ed è in funzione, anche se adesso vi lavorano al massimo 150 operai, contro i quasi 1500 di allora. Mi sembra che allora il padrone dello jutificio fosse un certo Nardini. La maggior parte degli operai erano donne, come Elisa la morosa di mio fratello. Elisa utilizzava la bicicletta di mio fratello (che era da donna, stranamente) per andare lavorare.
Quando io ho attraversato il ponte avevano ancora da iniziare le sparatorie e le bombe. C'erano migliaia di soldati e di persone; tutte a piedi, civili e militari.
11:25 Nel paese di Noventa di Piave, tre quarti delle persone sono scappate, compreso il prete che si chiamava don Lino, ed anche il sindaco Vittorio Crico, che se n'è andato verso Milano o Torino, non so. Il prete e il sindaco sono scappati prima di noi, e sono scappati in treno, perché erano dei signori.
Noi invece siamo andati via con i cavalli, ma tanti andarono via a piedi.
Quella che sarebbe diventata mia moglie (che è morta ormai da dieci anni) è rimasta invece a Noventa. I tedeschi portarono la sua famiglia a Palmanova, dove è rimasta fino alla fine della guerra.
Il ponte di barche, quando lo hanno fatto saltare saranno state le undici del mattino.
Noi, con i cavalli, siamo andati verso Mestre, e poi abbiamo proseguito verso Padova.
Ci siamo fermati prima di Padova, lungo la strada. A Dolo, Stra, Mira, non ricordo, e abbiamo dormito in una casa che ci ha trattati abbastanza bene. Ci hanno dato delle coperte per la notte e anche da mangiare.
16:03 La mattina dopo pensavamo dapprima di andare verso Milano dove mio padre e mio zio conoscevano delle persone per via del loro mestiere di commercianti di cavalli.
I miei erano proprio commercianti di cavalli, solo di cavalli, non mediatori di terra. La famiglia Rosiglioni, sentivo dire dai vecchi che sarebbe originaria di Rimini, tanto che avevano il soprannome di "Rimini". Anche mio padre Vittorio aveva il soprannome di Rimini.
Dopo Padova abbiamo proseguito verso Rovigo. Arrivati al Po ci siamo fermati nel paese di Massa Superiore [dal 1928 Castelmassa] in prov. di Rovigo [...]. In quel paese, infatti, mio padre conosceva un suo collega commerciante di cavalli che lo ha invitato a fermarsi in paese e gli ha trovato una sistemazione, con tanto di casa e di lavoro, come cariòto (cioè trasportatore) presso una fabbrica del luogo, una fabbrica che lavorava juta. Così si guadagnava anche da vivere.
E proprio a Massa Superiore è morta mia madre, di ulcera. Una malattia che allora era difficile da curare, specie in quelle condizioni.
Quando due miei fratelli hanno saputo che la mamma era gravemente ammalata di ulcera, hanno ottenuto il permesso di venire a trovarla.
Mi ricordo che quando è morta mia mamma, c'era sulla porta della stanza mia sorellina Carolina di cinque anni e c'erano questi due miei fratelli che tenevano la mamma per le braccia, mentre si contorceva dal dolore e dallo spasimo. L'hanno tenuta per le braccia finché è morta perché l'ulcera era scoppiata. È morta in braccio dei suoi figli Giuseppe, il più vecchio, che adesso avrebbe 108 anni, e di Giovanni che era del 1893.
Mia sorellina Carolina piangeva perché vedeva la madre morire...
Poco dopo che la mamma era morta è arrivato a casa anche mio fratello Pietro, (classe 1899). Antonio invece, che era del 1897, era rimasto prigioniero in Ungheria.
21:55 Quando Pietro è tornato a casa sua mamma era morta da due giorni. Allora si è messo a gridare e a scalciare disperato invocando, gridando e chiamando "Mamma mia, mamma mia". Gli altri fratelli, almeno, erano riusciti a vederla viva.
Il dottore era venuto a casa nostra ma aveva detto «non si può fare niente.»
La mamma è stata seppellita là e io non ne ho saputo più niente. L'hanno seppellita là in quel cimitero, che poi io neppure sapevo con precisione dove. L'hanno seppellita senza una croce e senza una lapide.
Io andavo a lavorare con mio padre. Si andava soprattutto fino a Badia Polesine a fare trasporti per questa fabbrica. A volte portavamo la juta anche verso Rovigo e verso Verona.
Finita la guerra siamo ritornati in paese. La nostra casa era a pezzi, completamente distrutta, solo qualche pezzo di muro, e basta. A Noventa non ce n'era una di casa, in piedi. Ci hanno dato una baracca e poi, con l'aiuto dei prigionieri austriaci, ci siamo costruita la casa nuova nello stesso posto della vecchia.
Mio padre dopo la guerra ha cambiato attività, dedicandosi prevalentemente al commercio del pesce e dei crostacei (masanéte).
Si andava in valle Grassabò, dalle parti di Caposile. Si arrivava fin dove possibile con il cavallo e poi con la barca si entrava in laguna fino al Cason di valle, il palazzo dei pescatori che vendevano la loro merce.
Poi mio papà questo pesce in parte lo vendeva direttamente nei mercati della zona e in parte lo rivendeva ad altri piccoli negozianti o commercianti. Lavorava cioè sia all'ingrosso che al minuto. Andava con i cavalli ai mercati di Oderzo e di Motta di Livenza...
Mio papà aveva smesso di fare il mercante di cavalli perché, essendo del 1849, dopo la guerra era ormai anzianotto. Morirà verso i 90 anni. [...]    
Il commercio, ritornati da profughi, era soprattutto pesce e masanéte, la cui stagione è di autunno - inverno. Con il pesce si riusciva a vivere abbastanza bene.
31:35 Io però a quindici anni ho iniziato a "menar la carriola", e dopo vari lavoretti come operaio semplice, manovale, ho iniziato a lavorare per delle imprese. Il mio vero mestiere è stato il muratore.
Degli altri fratelli: uno era falegname, un altro muratore, un altro ferraiolo e un altro ancora facchino, quello della classe 1899, che era molto robusto.
Io invece ho lavorato sempre nell'impresa Rado (Giuseppe e Giovanni) di Noventa di Piave, come muratore, nella costruzione di case e palazzi. Non solo a Noventa, ma anche a Mestre.
A Noventa era importante l'impresa di Pietro Orlando, che lavorava la sabbia e la ghiaia del Piave. Lavoravano ai lati della strada per San Donà, ma sabbia e ghiaia la estraevano a Salgareda. Poi con le barche la portavano fino a Noventa. Vi lavoravano fino a 100-150 persone.
35:00 A Noventa arrivavano i burci grandi che venivano da Rovigo o Ferrara e portavano via la roba. Inoltre anche nel paese c'erano numerosi barcaioli; secondo me erano più di cento.
Adesso le racconto un episodio. Quando ero a Massa Superiore ero giovane. Abitavamo in una bella casa, e sono sempre stato bene. Si mangiava bene, abitavamo proprio in paese e anche se non avevo fatto particolare amicizia con la gente del paese mi trovavo bene.
37:25 Ricordo che vicino a casa mia c'era una donna che aveva il marito morto in guerra. A volte mi diceva «vieni, vieni a casa mia ... perché non vieni a casa mia?» Voleva che andassi a letto con lei, ma io avevo solo 15 anni e poi lei aveva un figlio che aveva la mia stessa età. Mi iera putel, chi xe che ndava a pensar a chée robe là.
In osteria a Noventa, ora mi bevo ogni sera una "rossetta" e inoltre mi fumo un paio di sigarette; però in tutto mai più di 5, massimo 6 sigarette al giorno. Piuttosto di bere del vino semplice preferisco questa specie di aperitivo, la "rossetta": vino bianco, acqua minerale, campari bitter e una fettina di limone.
Mangiando, invece, bevo tre quarti di bicchiere di acqua e un po' di vino. Una volta invece bevevo molto, anche un bottiglione al giorno, e poi al ritorno dal lavoro ancora mi bevevo qualche onbreta in osteria.
Ho sempre lavorato con l'impresa Rado, anche tre anni a Trieste. 
39:30 Durante l'ultima guerra sono stato cinque anni in Germania, a Norimberga e quando sono venuti avanti i russi e gli americani siamo scappati tutti quanti e siamo tornati a Noventa. Così, scappando, ho perso i contributi di quattro anni di Germania, mentre con il primo anno di Germania (ero con un'altra ditta ed ero in regola) prendo la pensione: poco, 40.000 lire al mese, ma la prendo.
Comunque sono ruscito a non fare la seconda guerra. 
In compenso avevo avuto ben quattro fratelli che avevano fatta la prima guerra. Tutti quattro si sono salvati, per fortuna. Uno è stato prigioniero in Ungheria dove ha trovato sistemazione presso una famiglia di contadini. Mangiava e dormiva con loro e poi andava a lavorare i campi con loro. «Meglio così», raccontava, «se fossi rimasto in guerra non so se mi sarei salvato.» Questo era Antonio, classe 1897.
Dei miei fratelli, il più vecchio è morto di broncopolmonite; due di ulcera e un altro di avvilimento perché aveva la figlia ammalata.
*
43:03 Un pacchetto di sigarette, ora, mi basta tre giorni.
Anche se ho quasi 91 anni sto bene e corro ancora in bicicletta. Tanti invece che hanno la mia età sono insemenìi e imbaucài. Non gioco più a carte, però, anche se tanti mi invitano, perché tutti mi conoscono in questa osteria dove vengo ogni giorno tranne al mercoledì quando chiude.
Tutti mi conoscono come Vittorio, lo stesso nome di mio padre; come Luigi invece non mi conosce nessuno.
Da ragazzo ero molto sportivo, facevo ginnastica, mi piaceva correre a piedi e anche fare lunghe escursioni con la mia bici Ganna.
Ho tre figli: Armando, Ferdinando e Mario [?]. Mi sono sposato tardi, a 37 anni. 
Mio figlio Armando ora si trova in Cina con una ditta di Genova. Fa il perito elettrotecnico strumentista e guadagna 12 milioni di lire al mese. Sua moglie invece è americana.
*


Mi dà il nome di sua cognata Isolina Polita che ha 84 anni e che rimase di qua del Piave. Abita nelle case popolari a dx della strada per San Donà.

Luigi Disastri , Saletto di Breda di Piave - Treviso (1900-2004)


Nastro 1993/4 - Lato A                     1 settembre 1993

All'epoca di Caporetto ero un civile militarizzato, cioè facevo parte di un gruppo di civili comandati da un militare.
Ho iniziato a fare il falegname a 11 anni ("sono nato falegname"), imparando il mestiere in paese da un certo Giovanni Biasini (Nane Campanèr). Un giorno sono arrivato tardi al lavoro perché mi ero fermato a prendere il mangiare per una donna e il padrone mi ha dato un calcio nel sedere. Così ho cambiato padrone e sono passato da Santo Pasin di San Biagio di Callalta, un bravissimo falegname, e là ho lavorato nel 1912, '13, '14.
Nel 1915 il padrone è stato chiamato alle armi, come bersagliere, e io sono andato a lavorare proprio con Nane Campanèr nei reparti militarizzati che andavano a lavorare sotto il fronte, sulle seconde e terze linee. 
Ero pagato bene: 5 lire al giorno più le spese. Alla fine del mese venivamo pagati da un apposito contabile mandato dallo stato: davanti ad una baracca avveniva il pagamento. Io i soldi li mandavo a casa, anche perché avevo dei parenti che mi avevano allevato da piccolo, infatti ero di famiglia molto numerosa (11 fratelli). 
In particolare io ero gemello (primogenito, secondo nato) e i genitori mi avevano affidato a una parente, che poi non era neppure proprio parente, era una sorellastra di mio padre, con la quale ho vissuto assieme fino ai 15 anni. Si chiamava Peruzza Maria, aveva sposato Antonio Bin ed era figlia di Matteo Peruzza che aveva preso mio padre dall'ospizio - perché mio padre era un trovatello figlio di NN, cui era stato messo il cognome di Disastri - e siccome Peruzza non aveva figli maschi era andata a prendersi un maschio all'ospizio. 
Poi questa sorellastra di mio padre mi ha allevato fino ai 15-16 anni, proprio sulla casa in cui ci troviamo adesso per l'intervista e dove ora abito. Solo che all'epoca la casa era più piccola. Non era fatta come ora, ed era di proprietà di mio nonno Peruzza Matteo, originariamente come stalla in cui poi è stata ricavata una stanza. Quando Peruzza morì la casa è diventata proprietà di Disastri Antonio.
Io appartengo ad una famiglia di "gemellari": dopo di noi due gemelli ce ne sono anche altri due, che attualmente abitano in Francia.
Nel 1915 come militarizzato sono stato dapprima a Villa Vicentina, sull'Isonzo. Non è che fossi stato obbligato ad andar lavorare, ci sono andato volontario; si formavano delle squadre di 30 - 40 persone alla guida di un assistente.
Lavoravamo alla sistemazione ed al rafforzamento delle trincee, mettendo delle tavole e dei montanti sulle pareti in modo che la terra non franasse.
Poi ho lavorato molto anche a fare baracche. Ho imparato a coprire i tetti con la paglia (come si fa con i casoni) ed ero anche bravo a farlo; baracche ricovero per cavalli e militari. 
Dopo sono andato a lavorare verso Caporetto. 
Una persona del paese che io conoscevo, un certo Beniamino Davanzo, che era sergente in una compagnia in linea proprio sul Carso a San Michele mi ha detto: «Guarda che io conosco qualcuno in una squadra dove prenderai più soldi... »
Ovviamente io ci tenevo ai soldi, e, anche se si trattava di andare in una linea più avanzata e quindi c'era più pericolo, ci sono andato ... 16 anni per la verità sarebbero pochi per rimetterci la pelle... 
07:09 Sono andato da quelle parti e quando hanno fatto la ritirata di Caporetto, mi trovavo a San Giorgio di Nogaro, agli ordini di un caporale maggiore romagnolo che comandava dei soldati ma aveva anche la responsabilità di un gruppo di operai, fra i quali c'era anch'io, che dormivo in una baracca da solo (me l'aveva data lui, il caporale, la chiave).
Quando ci fu la ritirata di Caporetto ha iniziato ad infiammarsi tutto, a scoppiare tutto, tutto che si demoliva.
*
- Il sergente Davanzo di cui ho parlato prima non è lo stesso che ha dato il nome a una via centrale di Saletto, che invece si chiamava Massimiliano ed era un mio cugino. Quello là, sugli altipiani d'Asiago, era bersagliere (prima invece era del 55 Fanteria), poi essendo uno sfegatato, "era bravo", l'hanno messo fra i bersaglieri , come volontario, e là in poco tempo è diventato sergente. C'era una mitragliatrice che falciava i soldati italiani e nessuno riusciva a stanarla e faceva molti morti. Lui, un po' sfegatato si è offerto volontario per farla tacere e in quell'occasione è stato ucciso, meritandosi la medaglia d'argento. È rimasta una medaglia,ai famigliari. Lui è rimasto lassù" -



Ritornando a Caporetto

È stata una cosa improvvisa, non è che ci sia stato un preavviso. 


Questo brano è stato selezionato per il volume di 
Cesare Bermani e Antonella De Palma 
E non mai più la guerra. Canti e Racconti del '15-18



09:25 Ricordo che il caporalmaggiore mi ha detto: «Disastri, bisogna scappare, bisogna scappare, qui crolla (casca) tutto.»
Infatti in lontananza, verso l'Isonzo, scoppiavano i depositi di munizioni bruciati dai nostri. Era una catastrofe. Le strade erano piene di soldati, di feriti. I campi erano pieni di profughi. Un mondo che si rovescia, una cosa che non si riesce a spiegare. Di tutti i colori, dei colpi che vanno su alto e che scoppiano, poi si dilatano, di qua e di là, tutto un mondo che si rovesciava e gente che scappa. Le strade ingombrate, non si riusciva più a passare.
Io avevo la bicicletta e non ho potuto passare, ho dovuto camminare per i campi, assieme a questo caporalmaggiore. Era di giorno, quando siamo scappati. Abbiamo camminato tutto il giorno attraverso i campi, riparandoci sotto dei gelsi quando gli aeroplani austriaci passavano bassi e sganciavano qualche bomba; e c'era acqua nei campi. Finalmente siamo arrivati al ponte e lo abbiamo superato ... a forza di camminare siamo arrivati a Portogruaro.  (AUDIO brano selezionato)
Con noi, a lavorare nella stessa squadra, c'era un certo Zuccheri assieme a suo figlio. Zuccheri era già scappato prima di noi ed era già arrivato a Portogruaro, dove abitava. Il caporalmaggiore, che ne conosceva l'indirizzo, è andato a casa sua e Zuccheri ha preparato polenta e pollo in umido. 
Zuccheri parlava con la moglie e le diceva: «Guarda che io devo scappare, altrimenti gli austriaci mi prendono». 
La moglie invece aveva deciso di rimanere, però diceva al marito: «Porta via la mucca, porta via a vaca». 
E Zuccheri a dirle: «No, la vacca non posso portarmela dietro.»
Poi con questo Zuccheri abbiamo continuato la fuga, ma ci siamo persi di vista a San Donà di Piave. 
Il caporalmaggiore era riuscito a trovare un vagone attaccato a un treno merci. Vi siamo saliti là sopra e siamo andati fino a Mestre. E io, da Mestre ho raggiunto Saletto, prima che i tedeschi arrivassero sul Piave.
Quando i tedeschi sono arrivati sul Piave, di fronte a Saletto, nella nostra casa non c'era più nessuno, perché appena sentite le prime cannonate erano fuggiti.
*
I tedeschi, giunti sul Piave, avrebbero potuto proseguire perché non c'era nessun italiano ad affrontarli. 
Sono passati degli zappatori con la tuta di tela grigia con una stella rossa sulle mostrine; chi aveva un piccone, chi un badile. Facevano delle postazioni dietro gli argini in modo che il soldato potesse appoggiarsi per sparare; questi zappatori erano italiani.
Alla sera, io assieme a Beniamino Davanzo che era fuggito dal Carso, Ugo Peccolo che era un comune amico e Davanzo Ferruccio ... tutti pratici del posto e inoltre pratici di armi essendo bene o male già stati tutti al fronte (anch'io, pur essendo civile, perché ero giovane... e poi ci vuol poco a imparare) ... prima che arrivassero i tedeschi - che hanno cominciato a salire sui pini del Piave, dalla parte di là, oltre il greto, oltre l'argine, montare per vedere di qua - noi li vedevamo qui dall'argine della nostra parte.
Poi è arrivata la teleferica e non c'era neanche un nostro soldato, assolutamente nessuno. I tedeschi avrebbero potuto avanzare che nessuno avrebbe loro impedito di venire avanti. Io non riesco a spiegarmi perché non siano passati. 
Il fatto è che le prime avanguardie sono rimaste di là 48 ore, anche di più, senza nessuno che li ostacolasse. Finché un mattino gli italiani hanno messo una batteria nel terreno di Zampieri, una batteria calibro 75. 
Zampieri era un mio santolo che aveva un pezzo di terreno dopo i Mosole, sulla strada per Candelù, un po' più avanti di via Molinetto, dove c'è quella casa con i pini grossi e ora c'è la casa del Mosole. Ora tutto è cambiato. Là si è presentato un sergente che aveva tirato dei fili telefonici per comunicare con la batteria.
Un mattino si è presentato qua a Saletto un reggimento, che aveva le mostrine giallo e verde, con le divise tutte nuove di zecca che sapevano da naftalina. La prima cosa che hanno fatto, sono andati dentro per le case a prendersi quello che il poveraccio che era scappato non aveva potuto portare via. 
Qui, nella nostra casa io ero rimasto in casa, perché noi ragazzi non avevamo paura, mentre la mia famiglia era andata a Breda da un certo Scarabel, appena avevano sparato le prime cannonate. 
Io che ero un ragazzo sono rimasto qui. Mio padre aveva la casa qui vicino, a fianco di questa qui fuori: aveva una casa in piazza dove abitava, e un'altra qui vicino dove mi trovo ora, dove teneva la cantina, il fieno e altre cose. 
Mi trovavo qui in casa; è arrivato questo reggimento, è entrato nella casa in cui mi trovavo. Hanno tirato tutti i cassetti, aperto tutti gli armadi, chi si prendeva il calzino, chi si prendeva l'asciugamano, un altro è andato dove c'ero lo specchio sul comò e vi si trovava una specie di anellino che non valeva neanche un soldo. Hanno fatto quella cosa là, arrivando ... che non è tanto bella.
Erano italiani che erano arrivati qui per prendere posizione nella prima linea, sull'argine. Nuovi e freschi. Evidentemente erano stati fermati e rivestiti, dopo la ritirata. Loro avevano il fucile in mano, io ho brontolato, poi è venuto un ufficiale che ha fatto mettere giù [a uno?] quello che aveva in mano.
Questi soldati si sono schierati qui sull'argine, saranno trenta metri da dove ci troviamo ora. 
Io ero rimasto per governare la stalla dove c'era ancora un vitello, c'erano i polli; avevo ancora delle cose da portare via. Facevo la spola al mattino e portavo a mia madre a Breda del latte, un pollo. A Breda la mia famiglia era rifugiata nel granaio di casa Scarabel, assieme ai Ramello, un'altra famiglia di Saletto.  
Ormai avevo fatto confidenza con questo sergente che ordinava il tiro della batteria. Facevo compagnia a questo sergente e gli indicavo la casa di Marcandola, di Lorenzon, di questo o dell'altro; poi c'era una cartiera. Noi all'epoca conoscevamo tutti, sul Piave. [La cartiera si trovava dalla parte di Negrisia, oltre il Piave].
Una mattina al mulino di via Molinetto c'era un reparto del Genio Zappatori; il mulino apparteneva ad Alessandro Perinotto.
*
"Via del Passo". Ricordo la barca che collegava Saletto a Negrisia (che facevano quasi un paese assieme) tanto che i morti di Saletto andavano a Negrisia. Ai tempi di mio nonno i morti non li seppellivano qui attorno alla chiesa di Saletto ma a Negrisia e passavano di là del Piave per mezzo del "passo" [a barca]. Questa via del Passo è talmente sulle mappe che a tutt'oggi i militari passano per "via del Passo".
A volta se l'acqua era bassa si passava a guado, ma di solito c'era la barca, condotta da un certo Girotto, chiamato come soprannome Bicio ... ma non ricordo bene. Ricordo invece che da ragazzi noi lo prendevamo in giro, con questo soprannome, anche perché era un tipo particolare, scapolo, esile, piccolino. Allora lui si arrabbiava e ci rincorreva tirandoci dietro dei sassi. Bicio di solito rimaneva là ad attendere i viandanti sotto un alberello e li traghettava, con 5 centesimi, poi lasciava legata la barca al palo e là attendeva i passeggeri. Avrà pesato venti chili. Malgrado la cifra esigua che richiedeva ha comunque mantenuto la famiglia. Era un ometto non sposato, così insignificante che una donna non l'avrebbe sicuramente preso; viveva con suo fratello che invece aveva moglie e figli. Adesso io non so dove si trovino questi Girotto e che strada abbiano preso, so però che alcuni sono diventati degli Orlando (per via di matrimonio), altri dei Dal Sie.
*
Ritornando alla guerra... 
Al mattino a questo reparto di zappatori distribuivano il rum, e una volta si sono presentati due ufficiali vestiti da italiani, ma i nostri si sono accorti subito che non erano italiani e allora li hanno arrestati. 
Alla sera c'è stata un'ispezione per tutta la linea italiana, quattro soldati, quattro carabinieri e un ufficiale, e sono passati anche per dove mi trovavo io con questo sergente. 
La pattuglia è entrata e ha chiesto come mai io mi trovassi là in prima linea. Il sergente spiegò che io ero uno del paese e che lo aiutavo e gli davo utili informazioni. Allora avevo 17 anni e un aspetto però più maturo, con i baffetti, e potevo quasi sembrare uno che era scappato dalla guerra. Ho mostrato un certificato di scuola, ho spiegato che non ero scappato, che ero del paese (e il sergente confermava), ma niente. 
Mi hanno messo in mezzo alla pattuglia, fra i militari e i carabinieri e mi hanno portato al comando di brigata, qui alla latteria di San Bortolo[meo] di Breda. 
Là c'era un ufficiale su una branda di tela, e la pattuglia gli ha riferito che avevano trovato questo borghese in prima linea. E l'ufficiale gli ha risposto: «E cosa volete che ne faccia io del borghese...». Allora mi hanno portato al comando di divisione, in casa di Bin Olimpia, sempre a S. Bortolo.
Ormai era quasi mezzanotte, e anche qui c'era un ufficiale che ha detto: «Io non so cosa farne, portatelo al comando di tappa».
Mi hanno portato a San Biagio di Callalta a piedi, scortato sempre dai soldati, dai carabinieri e dall'ufficiale. Al comando di tappa di San Biagio mi hanno chiuso in una stanza dove avevano fatto un buchettino sulla lamiera della porta ... con un carabiniere che camminava davanti. Al mattino presto è venuto il capitano che comandava la batteria ... c'era pericolo di essere fucilati, essere dei borghesi, in prima linea e senza documenti. Mi hanno portato davanti a un tavolo dove c'erano tanti di quei medaglioni seduti, tante di quelle persone grandi e grosse che ora li detesto un po' ... già, anche se non sono anti patriota, anzi se sono ... mi considero ... mi vanto di essere italiano ... li detesto per la maniera con cui si comportavano contro i soldatini.
Comunque mi hanno creduto, alla fine, avvertendomi di non presentarmi mai più in prima linea perché avrei potuto essere fucilato all'istante. Mi hanno creduto perché garantiva per me il capitano comandante la batteria, garantiva che io ero del paese e li aiutavo con informazioni utili.
*
All'epoca c'erano due Piavi, e tutti due con molta acqua. Io non li ho mai visti asciutti, anche se in quell'occasione ce n'era - per la verità - piuttosto poca. C'era la Piave piccola e la Piave Grande. La piccola verso l'argine destro, nasceva dalle fontane sorgenti di Candelù e di Maserada; mentre la Grande era quella che scendeva dalle montagne.
Ai tempi della mia infanzia scendevano anche le zattere, che andavano fino a Jesolo. A volte quando andavano in secca nelle ghiaie qua di fronte, gli zatterieri smontavano la zattera e allora dal paese tutti quelli che potevano, soprattutto i ragazzi, andavano ad aiutarli a trasportare più avanti, fuori della secca, il legname. Gli zatterieri provvedevano a ricomporre una nuova zattera, dove c'era l'acqua, per poi ripartire, e a noi ragazzi ci regalavano una bella tavola di legno ciascuno, e per quei tempi era un bel compenso. 
La zattera era formata da tronchi grossi messi sotto, traforati sulla testa per far passare le corde per legarli, poi c'era uno strato di traversi, e poi sopra caricavano le tavole e loro facevano anche una specie di baracchina, come una garrita in cui ripararsi dalle intemperie. 
Con una specie di remo dirigevano la zattera, sopra la quale avevano anche la bicicletta e delle corde in modo che quando avevano trasportato il legname giù a Jesolo e Venezia, tornavano su in bicicletta con le loro corde e con la loro ascia e trivella.
Non ricordo che a Ponte di Piave ci fosse una fermata delle zattere. Secondo me le zattere passavano e andavano dirette a Jesolo, dove sì venivano caricate sui barconi...
*
Dopo l'episodio della notte in cella, sono andato dalla mia famiglia che era profuga, lasciando gli animali che erano in casa ai soldati, che giunti nelle prime linee si sono fatti fuori il maiale, il vitello, il vino, soprattutto il vino, perché quella era un'annata di tanto vino clinto, che i carabinieri a un certo punto hanno forato tutte le botti perché andasse fuori il vino. Sono passati in tutte le case, anche in quella di mio padre e in quella dei vicini che ne avevano molto.
Era successo che avevano trovato qui al Ponte di Filo all'osteria di Tressa Napoetan austriaci e italiani ubriachi dentro la stessa cantina. Così da quel giorno hanno bucato tutte le botti.
Sono andato profugo con la mia famiglia, dapprima a Preganziol ... a Sambughè, vicino alla chiesa e là mio padre si è fatto dare dei buoni come sussidio. Poi, visto che c'era bisogno di alloggi per i soldati, la mia famiglia fu mandata in Sicilia, a Campobello di Licata, in provincia di Agrigento, dove mia madre è morta di spagnola.
Io invece sono partito militare come bersagliere, ma non ho fatto in tempo di andare in guerra, ma di fare il militare sì. 
Era il gennaio 1918 e sono stato chiamato alle armi, arruolato nel 6° Bersaglieri. Sono rimasto a Bologna per dieci mesi, fino alla fine della guerra. Ero in un reparto speciale, come moto-mitragliere. Mi hanno voluto tutti bene, non posso lamentarmi, e volevano che rimanessi sotto le armi. 
Subito dopo il quattro novembre sono stato congedato "provvisoriamente", in modo di poter ritornare a casa e mettere apposto la casa e il terreno.
Qui ho trovato morti e reticolati e armi per terra. 
I morti erano ancora sul terreno, da seppellire, e quando sono arrivato io li caricavano sul carretto trainato da un cavallo e li portavano su un cimitero provvisorio a S. Bortolo in località Le Crociere, dove era stato approntato un grande cimitero, da dove sono poi stati trasferiti più tardi all'ossario di Fagarè. E il granoturco per un po' è cresciuto molto più rigoglioso che tutt'attorno.
Quando sono arrivato io, ho visto i morti attaccati ancora sui reticolati, morti da qualche giorno. A prima vista non si capiva bene di che nazionalità fossero, perché c'erano anche dei "tedeschi" dalla nostra parte.
C'erano morti dappertutto, negli orti, negli angoli, nei buchi. Italiani e tedeschi, morti, ancora con il corpo intero, con le divise addosso, non seppelliti.
La croce rossa e altri soldati passavano con un telo di tenda dentro il quale veniva posto il cadavere che poi veniva caricato sul carretto e poi a volte capitava che lungo la strada cadesse un rigagnolo di 'sugo', dal carretto. 
In poco tempo, comunque, è stato pulito tutto.
Qui negli ultimi giorni di guerra, a partire da Fagarè e fino a Maserada, c'era stata una battaglia incredibile.
Quando sono tornato ho visto un disastro, pur essendo passato qualche giorno da che le linee erano state superate. Il fatto è che l'esercito italiano doveva andare avanti, inseguire il nemico che si ritirava, e non aveva quindi tempo di fermarsi a sistemare quello che rimaneva dietro.
Comunque a me i morti non danno fastidio, vi sono abituato. Non ho timore, neppure dei feriti. Se lei è ferito e tutti scappano, io mi fermo e l'aiuto e lo curo, anche se tirano granate. Infatti ho salvato una persona, nel '43, che sarebbe morta centomila volte, avrà avuto due tonnellate di travetti sopra di essa, [durante il bombardamento di] Marghera...
Qua a Saletto qualche casa aveva ancora dei muri in piedi, ma la gran parte erano a terra. Le nostre case ad esempio erano completamente demolite e i soldati avevano recuperato le pietre per metterle sulle trincee. C'erano solo rottami. In piazza c'era alcune casa, ma poche, che erano quasi sane. 
Ma la chiesa era demolita.  
Enorme era la massa di reticolati in tutta la zona. Hanno lavorato per mesi prima di liberare completamente la terra, perché c'erano campi interi di reticolati.
Per quanto riguarda i miei pochi campi di terra ho fatto ricorso ad un comando militare che era qua a Saletto, per chiedere che mi aiutassero. In particolare ho avuto l'aiuto di 7-8 militari austriaci prigionieri che mi hanno aiutato a ripulire il mio terreno.
Nel frattempo la mia famiglia era ancora in Sicilia, mentre io subito dopo l'armistizio sono stato immediatamente mandato a casa in quanto mi trovavo in zona operazioni, e quindi c'era bisogno di andar a mettere a posto, pulire.
*
A Saletto c'erano molti prigionieri austriaci. A migliaia erano nella zona, sistemati dietro a dove ora c'è il grande bar della piazza. C'erano dieci-dodici baracche tutte in fila e tutte con prigionieri tedeschi. Sono rimasti qua per molti mesi, 7-8 mesi. Io li consideravo esseri umani, lavoravano, riparavano case, molti parlavano anche italiano, erano altoatesini. C'erano molti austriaci. 
Io considero il popolo austriaco un popolo nobile, e neppure guerriero. Erano bravi ragazzi. Erano prigionieri. Erano coscienti di essere prigionieri, però non avevano quel ghigno, quell'atteggiamento da nemici. 
In piazza avevano costruito una specie di falegnameria con tutti i pezzi di legno. Facevano la credenzetta per quello che era rientrato qui, magari per un qualcosa in più da mangiare. Chi faceva il muratore, chi il falegname.
La falegnameria era dietro al palazzo che c'è dietro al forno. Era con un banco provvisorio, con materiale di recupero, senza morsa. Malgrado questo i prigionieri riuscivano ad ottenere dei begli oggetti. Si davano da fare. 
Io ero militare e venivo poche volte al paese, ma questo era quello che vedevo. I feriti venivano portati via con un camioncino 15 ter. Certo erano prigionieri, in una baracca, senza tanti conforti, con una pompa che c'era fuori dalla baracca per l'acqua.
Anche i prigionieri italiani quando sono rientrati dalla prigionia io li ho visti ... perché ero ancora militare a Bologna... ed erano proprio mal messi, tutti straccioni che sembravano non degli zingari, ma gente che vien fuori da una caverna dove per anni non avevano mai visto la luce. Li ho visti messi molto peggio che non gli austriaci prigionieri in Italia.
*
Mio padre aveva due campi e mezzo di terra, mezzo campo in cui c'era la casa dove all'epoca abitava mia zia mentre gli altri due campi erano là vicino. Malgrado questa esigua quantità di terreno la mia famiglia prima della guerra in qualche maniera riusciva a vivere perché mio padre era un gran lavoratore, uno che col terreno riusciva a far miracoli. Inoltre era capace di fare tutti i lavoretti: una sedia, uno zoccolo e alla domenica faceva il barbiere assieme al nonno. Erano i barbieri del paese.
Mio padre non ha mai patito la fame. A casa mia abbiamo sempre mangiato ... non da signori, ma c'era sempre un pollo alla settimana. Ogni domenica mattina andava a prendersi un chilo di carne e faceva brodo. C'era sempre formaggio e c'era sempre latte perché avevamo sempre due mucche in stalla. Poi oltre ai due campi e mezzo suoi, mio padre lavorava altri due campi di Gava Francesco. E c'era spesso anche il pane, il "pan moro" fatto in casa; inoltre c'era salame e formaggio.
È inutile che mio fratello che abita in Francia dica che si pativa la fame. No, da noi - almeno finché i figli erano piccoli - non si pativa la fame. Dopo, con 11 figli grandi e tutti senza lavoro, allora sì che c'erano problemi. C'erano problemi quando sono diventati più grandi perché non c'era lavoro. Sono andati in Francia come emigranti, e là hanno anche progredito chi commercio di cavalli, chi la charcuterie. Ora i loro figli stanno bene.
*
Io, una volta pulita la campagna, non mi sono più occupato della terra. Io ero falegname... 
Nel frattempo comunque arrivarono anche mio padre e la famiglia [che erano stati profughi in Sicilia].
Anche gli altri paesani si sono fatti aiutare dai prigionieri austriaci.
Io sono stato uno dei primi a fare richiesta di una baracca, e poi mio padre ha fatto costruire la casa, più tardi, nel '21.


Nastro 1993/4 - Lato B

Le case le hanno costruite quasi tutte le cooperative, bianche e rosse, che utilizzavano la garanzia fornita dallo stato.
Queste cooperative hanno tutte imbrogliato i proprietari, non hanno mai fatto case per le quali. Hanno fatto che poi il Genio comunque le collaudava... 
C'era la tangente anche quella volta? Non lo so. Sta di fatto che collaudavano queste case costruite il più possibile in economia. La nostra casa in particolare fu costruita da una cooperativa rossa (mi sembra). Fatte tutte in economia: poca calce molta sabbia, molti sassi poche pietre.
La sistemazione dei campi fu effettuata in tempi abbastanza ristretti, anche perché nella zona le aziende sono tutte piccole. Solo le case ci hanno messo tanto ad essere ricostruite perché ci voleva una gran burocrazia. Perché, di fatto, il proprietario delle case non tirava fuori lui i soldi: lo faceva il Genio Civile o quello Militare. Era lo Stato che garantiva il rimborso a queste cooperative. 
Il proprietario non sborsava una lira. Faceva la domanda. Venivano fuori a fare la costatazione del danno, e gli veniva data una dichiarazione che permetteva un tot di spesa per la ricostruzione. E la cooperativa costruiva.
*
Dopo il congedo provvisorio ho fatto altri 24 mesi di militare al compimento dei vent'anni. In tutto sono stato militare per 35 mesi.
Anche gli altri 24 mesi li ho fatti a Bologna. E là da militare il tenente Giovannetti e un altro tenente, visto che avevo passione, mi avevano comperato dei cataloghi [...]. Ho lavorato nella sala convegni degli ufficiali e volevano che rimanessi militare. Ma a me non piaceva mettermi sull'attenti, e anche se avevo il grado di caporalmaggiore [...] mi sono congedato e mi son messo a fare il falegname a Saletto. Ma nessuno mi pagava [...] allora mi sono stufato, ho preso su e sono andato in Francia [...] assieme ad altri due paesani: Davanzo, il figlio di Andrea, chiamato el moro, perché era tutto moretto. Lui aveva già pratica della mina e mi ha convinto che in Francia era facile trovare lavoro. L'altro paesano era anche lui un Davanzo, ma non mi ricordo il suo nome.
Dopo tre anni che ero emigrato mi sono sposato con una ragazza italiana conosciuta in Francia. Era una Moretto che abitava a Valdrigo (Cavrìe) ma era originaria di Fossalta di Piave. Ho avuto quattro figli: due maschi e due femmine. Un maschio e una femmina abitano a Saletto; degli altri due, uno in Francia e uno a Torino. 
Mia moglie è morta quando aveva 70 anni per una paralisi al cervello.
In Francia sono rimasto 15 anni (dal 1923 al 1938) poi sono tornato in Italia e sono andato a lavorare dapprima in Campo Sant'Angelo a Venezia e poi mi sono stabilito nella casa di mio padre a Saletto e ho messo su un laboratorio di artigiano mobiliere. Sono arrivato ad avere anche 18 dipendenti sotto di me e ho smesso a 61 anni perché i figli non volevano fare questo mestiere.
Dai 61 ai 66 anni ho fatto il modellista per Andrea Trevisin, nei pressi di porta Carlo Alberto a Treviso. Facevo il modello in legno e poi il soggetto da costruire veniva fuso in ghisa in una fonderia a Carbonera. Prendevo all'epoca 120 mila lire al mese. Quando avevo 66 anni mia moglie si è ammalata e ho smesso.
Ho fatto anche il consigliere comunale a Saletto, con la sinistra, con il partito comunista, all'epoca del sindaco Foresto. 
Il 5 dicembre 1972 ho avuto un incidente agli occhi. Sono scivolato su un muretto mentre osservavo un pescatore in riva al Piave e ho fatto un volo di tre metri, battendo la testa. Ho perso un occhio del tutto, e dell'altro mi sono rimasti tre decimi. Malgrado questo faccio ancora dei mobili e leggo dalla mattina alla sera. Leggo sempre, non appena ho un po' di tempo. Inoltre vado sempre a giocare a carte, tutte le sere, e ci tengo anche a giocare bene, a prendere nota di tutto.
È difficile essere di sinistra in un paesetto come Saletto.
Io non credo nell'aldilà. Non l'ho mai visto scritto nei tanti libri che ho letto che esiste l'aldilà. Neppure nell'ultimo libro - di Piero Angela e suo figlio - che ho appena finito di leggere.
Quando si muore si marcisce e si resituisce alla terra quello che hai avuto.
Io quando vivo sfrutto la terra, è la terra che mi dà la vita, ma poi quando muoio mi mettono in un cassone di cemento, dove la terra non ne può usufruire, mentre sarebbe giusto che io restituissi alla terra [quello che lei mi ha dato] e che altri poi raccolgano il frutto di quello che il mio marciume produce.
Non frequento la chiesa, non credo in Dio [...] i miei parenti lo sanno. Quando crepo voglio restituire al terreno ciò di cui ho usufruito. Mi prendono da dove ho esalato l'ultimo respiro, mi mettono in una cassa non con lo zinco e mi mettono sotto terra: in dieci anni la terra ne usufruisce.
Però qui a Saletto sono una banda di bigotti, sono tutti falsi, non possono essere sinceri altrimenti dovrebbero comportarsi di conseguenza ... ma d'altra parte mi fanno anche molta compassione: il prete li soggioga tutti. Cosa può insegnare il prete, le suore...
Da 22 anni che non c'è più mia moglie, qui faccio tutto io, anche nei 1500 metri del vigneto, orto e cortile [...]. Attualmente sto preparando il telaio in abete per una persona di Bergamo che vuole poi farne un tavolino con ripiano in marmo. Tutto il mobile verrà poi dipinto senza vernice, con sola gommalacca, alcool ... e poi gomito, come sessanta anni fa. La vernice che do io a mano viene assorbita dal legno, mentre quelle moderne, che comunque non uso, si posano sopra...

Nastro 1993/3 - lato B

Aggiunte e precisazioni, 3 settembre 1993

I tedeschi, dopo Caporetto, si sono fermati fra le due Piavi, dove all'epoca c'era un bosco, fra Piave Grande e Piave Piccola.
Noi tre amici vedevamo i tedeschi da sopra l'argine di protezione di Saletto (quello piccolo). Eravamo là sopra all'argine per curiosità, per vedere cosa facevano i tedeschi. Il resto del paese era tutto scappato, borghesi non ce n'erano più.
Finché una sera, all'imbrunire, sono arrivati i soldati italiani che hanno piazzato una fotocellula proprio sopra l'argine dove ci mettevamo noi a guardare i tedeschi. Era la prima volta che vedevo questo cilindro che mandava questo raggio di luce. L'argine piccolo del Piave in cui venne messa la fotoelettrica era stato sistemato una prima volta nel 1911; sarà di nuovo rinforzato mezzo secolo più tardi, dopo l'alluvione del 1966.
L'argine piccolo è stato poi rinforzato per difesa militare, ma trincee e soprattutto reticolati ce n'erano già a partire dal corso dell'acqua: in tutto lo spazio fra l'argine e l'acqua c'erano dei reticolati.
All'altezza del "ponte di Tre Bocche", sull'argine grande da San Bortolo a Fagarè, i tedeschi erano venuti di qua dell'argine e si sono mangiati mezzo maiale a casa dei Biasini, fittavoli di Marinello, poi è arrivato il 18° bersaglieri italiano, ha cacciato i tedeschi e si mangiato il resto del maiale.
L'argine in cui era posta la cellula fotoelettrica è l'attuale via Casoni, perché a quei tempi c'erano parecchi casoni [con il tetto in paglia]. Vi abitavano le famiglie di Bottasso, Boscariol, Pio Loco, Pavan che era un ex brigadiere dei carabinieri.
*
Mio padre era del 1872 ed era stato preso all'ospizio di Treviso, e altro non so con precisione.
Io sono nato il 14 giugno 1900 alle sei e un quarto del mattino mentre mia sorella Regina è nata alle sei. Sono primogenito, secondo nato.
*
Soldati ne ho trovati ancora di attaccati ai reticolati. Sono sicuro che si trattava di soldati morti nell'ultima battaglia. [...] Ricordo che c'erano molti cadaveri, dappertutto, anche per i campi, anche di soldati "tedeschi" che erano giunti fino a Crocere. [...]
*
Nel 1992 sono stato intervistato un paio di volte da una certa signorina Antonella di Treviso, che mi ha anche fotografato mentre stavo costruendo il primo dei trumeau che ho in casa. 
Era una mora, bella mora, grande, e ha registrato l'intervista. Poi mi ha detto che sarebbe venuta ancora ma non l'ho più vista [...] comunque sono venuto a sapere dall'assistente sociale di Breda che nel frattempo si è sposata. 
Quando gioco a carte in osteria a volte prendo una cioccolata, a volte prendo una spuma o qualche altra bibita, mai vino. Vino bevo solo del mio, un misto di quattro-cinque tipi di uva: verduzzo, moscato, cabernet...
*
Il segreto della sua longevità. 
Non fare mai del male a nessuno, guadagnarsi il pane con il sudore, se trovi qualcuno da aiutare lo aiuti, non lasciarti sfruttare, dire sempre quello che pensi, sempre a chiunque sia, sia un padreterno e sia un "n'importa chi" si risponde sempre, correttamente ma si risponde sempre.
Dieta? 
Nessuna in particolare: certo non fumo, non sono un bevitore tranne qualche bicchiere di vino con l'acqua, mangiando. Pur non essendo astemio, mi limito a quel po' di vino mangiando, ma niente liquori, grappa, ecc.
Ho fumato una scatola di sigarette solamente una volta quando avevo dodici anni e mi avevano regalato trenta centesimi. Con una parte mi sono comprato una scatola di Macedonia che costava 12 centesimi e per fare il bravo me la sono fumata tutta in una giornata. Mi sono bruciato la bocca e da quella volta non ho fumato mai più e anche quando da militare mi davano sigarette le portavo a casa e ne davo a mio padre che era un gran fumatore, oppure ne regalavo. 
Mio padre ha vissuto 69 anni ed è morto d'infarto. 
Dei miei fratelli, uno è morto qualche anno fa a 71 anni e gli altri invece sono ancora vivi e mi seguono in età.
Mia sorella gemella invece è morta nel 1955: era molto fragile di carattere, a differenza di me, che non ha paura di niente e non piango mai.
Il mio medico è il dottor Paolo Giani, tutto dolce e tutto bravo. Per lui ho anche fatto qualche lavoretto. 
Comunque io, anche se ho qualche dolore, non corro subito dal medico: dapprima esamino me stesso e guardo cosa mi sta succedendo, solo se non riesco a venirne a capo vado dal medico e lo "consulto".
Una volta mi ero tagliato un dito e sono andato in ambulatorio a Breda con la mia bicicletta. Sanguinavo e c'era tanta gente che non ha capito di lasciarmi passare. Allora ho preso la mia bicicletta e me ne sono tornato a casa; dopo dieci minuti mi è arrivato in casa il dottor Giani.
Mi curo alla mia maniera. Sto attento a me stesso, faccio il medico di me stesso e mi trovo male quando arrivano i miei parenti in casa e mi fanno da mangiare come se avesse quarant'anni. Perché non ho quarant'anni, ne ho 93 e devo mangiare a modo mio. Una volta invece non avevo questi problemi, mangiavo a volontà ... in una sera io e i miei fratelli ci siamo mangiati una testa di maiale. La nostra famiglia infatti era di grandi mangiatori.
Oggi a mezzogiorno ad esempio mi sono mangiato della catalogna lessata e soffritta con della cipolla, un pezzo di carne tenera, un pezzo di formaggio senza pane, due bicchieri di acqua e vino e della frutta, e sono a posto così.
Questa sera mi mangerò una bella terrinetta di pasta e fagioli ... mentre in due mesi che sono rimasti qua i miei parenti non l'hanno mai fatta e ho dovuto approfittare di farmela quando loro sono andati a Venezia. Ho il mio ritmo, so regolarmi.
*
Ritorna a parlare della ritirata di Caporetto, dello scenario complessivo e della sua esperienza
Mi trovavo a San Giorgio di Nogaro, vicino al cimitero di San Giorgio. Davanti al cimitero c'erano tutte le baracche dei feriti, che erano anche state bombardate qualche giorno prima.
Ho visto un finimondo, tutto fuoco, un mondo di fuoco in lontananza, molto largo, incredibile. Esplosioni ... esplosivi che saltavano in aria e facevano queste grandi immense fiammate e si vedeva dapprima questo scoppio rosso e poi finiva con del fumo, delle nuvole...
Il sergente maggiore che era con me disse "dai, dai". Ci siamo riempiti il tascapane con qualcosa da mangiare, mi son preso la bicicletta "da semicorsa", con il manubrio basso che mi ero comperato con i soldi guadagnati da militarizzato ... era una bicicletta di buona marca ...
Ci siamo incamminati; le strade erano piene di carreggi, di gente che scappava, donne e uomini. Donne con i bambini in braccio, con fagotti, con la mucca, con il cavallo, con l'asino. Tutto pieno dappertutto, anche i campi, di gente che scappava.
D. Perché il sergente maggiore non ha aspettato un ordine, prima di scappare? 
R. In quel momento non c'erano ordini. Quando noi ci siamo decisi a scappare, l'esercito già stava scappando. [...]
D. C'erano carabinieri che vi fermavano?
R. Tutta l'Italia scappava. Scappavano i feriti, gli ammalati, con carreggi e senza carreggi. Non c'era ordine, era un disordine enorme, come delle mosche che si gettano fuori, così. Era un finimondo. Non si può parlare di ordine, di carabinieri, di polizia. I carabinieri scappavano anche loro o erano scappati prima. Lei non può neanche immaginare cosa c'era.
Arrivati verso la località dove i cavalleggeri hanno fatto l'ultima battaglia, i treni erano fermi, le forme di formaggio venivano buttate a terra e spaccate e anch'io mi sono preso un pezzo di formaggio. Ognuno si prendeva quello che c'era e riusciva a prendersi.
Non c'era alcun ordine. L'esercito italiano non esisteva più. Tutti sbandati, con un esercito che ci correva dietro.
Anche i campi erano pieni di gente che scappava, inoltre c'era acqua perché era cattivo tempo. Anche noi siamo andati sotto un grande gelso perché c'era un aeroplano che voleva colpirci.
Il primo giorno siamo arrivati a Palazzolo dello Stella, dove io e il sergente abbiamo dormito qualche ora in un fienile. 
Questo sergente mi considerava un po' suo figlio; avrà avuto 30-35 anni ed era tanto tempo che lavoravamo assieme.
Il secondo giorno, verso mezzogiorno siamo arrivati a Portogruaro. 
Sempre assieme al sergente siamo partiti poco dopo per San Donà, da dove siamo saliti su un vagone bestiame e siamo giunti fino a Mestre. 
A Mestre ci siamo separati: il sergente maggiore (che era un romagnolo) è andato a consegnarsi alle autorità militari. Io invece ho trovato dei carrettieri che erano del mio paese e lavoravano per i militari portando ghiaia al fronte. Sono rimasto con loro per un po' di tempo finché mio padre, che era stato avvertito proprio dai carrettieri, è venuto a prendermi a Mestre.
A Saletto, prima che arrivassero i tedeschi, non c'era più nessuno. Dopo un po' è arrivata la fotoelettrica e più tardi, quando hanno piazzato la batteria vicino all'attuale edificio delle poste, sul terreno ora di Zampieri, un sergente ha messo in opera una linea telefonica che arrivava fino in prima linea.
*
Quando sono ritornato a casa dopo il 4 novembre l'aria era ammorbata da quell'odoraccio che lasciano i cadaveri. C'erano i soldati della sanità che disinfettavano con il cloro, si sentiva l'odore del cloro. [...]

Alluvione del 1966, a Saletto di Breda di Piave
Mi sono fermato qui vicino all'argine e in un attimo l'acqua ha riempito tutto; non sono scappato se non quando l'acqua ormai stava entrando in casa. Ho preso la macchina e ho fatto in tempo ad arrivare sopra l'argine con la moglie: sono stato l'ultimo a scappare.
L'acqua ha fatto in fretta a entrare perché ha rotto proprio qui sopra l'argine di via Casoni. In casa ha superato l'altezza delle finestre (ca. m 1,40).
Sul cortile avevo una tavola su due cavalletti con un secchio sopra. Quando è andata giù l'acqua è rimasta la tavola con il secchio sopra, senza cavalletti. 
L'acqua ha portato fuori tutto dalle case: le botti, le damigiane, le sedie. 
Nelle siepi questi oggetti poi si fermavano e i vicini di casa hanno riempito un carro dicendo che tutta la roba che c'era là attorno era loro. Si sono riempiti tutta la casa con roba degli altri, compreso delle damigiane che invece erano mie.
Quando si tratta [del possesso] anche di molto poco perdono la testa ... io li devo sempre tenere alla larga.