sabato 14 agosto 2010

Marghera 1944, bombardamento

Testimonianza di Luigi Disastri, nato nel 1900 a Saletto di Piave, TV
Questo brano fa parte di una più ampia intervista effettuata da Camillo Pavan nel corso delle sue ricerche sull'ultimo anno della prima guerra mondiale.


Nastro 1993/3 - lato B                        3 settembre 1993


I nostri amici alleati, che da quella volta non li ho più tollerati perché hanno fatto dei bombardamenti a tappeto, bombardato e mitragliato: hanno ucciso il 28% della popolazione in due bombardamenti, ma non hanno colpito neppure un'industria, colpendo invece solo dove abitava la classe operaia. [...]
Ritornato dalla Francia mi ero recato a Marghera per trovare un lavoro. 
Sono riuscito a trovare un locale per impiantarvi il mio laboratorio da mobiliere per merito di un romagnolo (Magrotti) che poi fu colpito da un aereo americano che lo rincorse, colpendolo con una pallottola sotto un tombino, nei campi. Gli americani sono dei selvaggi, sono dei cacciatori di pellerossa. Non parlatemi degli americani: vanno via tutt'oggi con la pistola addosso.
A Marghera hanno bombardato varie volte. 
Abitavo in piazza Mezzacapo e in un bombardamento furono ammazzati quasi tutti quelli che si trovavano in quel rifugio di piazza Mezzacapo. Ne hanno uccisi 132 ... tranne me, i miei figli e altre quattro persone. Mia moglie per fortuna era stata già accompagnata a Saletto, da un certo Orlando, con il cavallo e un carro piatto su cui aveva anche sistemato un materasso.
Il rifugio fu colpito in pieno e dapprima si aprì nel centro e poi si richiuse, ma non si richiuse perfettamente bensì con una metà della volta sotto l'altra metà. Così ci fu chi rimase con le gambe fuori, chi con la testa fuori.
Quando sono riuscito ad uscire dal rifugio mi sono ritrovato con la schiena 'intorcolata', tanto che ho dovuto camminare per un pezzo con due bastoni.
In un'altra occasione stavo andando in un altro rifugio. Era un rifugio costruito con le mezze pietre, immaginarsi cosa poteva servire: bastava che scoppiasse una bomba a trenta metri perché il rifugio saltasse in aria. 
Qualcuno passa e mi dice: «Guarda Disastri che hanno colpito il tuo laboratorio, ci sono tutti gli attrezzi e le macchine fuori». 
In quei casi là non si bada più al fatto che bombardino o che non bombardino, si corre verso quel piccolo capitale che si è accumulato e che ti serve per vivere. Così mi avviai verso il mio laboratorio e passando davanti alla farmacia di via Rizzardi - in quella via c'era anche il mio laboratorio - correndo perché stavano bombardando, ho sentito un lamento.
Sono ritornato sui miei passi, ho camminato lentamente finché ho individuato il punto dove c'era questa creatura rimasta sotto a dei travetti. Quando la individuai, cercai di estrarla, ma aveva un mucchio di travetti sopra di lei e fra tanti travetti c'era questa testa fuori, insanguinata, bionda.
Ho provato a tirare un travetto e non veniva. Ho provato a tirarne un altro e non veniva neppure. Continuavano a bombardare.
In quello viene giù dal cavalcavia della stazione (di via Rizzardi) un caporalmaggiore della crocerossa e io l'ho chiamato: «Vieni, vieni qua che c'è qualcuno sotto...» e nel frattempo stavano bombardando un po' più avanti, verso la stazione. Il caporalmaggiore si è fermato e si è messo anche lui a tirare un travetto, ma niente da fare.
Nel frattempo arriva giù di corsa - sempre dal cavalcavia - un pezzo di fratone, giovane, bello, fresco, con una enorme croce che penzolava sul lato destro. Ho chiamato anche il frate.
Quando in tutti e tre ci siamo messi a tirare questo travetto si faceva pressione sul corpo della persona che era sotto, perché la testa non lasciava capire in quale direzione fosse il corpo, che era tutto ricoperto da calcinacci ... quindi la persona sotto ha fatto un lamento che sembrava quasi stesse per morire e il frate ha impugnato la croce, per benedirla. 
Allora mi sono arrabbiato col frate e gli ho urlato: o te tiri o te copo co un pugno. (Qualche giorno dopo ho incontrato quel frate e mi ha rimproverato per come era stato trattato). 
Così tutti e tre abbiamo ripreso a tirare, ma in quello un grappolo di bombe caduto  là vicino ci ha scaraventati tutti con le gambe all'aria.
Quando mi sono alzato non c'era più né il caporalmaggiore né il frate. Nel tempo che si era dissolta la fuliggine e il fumo chi aveva le gambe buone era scappato e io mi sono trovato là da solo con questa creatura che era ormai quasi scoperta, forse per via del gran sommovimento del terreno.
Mi sono inginocchiato e piano piano, un pezzo alla volta ho iniziato ad estrarla. 
Era piuttosto pesante, perché nel frattempo l'avevo riconosciuta: era una ragazza di circa 17 anni che veniva a prendere i truccioli nel mio laboratorio, per far fuoco in casa. Aveva delle belle cosce grosse, era una bella ragazzotta. Me la sono caricata in spalla e piano piano me la sono portata a casa, che non riuscivo neanche a tenerla in spalla che sempre mi scivolava un po' dietro e un po' davanti perché era un peso morto. 
In un rifugio dove c'erano i dirigenti dell'Ilva mi guardavano dalla porta mentre passavo e mi dirigevo verso casa mia. Ma nessuno è uscito a darmi una mano. Me la sono portata a casa. Nel corridoio a piano terra c'era un materasso e là l'ho adagiata ... in quei giorni si faceva così: per essere pronti a scappare quando suonava l'allarme si dormiva vicino alla porta. Poi sono uscito in strada. In quello passava una Balilla e il guidatore l'ha caricata in macchina e l'ha portata via.
Finito il bombardamento le sorelline della ragazza soccorsa, che abitavano nei pressi del mio laboratorio, di là della via Rizzardi verso le case operaie, mi hanno chiesto se avessi visto la loro sorella. Ho detto loro che l'avevo soccorsa e che sicuramente si sarebbe trovata all'ospedale. 
Avevo riconosciuto la ragazza perché, una volta portata a casa e sdraiata nel materasso, l'avevo pulita con un po' d'acqua calda che avevo nella cucina economica (era l'unica acqua che avevo, perché i rubinetti si erano rotti). Le avevo pulito un po' la bocca e poi ho riconosciuto la sottanina, la stessa che aveva addosso quando era venuta in bottega a prendere i truccioli per bruciare; una sottanina gialla a pois. «Ma sei tu», ho esclamato; e la ragazza ha risposto solo con un flebile lamento.
Dopo tre mesi incontrai in via Cappuccina a Mestre anche sua madre che mi disse che la figlia si era salvata e che la loro famiglia era proprietaria di un pezzo di terreno. Volevano darmene un po', mezzo campo, come ricompensa, ma io gli risposi che non volevo niente. 
Della ragazza ricordo il cognome: Carraro, ma non il nome. Mi pare che dopo sia andata ad abitare verso i Quattro Cantoni a Mestre, ma l'ho persa di vista.
Qualche anno fa volevo anche comunicare il mio caso quando in TV fecero una trasmissione in cui si poteva riferire se si aveva salvato qualcuno, ma poi non ne ho fatto niente. Mi ero anche tirato giù il numero della TV per farlo, ma poi ho lasciato perdere... Però adesso pagherei qualsiasi somma per incontrarla; ora avrà sui 60 anni.
Mi trovai sotto a tutti i bombardamenti di Marghera e l'episodio della ragazza avvenne nello stesso giorno in cui bombardarono anche a Treviso: il 7 aprile 1944.
A Marghera hanno ucciso molte persone perché hanno trovato insediamenti operai facili da bombardare. Poi hanno trovato la scusa che là si trovavano i camion della benzina utilizzati dai tedeschi. Ma era una scusa.
*
Le industrie di Marghera invece non furono colpite. Solo una bomba cadde davanti all'Agip, senza però colpirla. 
Si sono conservati le industrie, non hanno colpito la ricchezza, perché hanno detto «un domani può servire anche a noi». Hanno colpito sempre la classe operaia, a partire dalla Ronzinella; lungo la ferrovia hanno distrutto tutto. 
Non mi parli degli americani!
Il mio laboratorio era fatto a torretta ed era sistemato in un edificio in cui c'era anche un bar che si chiamava proprio Alla Torretta. Un'osteria povera che vendeva solo fagioli, o poco più. Si chiamava Da Tito, mi sembra, ed era in via Rizzardi, sulla sinistra di via Rizzardi scendendo dal cavalcavia.
Il mio laboratorio fu colpito in pieno da una bomba, ma sono riuscito comunque a riparare la macchina grazie a un armatore di Marghera, il signor Rizzardi - barese di origine - che mi consigliò di andare a Mestre in un'officina di sua fiducia.
Riparata la macchina mi sono trasferito a Saletto e ho lasciato perdere Marghera.
*
La difesa antiaerea era praticamente inesistente, quelle poche batterie che c'erano, avevano a disposizione dei bidoni di olio che accendevano per fare fumo. Ma non si fa mica la guerra col fumo! Erano senza munizioni. Gli aerei avrebbero potuto abbassarsi a venti metri. 
Le ho viste io queste batterie antiaeree: ce n'era una davanti al viale, vicino al mio laboratorio  in via Rizzardi. [...]

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