sabato 9 ottobre 2010

Renato Schioppalalba, Varago TV

Nato il 6 febbraio 1903

Nastro 1994/1 - Lato A                                     Giovedì 3 marzo 1994


Renato Schioppalalba, Varago di Maserada, 1903
Sono nato nel "palazzo" [villa veneta] che si vede dietro la chiesa e che in questi giorni stanno restaurando. I miei antenati erano signori da Venezia, proprietari di quel palazzo e di 160 campi di terra in paese. Inoltre avevano un negozio di pellicceria a Venezia. Un fratello di mio bisnonno era un canonico che è stato seppellito nella chiesa di Santa Maria del Giglio a Venezia.
Mio padre si chiamava Elia e mia madre Tersilia Pianca, rispettivamente nati nel 1872 e nel 1881. Hanno avuto cinque maschi e una femmina.
[...]
Sono andato a imparare il mestiere di fabbro a 13 anni nel 1916, a Vascon, da Cuzzato. Era un vecchio che aveva i figli soldati. Aveva una botteghetta da fabbro, prima dei portici.
Sono rimasto là un pochino e poi sono andato a Spresiano a fare il maniscalco in una bottega mandata avanti da due ragazzi perché il padre era morto da poco; il più vecchio dei due era del 1900. Mettevamo i ferri ai cavalli e le ciape [appositi ferri] ai piedi dei buoi.
All'epoca di Caporetto lavoravo a Spresiano. 
La bottega di maniscalco era proprio in centro, un poco prima di dove hanno poi costruito il monumento, lungo la strada statale. Ricordo che lungo la strada c'erano tutti paracarri a intervalli regolari. A fianco della chiesa di Spresiano c'era inoltre un portego che passava sopra la strada, da un lato all'altro. Sopra c'erano delle abitazioni, di cui era proprietario o un Mingotto o un Beltrame (non ricordo). In paese lo chiamavano "el portego de Bressan" e sotto al portico c'era uno stallo per i cavalli. L'osteria di Beltrame era più indietro, prima del monumento, dove c'è l'osteria anche adesso.
Sotto il portico si fermavano i cavalli. Avevano la possibilità di mangiare l'avena sulle mangiatoie e anche si riparavano se pioveva. Lo stallo era di proprietà di Bressan.
La nostra bottega da maniscalco era proprio piccola, 'na botegheta: sarà stata tre metri per tre. Oltre alla nostra bottega in paese c'era un altro maniscalco.
Io ho sempre avuto passione di fare il fabbro e per le macchine, fin da piccolo. Ricordo che quando venivano in paese le macchine da battere frumento, quelle a vapore ... "mi iera mato pa e machine". Mio padre voleva farmi studiare, o ingegnere o dottore, ma io niente, avevo passione per le macchine.
Mio padre faceva il tessitore, come i fratelli Monti. Lavorava in proprio, a casa sua e ha lavorato fino all'epoca di Caporetto. Faceva la tela: tela da braghe, tela da camice. Aveva un unico telaio. Faceva la tela e poi la vendeva a metri. Lavorava soprattutto il cotone, che andava a comperare a Treviso.
Ritirata di Caporetto
Ricordo tutto questo via vai di gente che vedevo dalla nostra botteghetta. Profughi che scendevano con i carri e i buoi, con i cavalli. Venivano giù dal Friuli, perché i tedeschi venivano avanti e loro scappavano. Tutta una processione di gente. Soldati con i camion. Chi andava, chi veniva, un'enorme confusione. Finché l'ultima sera che siamo rimasti in paese abbiamo iniziato a sentire le sciopetae qua sul Piave.
Così mio padre ha preso la decisione: «Fagoti e via!»
Abbiamo fatto fagotti. Eravamo cinque fratelli e io era il primogenito. [...] Siamo partiti a piedi portandoci dietro quel po' di roba che si poteva prendere. 
Avevo messo i viveri dentro a un sacco legato sopra e legato sotto in modo da poterlo mettere in spalla a mo' di zaino. Dentro ci ho messo del pane, dei salami, vino, formaggio, farina da fare la polenta, fagioli, cipolle ... quello che c'era.
Mio padre su un altro sacco più grande aveva messo dentro le pignatte, i mestoli, i cucchiai, i coltelli.
Nel palazzo di famiglia sono rimasti il fratello e la sorella di mio padre (Bepi e Maria), che erano da sposare. Sono rimasti "par tendarghe [vigilare] a so roba". E vi sono rimasti per tutta la guerra. Non gli è successo niente anche se il palazzo è stato colpito da dodici granate (ma è rimasto in piedi).
Dentro al palazzo si è messo il comando di presidio e gli zii si sono stabiliti in una loro casetta adiacente. La scritta "comando di presidio" è rimasta impressa ancora per anni sulla facciata, sopra la porta centrale.
Avevamo tutti un sacco in spalla, un saco par omo
Mia mamma aveva in braccio mio fratello Bepi; mia sorella che era piccola aveva solo un fagotèl, una roba piccola. Ognuno secondo le sue possibilità. Tutti a piedi, senza carri.
Siamo partiti da casa nostra di sera, noi cinque fratelli con il papà e la mamma; siamo partiti per andar a prendere il treno a Treviso. Era sul tardi, circa le otto della sera. Niente dormire, camminare a piedi nel buio, colonne di militari che scendevano e che salivano.
Quando siamo arrivati a Lancenigo – dove ora c'è la pizzeria e all'epoca c'era una fornace (fornace Bettiol) – abbiamo trovato una colonna di militari con i camion 18 BL che risalivano la strada verso il Piave.
Mio padre ci chiamava sempre per nome, perché era buio e aveva paura di perderci. C'era un'enorme confusione, movimento di soldati e di profughi; ci tenevamo per mano, con i sacchi in spalla.
Sulla colonna di militari che risalivano si trovava quella sera anche il proprietario dello stabilimento Monti, che era il figlioccio di mio padre: si chiamava Bruno Monti, e quando ha sentito mio padre chiamarci ha chiamato a sua volta: «Sàntolo! Aristide!»
Ci ha chiamato e ha chiesto a mio padre:
«Santolo, dove andate?»
«Eh – ha risposto mio padre – vuoi che restassimo qua che si sentivano già le schioppettate? Vado via, vado via.»
Monti gli ha detto: «Spetè santolo, che chiedo al tenente se vi può portare avanti un po' con il camion, magari fino a Treviso.»
È andato a chiederlo al tenente ma è ritornato dopo poco dicendo che no, non era proprio possibile, perché c'erano molti blocchi, uno a Lancenigo, uno al capitello di Sant' Artemio...
Abbiamo continuato a piedi. Abbiamo camminato per tutta la notte; piano, perché c'erano dei bambini piccoli. Alle prime luci del mattino, verso le sei, siamo arrivati alla stazione di Treviso, senza aver dormito niente. 
Non pioveva, era una notte nuvolosa.
Le strade erano piene, c'era confusione. La strada non era asfaltata.
Nessuno era passato ad avvisarci e a farci partire. Siamo partiti per iniziativa di mio padre. Il prete è rimasto in paese.
Mio padre originariamente era intenzionato di dirigersi all'isola d'Elba, perché aveva conosciuto in paese un militare che gli aveva detto di andare a casa sua, all'Elba, dove ci sarebbe stato solo suo padre e sua madre che li avrebbero di sicuro accettati in casa.
Arrivati alla stazione di Treviso c'erano le crocerossine che distribuivano generi di conforto. Ci hanno dato del caffelatte e dei biscotti. C'erano anche delle suore.
Verso le otto ci hanno imbarcati in un treno e siamo partiti con quelle vaporiere di una volta, ciuf ciuf ciuf ciuf, e avanti fino a Bologna, dove siamo arrivati alla sera. Dalle 8 della mattina alle 8 della sera.
A Bologna ci hanno mandato in sala d'aspetto. Anche là c'erano delle crocerossine che ci hanno dato caffelatte e biscotti.
Siamo rimasti a Bologna per la notte. Al mattino ci hanno caricati su un treno e ci hanno detto che si doveva andare a Pistoia, dove forse c'era posto per i profughi.
Siamo arrivati a Pistoia verso le 10 e siamo stati fermi alla stazione, in treno. Poi sono venuti a dirci che posto non ce n'era, e bisognava andare a Pescia.
Metti in moto ancora il treno e andiamo a Pescia. A Pescia ci tengono fermi un'altra ora e neanche là c'era posto; bisognava andare a Montecatini.
Intanto si era fatto il primo pomeriggio e finalmente siamo arrivati a Montecatini dove abbiamo trovato posto.
Ci hanno sistemati da un'affittacamere. [...] Eravamo su due stanze e una cucina fuori della casa, di là del cortiletto, su un'altro edificio.
L'affittacamere era una donna anziana, con una nipote, non del tutto apposto con la testa.
Siamo rimasti a Montecatini fino alla fine della guerra.
Ci trovavamo bene e poi andavamo anche a lavorare.
All'inizio ci passavano 250 grammi di pane al dì a testa, con la tessera; e anche il riso e la pasta, ma tutto con la tessera.
Ci davano un sussidio di una lira e 50 a testa e due lire al capofamiglia.
Certo che duecentocinquanta grammi di pane noi lo mangiavamo già prima de far marenda [prima colazione]. Allora io e mio fratello Aristide andavamo per la campagna con il sacco. Mio padre ci aveva dato dieci lire d'argento per comperare la farina. Noi chiedevano ai contadini se avevano un po' di farina da vendere e questi contadini rispondevano: «Oh bimbo mio non ce n'abbiamo manco per noi! Il governo ci ha sequestrato tutto, ma se ne volete una brancata.» Avevamo un sacchetto per la farina e un sacchetto per il pane e così un po' di qua un po' di là alla sera venivamo a casa con i sacchetti pieni di roba e tutta la famiglia poteva mangiare.
E soldi non ne volevano.
Tutti i profughi andavano in giro per le case in cerca di mangiare.
Per far fuoco andavamo per le pinete in cerca di pigne. I pinoli erano già usciti e le pigne cadevano per terra; si andavano a raccogliere le pigne con il sacco e con quelle si faceva fuoco. Si andava in collina, sulle montagne che circondavano Montecatini, io e i miei fratelli Ferilio e Aristide. Ci eravamo fatti prestare un carretto e con i sacchi si andava su, e in qualche maniera si faceva fuoco per una settimana. Per mangiare avevamo un focolare
Niente stufa in camera, niente gabinetto in casa ma fuori.
Poi siamo andati a lavorare, io e mio padre, in un'officina in cui si producevano granate. Officina che era venuta profuga anche lei a Montecatini, da Castelfranco Veneto: l'officina Rebellato, di cui era capotecnico militarizzato Menon Guglielmo da Roncade. In quest'officina lavoravano una cinquantina di persone sia maschi che femmine a turni continuati notte e giorno. 11 ore a turno più un'ora di riposo a mezzogiorno e una a mezzanotte.
Io avevo poco più di quattordici anni e mi hanno messo a lavorare al tornio (avevo già un'infarinatura da casa). Si trattava comunque di un lavoro "fisso": tirar giù il pezzo finito, mettere su quello grezzo e mettere in moto il tornio che era già programmato. Lavoravo "a contratto" [a cottimo] e sono arrivato a prendere sette lire al giorno – mi sembra che fossero circa 20 centesimi al pezzo – mentre la paga normale era sulle tre lire e mezzo al giorno. Cioè prendevo circa il doppio; ed erano bei soldi.
Mio padre l'hanno messo invece al montaggio, dove provavano le ogive e i diaframmi dentro. 
Facevamo granate da 149 e da 105 mm diametro, lunghe circa mezzo metro.
Mai nessun incidente in fabbrica e neppure scioperi o proteste.
C'erano sia uomini che donne ma le donne erano di meno. Inoltre c'erano una ventina di operai specializzati con la fascia tricolore sul braccio che coordinavano il lavoro; cioè impostavano il lavoro delle singole macchine in modo che noi non facevamo alto che prendere il pezzo grezzo e portarlo a compimento.
I militarizzati erano una specie di capi. Poi c'era il capotecnico Menon che era sopra tutti.
Nessun problema in fabbrica, di nessun genere.
Con la gente del posto mi trovavo bene, ma in fabbrica lavoravano prevalentemente profughi. Pochi erano del posto; gli operai erano profughi e militarizzati.
Montecatini anche all'epoca aveva alberghi e l'ippodromo.
I toscani ci trattavano bene, altro che qualche volta dicevano, magari ai bambini loro: «Stai zitto sennò ti faccio mangiare dal profugo!». 
Però non c'era ostilità nei nostri riguardi. Noi ne abbiamo conosciuti tanti del posto.
Recentemente – sette anni fa – sono ritornato a Montecatini. Ho rivisto la casa d'allora. Non c'è più l'affittacamere ma la casa, sia pur rinnovata, c'è ancora e si trova all'angolo di Via del Salsaro [Salsero]. In quell'occasione ho trovato l'attuale proprietario e gli ho detto che nel 1917 ero stato profugo là, e il proprietario mi ha fatto festa e mi ha invitato in casa sua.
Siamo ritornati a casa appena finita la guerra. 
Già il giorno 10 [novembre 1918] eravamo a Varago, io e mio padre, anche se non si poteva. 
Non ti davano il permesso di ritornare in quella che era la zona di guerra, ma noi siamo ritornati da "clandestini", senza permesso e senza niente. Un "franco" in tasca l'avevamo, perché da profughi eravamo riusciti a metter da parte 10.000 lire. Tutti soldi che tenevamo in casa, non in banca; tutte carte da mille, quelle grandi.
Arrivati di sera alla stazione di Mestre vi troviamo sentinelle dappertutto che ci chiedono cosa facciamo là. Con le sentinelle non si poteva pensare di uscire... Siamo rimasti un po' in sala d'aspetto e poi siamo andati un pochino in giro all'interno della stazione, fino all'una circa. All'una, me lo ricordo come fosse adesso, c'è la sentinella seduta là con il fucile sulle ginocchia, che dormiva. Abbiamo provato a fare un po' di rumore e il soldato non si muoveva. Mio padre ha detto: «Proviamo ad andar fuori». E pian piano, pian piano ce l'abbiamo fatta ad uscire dalla stazione.
Siamo arrivati a casa a piedi. Dall'una di notte alle undici e mezzo del mattino. Lungo la strada c'erano camion di soldati, ma non ci hanno fermato.
Quando siamo arrivati a casa nessuno ci aspettava. Abbiamo trovato i fratelli del papà che - sorpresi - ci hanno chiesto: «Qua siete voi? come mai ?»
Poi io sono rimasto a casa, mentre mio papà è ritornato a Montecatini.
A Montecatini eravamo venuti a sapere subito di questo armistizio.
La notizia si era diffusa subito e non si è andati più a lavorare in officina. Tutti fuori a far festa, una festa che non so. Tutti in piazza con le bandiere a sigàr [urlare] che la guerra è finita.
Quando sono arrivato nei miei campi a Varago, proprio dove c'era un filare di viti ci saranno stati due quintali di cartucce, baionette e munizioni varie. Perché nei nostri campi, oltre ad esserci il comando nel palazzo, c'era un accampamento di militari con le tende. E proprio a cinquecento metri dal centro del paese, sulla nostra proprietà, c'erano quattro piazzole di cannoni da 149, lo stesso tipo di granate che facevamo noi.
Tutte le siepi di acacie erano sparite. I soldati avevano tagliato tutto. Secondo me era per facilitare il transito delle truppe che dovevano passare dappertutto. Però a ben pensarci le viti erano rimaste in piedi. Allora forse le siepi erano state tagliate per far legna da fuoco...
A casa nostra, nella stalla, aveva trovato alloggio la Settima compagnia inglese dei pontieri, quella a cui è stato dedicato il monumento di Salettuol. Quando noi siamo tornati gli inglesi erano già partiti perché erano andati a fare il ponte sul Piave e ci hanno rimesso le penne quasi tutti, tanto che gli hanno fatto il monumento. Ed erano partiti proprio da casa nostra, dove avevano dormito sulla tèda [deposito di fieno sopra la stalla].
La nostra campagna era tutta devastata perché vi avevano camminato sopra con i camion, con i trattori, con i cannoni. La nostra terra in linea d'aria è distante circa due chilometri dal Piave, ma non c'erano trincee e non c'erano neppure morti.
Ma ne ho visti di morti, sul Piave. Perché sono andato subito sul Piave – dalla parte dei tedeschi sulla sinistra – e sono passato sulla passerella a Salettuol (ma ce n'erano diverse di passerelle). Vi sono andato assieme ai miei amici, a quelli che non erano andati via, perché in tanti erano rimasti a Varago, anche ragazzini della mia età o più giovani.
Siamo andati subito a vedere e ricordo un ricovero. Era stato sfondato perché vi era caduta una granata che aveva forato i travi di acacia, sopra i quali era stata distesa della terra. Dentro là ho visto tre morti tedeschi che erano ancora là dopo una settimana.
La campagna un po' alla volta l'hanno messa a posto mio zio e mia zia che erano senza figli e che lavoravano sette campi di terra [...].

Nastro 1994/1 - Lato B  fino 19:37 [su cassetta]  venerdì 4 marzo 1994 

[...]
00:45 Monti, quello della tessitura, era anche lui come mio padre un piccolo tessitore di paese. Erano alcuni fratelli ma due in particolare facevano quel mestiere: Venerio ed Evaristo, mentre Bruno, che era figlioccio di mio padre faceva il falegname. I due tessitori avevano un telaio ciascuno e inoltre avevano altri telai per alcuni dipendenti. Tre di questi telai erano meccanici, e non essendoci la corrente li facevano andare con il motore a scoppio. Pon pon pon pon pon, si sentiva il rumore.
Erano partiti dal nulla e hanno trovato l'articolo giusto.
Prima della [grande] guerra facevano la tela, perché i contadini della zona coltivavano la canapa e il lino. Lo lavoravano in casa, in famiglia – lo filavano – e poi lo davano ai tessitori che preparavano la tela che serviva per le braghe, le giacche, uso familiare e consumo locale.
*
03:06 Le munizioni che ho visto appena arrivato a casa sono state raccolte poco dopo da una squadra di soldati che è venuta a pulire tutto, anche le bombe.
Io poi sono andato a lavorare con le cooperative che erano sorte per la ricostruzione, bianche e rosse. Sono andato a lavorare come fabbro per una cooperativa e facevo canevassi [catenacci] per le porte, bartoèi [cerniere] per i balconi, ecc. Era una cooperativa rossa di cui non ricordo il nome, sorta ad opera di piccoli impresari della zona. Era di Maserada, ma non ricordo con precisone, perché non vi sono rimasto molto parché no i pagava mia, i iera tuti deinquenti. Facevano lavorare e poi non pagavano.
04:49 Sono andato via e ho impiantato una bottega di fabbro a casa mia. Avevo 19 anni [...] e mio fratello dell'11, Ferilio, mi faceva da garzone. Lavoravo lo stesso per le cooperative, però mi facevo pagare alla consegna della merce.
Erano tutti ladri uguali, quelli delle cooperative, tanto che Bruno Monti che faceva il falegname assieme allo zio Renato, fratello di mia mamma, si è messo in società con una grossa falegnameria per costruire i serramenti delle case. Questa società "Monti-Pianca" è andata in fallimento, perché le cooperative non pagavano. Hanno chiuso con un deficit di 44.000 lire, di quegli anni.
06:24 Chiusa la società, Bruno Monti è entrato nello stabilimento che avevano aperto i suoi fratelli, mentre invece mio zio Giuseppe Pianca è stato sistemato dal senatore Caccianga che gli ha dato una mano ad avere l'appalto [rivendita generi di monopolio] e un'osteria. L'osteria c'è ancora a Saltore, ma ora è un bar. Là vicino c'è anche la villa di Caccianiga, che però non si vede dalla strada perché è in mezzo a un bosco. Sempre là vicino c'è anche la villa del senatore Visentini, che un tempo era anche quella proprietà di Caccianiga: infatti il senatore ha sposato una Caccianiga ed è venuto ad abitare in una di queste due ville.
08:13 Ad un certo punto le cooperative hanno finito di lavorare e a me è rimasto ben poco lavoro per i contadini: fare i carri, i cerchi per i carri, gli attrezzi di campagna. Ma i contadini soldi non ne avevano e ho dovuto chiudere bottega, perché quando era ora di andare a comperare il carbone e il ferro per fare il lavoro non avevo i soldi per farlo. Li "avanzavo" ... e ancora li avanzo!
Il fatto è che anche i contadini non avevano soldi. Aspettavano sempre quando avevano le gaete [i bozzoli], quando avevano un vitello da vendere, il frumento, il granoturco...
09:37 Sono stato costretto a smettere e nel 1921 sono andato a lavorare da Ronfini, [in via Roggia] a Treviso e vi sono rimasto finché sono venuti i fascisti che hanno spaccato tutto perché il padrone era repubblicano [...] 

13:27 Ho fatto il militare in artiglieria a Ferrara e finito il militare sono andato a lavorare da Menon a Roncade, da quello che era stato il mio capo a Montecatini. A Roncade faceva motorini, biciclette, automobili, di tutto.
Io ho cambiato specializzazione e sono andato sui motori e sulle macchine a vapore che venivano riparate là da Menon.
Da Menon ho lavorato poco più di un anno. Poi mi sono licenziato perché si trattava di fare 11 ore di lavoro al giorno e 16 km all'andata e 16 al ritorno con una bicicletta tedesca che se gli metti un motorino di quelli di oggi non riesce neppure ad andare avanti.
14:49 Ho trovato posto a Treviso nel garage di via Canova dove lavoravo sempre nelle macchine – manutenzione dei motori – e dove sono rimasto fino al 1930.
Nel 1930 sono andato a Spresiano, davanti alla stazione, come meccanico da un padrone che aveva tre macchine a noleggio e un camion a rimorchio. Il padrone si chiamava Roberto detto Bala ... il vecchio padrone era Luigi, con i figli Ciliano e Ferruccio che avevano anche osteria e ristorante.
16:05 Sono rimasto a Spresiano cinque anni finché sono partito per l'Africa orientale, dove sono stato 13 anni a l'Asmara. Ma ho girato tutto l'impero come camionista. Lavoravo per conto dei Bet di Treviso: Angelo Bet e Giuseppe, Bepi, e i suoi tre fratelli più giovani. Angelo no, lui era rimasto a Treviso.
17:00 La sede della ditta era a Decamerè, a circa 40 km dall'Asmara e là vicino c'era l'aeroporto di Gura dove si trovavano tutti gli autotrasportatori italiani.
Io sono arrivato fino a Gima, al lago Tana, a Gondar. Trasportavo tutta roba dei soldati; non era difficile il lavoro.
Sono ritornato nel 1948 perché prima non si poteva rientrare: ci voleva il permesso dei signori inglesi. Ero stato prigioniero, ma sono scappato due volte dal campo di concentramento... [19:37 - fine intervista]

giovedì 7 ottobre 2010

Maria Saccon (Maria dea Barca), San Polo di Piave TV

Nata il 22 marzo 1907 e al momento dell'intervista abitante a Roncadelle presso l'ex traghetto/passo a barca sul Piave.

Nastro 1994/28 - Lato A                             18 agosto 1994

Abitavo a San Polo, verso la Caminada, e sono andata profuga a Fontanelle. Dapprima i tedeschi ci avevano portati a San Cassiano di Livenza (PN).
Mia mamma doveva comperare un figlio ed è partita prima; aveva paura perché ormai c'erano i tedeschi.
Noi siamo venuti a stare qua su un baracchino, perché mio marito – Gaiotto Ugo, classe 1903, detto Piccino perché era piccoletto – lavorava con il Genio Civile e gli hanno permesso di metter su questa baracca.
Sono già stati anche quelli della barca [i Belumat] ... mi hanno tirato giù [intervistato] tante di quelle volte!
Una volta si bruciava legna, non c'era il gas. Quando veniva giù il Piave si andava a trovar le legne pa a Piave, e a volte si faceva baruffa anche par 'na soca [una ceppaia].
[...]
Quando mio marito non aveva lavoro si lavorava di cesti e nel frattempo ci si era fatto un casonetto. Si avevano due figli e bisognava arrangiarsi.
A volte passava qualcuno e chiedeva: «Me fatu un piasser passarme oltra?» 
Con quella un po' alla volta è venuto il traghetto, perché prima non c'era, in questo posto. 
Non eravamo d'accordo né col comune né con nessuno, eravamo provvisori. Una volta non era come adesso che non si può più andar raccogliere neppure un bacchetto. Non c'era una tariffa, gli si diceva: «Dème, quel che voé ... sinque schèi, dièse schèi, vinti schei.»
Mio marito nel contempo andava sempre a lavorare sulle crode lungo gli argini del fiume, con il Genio Civile. Perché non era come adesso che vanno con le macchine e mettono là. Una volta portavano la roccia, la accatastavano bene, la misuravano. C'erano tante imprese, sul Montegàn [Monticano], su a Livenza, sul Sil, dappertutto.
Quando non c'era il marito e c'era poca acqua mi arrangiavo io.
La barca veniva mandata avanti con una stanga di legno di càssia [acacia], sotto alla quale si era messo un pìc [rivestimento in ferro] che pesava più di un chilo, in modo che quando si buttava la stanga sull'acqua andava in fondo facilmente e si poteva spingere sul fondo [se sé frontéa]
Dopo la guerra questi pìc li si faceva anche con i bossoli. A volte si perdeva anche la stanga sull'acqua e non la si trovava più.
Noi siamo venuti qua nel '34 e si è iniziato il traghetto in questo posto solo da quegli anni. 
Prima dell'altra guerra il traghetto era là in fondo, di là del vigneto, sotto il Comune di Cimadolmo in località Stabiuzzo. Era una zattera mandata avanti da una zia di mio povero marito, che era mezza orba. Là passavano anche con i carretti perché prima dell'altra guerra c'era sempre il Piave alto e «Venezia passava tutta per qua». Dopo l'altra guerra hanno iniziato a prelevare acqua per il canale della Vittoria e tutti i canali, per questo ora acqua sul Piave non ce n'è più. 
Noi siamo andati avanti finché hanno fatto il ponte di Cimadolmo. E con quello è finita, ci ha tolto tutto il lavoro.
Quando sono venuti grandi ci hanno aiutato anche i figli. Alcuni sono andati in Svizzera. Poi si lavorava di cesti, si andava a vénchi. Abbiamo fatto tanti di quei lavori! Non bastava certo il traghetto ... ci davano dièse franchi.
Mi sono sposata nel 1931 e ho avuto sette figli. Tre figlie sono andate in Svizzera.
Si aveva una baracca con due stanze e mio marito se in'ségnéa a far de tut [si ingegnava a far di tutto]. Avevamo una baracca ancora dell'altra guerra, ma fatta bene. Per ripararsi dal freddo mio marito ed io andavamo a canéoni. Una volta c'erano di quelle cannelle lunghe in mezzo al Piave, e abbiamo fatto una specie di s-ciorín come quello in cui si mettevano i cavalieri [i bachi da seta], con le cannelle fisse [fitte, ravvicinate]. Dopo le si appendeva al muro e mio marito faceva la malta e gliela applicava in modo che la baracca sembrava una casetta.
Questo è successo nel 1934, qualche anno dopo che mi ero sposata.
La baracca l'avevamo comperata dal proprietario del mulino di San Polo.
Andavamo a raccoglier vénchi [vimini] qua vicino [...] dentro al Piave. Li si tagliava ogni anno e li si scusséa [sbucciava, toglieva la scorza] con la giòa: venivano tutti belli bianchi. Tagliandolo, l'arbusto rigettava germogli utilizzabili di anno in anno. Erano chiamati vimini de farinati. Ma si lavorava anche con el talpon [pioppo] e con le rame de morèr [gelso]. 
Si facevano soprattutto ceste per le damigiane, che una volta erano tutte rivestite di vimini e legno.
Anche i rami del gelso dovevano essere di un anno. Ogni ramo veniva diviso in tre parti [aiutandosi] con un pezzetto di legno preparato allo scopo e che aveva tre sporgenze (questo attrezzo non ce l'ho più).
Lavoravamo anche el talpon in questa maniera e anche le càssie [acacie] mate.
Si lavorava soprattutto con le damigiane. 
Quando mi sono sposata si facevano anche di quei cestini rotondi (e un po' oblunghi) – 20x30 – che servivano per le spedizioni. Vi si mettevano dentro patate, téghe [baccelli di fagioli] e roba così. Avevano anche il manico; si aveva la misura ed erano più alti che larghi. Li portavamo qua a Cimadolmo.
Nelle famiglie un po' tutti lavoravano i vimini. [...] 
Quanto ho lavorato!
Sono andata a scuola fino alla terza, a San Polo. Sono nata a Fontanelle e poi sono andata a stare a San Polo. 
Durante la guerra siamo ritornati a Fontanelle, di là della chiesa e del Montegan...
Quando sono arrivati i tedeschi abitavo a San Polo. 
Da S. Polo i tedeschi ci hanno portato a San Cassiano di Livenza. Eravamo io, mia sorella Rosina (che ha un anno più di me) e una mia zia, Luigia Saccon. Eravamo solo noi tre a San Cassan, perché eravamo rimasti [ci eravamo attardati] a casa. Invece mia madre con gli altri figli: cinque, più uno che l'aveva dentro e che è nato durante la guerra; un altro figlio che fa nove è nato dopo la guerra...
Mia madre dunque si era già allontanata ed era andata a Rai da una famiglia di suoi parenti. Era "in condizion", doveva avere un figlio e aveva paura di questi bombardamenti. Ma a Rai non c'era posto per tutti, allora ha trovato un posto a Fontanelle mentre noi eravamo ancora a San Polo.
Poi tedeschi ci hanno portato a San Cassan con i cavalli e i carri. Della nostra famiglia eravamo noi tre soli, ma insieme a noi c'erano tanti altri. Ci hanno sistemato dentro a una scuola.
I primi ad arrivare a San Polo sono stati i germanici. Quando sono arrivati hanno trovato tutto il ben di dio. C'era vino, c'erano pannocchie, c'era di tutto sul solèr [solaio].
Hanno iniziato a lasciar correre fuori dalle botti il vino, ciocàrse [ubriacarsi], far e brigar. Per quello si sono fermati un anno qua. Perché se avessero proseguito di là de a Piave non c'era ancora niente di pronto per fermarli. Così si sono fermati e gli italiani hanno fatto in tempo a prepararsi.
A noi non hanno fatto del male.
Tante donne hanno avuto anche dei figli e li hanno tenuti.
Dove ero io, una cognata di una mia zia ha avuto un figlio [da un "tedesco"]. Se l'è tenuto e poi sono andati a stare in Francia. Gli ha messo nome Guerrino, figlio della guerra. [...] Malgrado ciò si è sposata.
Queste ragazze andavano a lavorare per i tedeschi e mia zia che era grande si portava a casa una ciopa de pan che era fatto di polenta gialla. Non so poi con i tedeschi, con tutta questa compagnia cosa succedesse.
I tedeschi ci davano 14 chili di farina di frumento ogni otto giorni, in 14 che si era.
Eravamo a Fontanelle, nella casa di una famiglia che lavorava la terra del conte Marcello.
Mia nonna e mio nonno hanno camminato una giornata in cerca del posto dove i tedeschi ci avevano portato. Cammina e domanda, e alla fine ci hanno trovato a San Cassan di Livenza, dove siamo rimasti poco, perché siamo ritornati a Fontanelle con la nostra famiglia.
C'erano anche di quelli che sono rimasti in paese [a San Polo].
Non sono mica scappati tutti. Quelli che sono rimasti qua hanno fatto man salva dappertutto, nel senso che andavano dentro nelle case e portavano via quello che c'era dentro. Perché quando siamo partiti abbiamo lasciato tutto, non abbiamo portato via niente. Siamo andati via con le mani in mano, con quel poco che eravamo vestiti. Perso tutto.
Mio padre si chiamava Saccon Luigi, e mia madre Angela Bernardi di Oderzo. Mio padre si era diviso dalla famiglia che era composta di 40 persone, con tre cugini, una famiglia grande. La divisione era stata fatta prima della guerra e quando sono venuti i tedeschi abitavamo già a San Polo, ed eravamo in quattordici.
Quando si metteva un po' di polenta a scaldare sulla graela, sul larin ... se si voltava la testa stava poco a sparire perché i tedeschi, o dentro per il balcone o dentro per non so dove, la facevano sparire. Avevano fame anche loro!
Sono scappati perché avevano fame, altrimenti sarebbe rimasti qua ancora. Sa che hanno mangiato tutto il cinquantino, e anche i botoi [tutoli]. Non c'era più niente, per quello sono scappati, altrimenti non andavano via.
Noi in qualche maniera si riusciva a mangiare perché mio nonno e mia nonna camminavano da una casa all'altra e portavano a casa qualcosa.
Ci è capitato di mangiare anche polenta di sorgo, quello rosso con cui si fanno i scoàt [scopini]. Era quasi immangiabile, e quando lo si era mangiato non si riusciva più ad andare di corpo, si poteva fare quello che si voleva; ma se non c'era altro bisognava mangiare anche quello, senza sale né niente.
È stato un anno tremendo per noi che eravamo rimasti di qua, ma non per quelli che sono rimasti in casa, perché quelli si sono nascosti la roba che trovavano. Noi a San Polo abbiamo avuto la casa buttata giù e molti di San Polo erano rimasti a casa. Tanti andavano e tornavano e così andavano a prendersi la roba per le case.
A San Polo la nostra casa era per terra e ci hanno dato una baracca.
Noi bambini da profughi si andava par i fòss, si andava a prendere rane e pesce. C'erano tutti questi fossi e c'erano le rane: le si vedeva quando erano drio riva che saltavano dentro e allora si andava a palpéta
I pesci erano tutti pessetti piccoli, da fosso.
A scuola sono andata fino in terza.
Mi ricordo che durante la ritirata dei tedeschi, a Fontanelle – siccome nel palazzo del conte Marcello c'era il comando – mia zia che aveva sui diciotto anni gli ha detto una parola in tedesco, zurück, e loro si sono talmente arrabbiati che se non stava presto a scappare l'avrebbero ammazzata (era come una presa in giro).
Mia zia Luigia era ricoverata all'ospedale ed aveva il tifo. Mia nonna era andata a trovarla e tornando indietro ha trovato i tedeschi che non la lasciavano più passare perché ormai c'erano gli italiani ... che erano passati di qua del Piave, che erano arrivati con i cavalli.
[Gli italiani] ci hanno trovato che stavamo grattando le pannocchie per far farina per la polenta; con un chiodo e una gratariola, si grattava.
Mi ricordo quando sono arrivati gli italiani.
Sono arrivati con i cavalli e ci hanno dato una ciòpa de pan ciascuno e noi siamo stati tutti contenti, perché non se ne aveva.
Mia nonna ha indicato agli italiani dove, là in fondo, c'erano i tedeschi che non l'avevano lasciata passare. Perché i tedeschi si erano messi sopra gli alberi per fermare gli italiani che avanzavano.
Paura tanta.
Quella volta dell'offensiva [giugno 1918] ... che si sentiva tutto questo bum bum bum e si vedeva tuto un fogo, stando a Fontanelle.
Quando siamo arrivati qua c'erano tutte buche di granate, morti, di tutto.
Da San Polo siamo venuti lungo il Piave. Si andava a prender su le coperte, i teli, la roba che ci serviva per casa perché non avevamo più niente. 
Granate ce n'erano un'infinità, cassette piene; di grandi e di piccole e di tutte le sorti.
Erano sopratutto i nostri vecchi che venivano a prendere roba sul Piave, dalle parti dell'osteria della Isetta a Cimadolmo, dopo Stabiuzzo. Là c'era la possibilità di andare in Piave. Trincee ce n'erano anche qua dove poi siamo venuti a stare.
*
Trincee sull'argine ne sono state fatte anche durante l'ultima guerra: i tedeschi si erano preparati. Quante legne e quanti travi e quanta roba che ci mettevano dentro là, nei camminamenti!
Durante l'ultima guerra noi eravamo in questo posto, sul Piave, e io avevo una paura...
I partigiani venivano tutta la notte a chiamare che andassi a passarli "oltra", ma mio marito non veniva fuori, gli gridava che andassero a chiamare gli uomini addetti. Poi c'era da passare i tedeschi che andavano a fare trincee di là, sull'argine destro, a Candelù. Ma mio marito andava a lavorare e non voleva passare nessuno.
E i partigiani ... mio marito aveva paura perché qua c'era il lavoro dei tedeschi.
È successo che un maresciallo di Oderzo è stato ammazzato qua più avanti dove finisce questo argine e c'è un frantoio di ghiaia.
Hanno preso questo maresciallo e l'hanno messo in macchina. Noi eravamo nella baracca e l'abbiamo visto passare due tre volte, bendato gli occhi, dentro alla macchina. Poi non contenti sono andati in osteria e gli hanno dato da bere e l'hanno ubriacato. Quando era verso notte sono tornati a passare e abbiamo sentito il colpo quando l'hanno ucciso. Dopo cosa hanno fatto? Hanno fatto un buco là e l'hanno messo sotto due crode, con i piedi fuori. [...] Noi eravamo pieni di paura che ci ammazzassero se vedevano questo morto, ma di tutta notte i partigiani se lo sono venuti a riprendere e l'hanno seppellito in mezzo a quella grava laggiù. L'hanno scoperto anche là, sono venuti a prenderlo e l'hanno seppellito a Oderzo.
*
Vengono sempre a trovarmi i ragazzi delle scuole, ogni anno, soprattutto il maestro Fausto Pozzobon.
*
[Durante l'occupazione tedesca] i miei vecchi andavano "a carità". Una volta sono venuti a casa con un poco di sorgo; per la strada i tedeschi li hanno trovati e volevano portargli via anche quello.
Se riuscivano a raccogliere un po' di biava, di tutta notte si recavano a Campomolino a macinarla in quel molino, sempre di nascosto, perché se li trovavano gliela prendevano.
Noi 14 eravamo riusciti a nascondere una vacca, o forse ce ne avevano lasciata una... perché ci avevano requisito tutto. Non i tedeschi, ma i poliziotti nostri: si erano messi la fascia sul braccio e ne hanno fatte anche loro sì, finché bastava. Andavano dentro per le case a requisire, portavano via le calière, portavano via tutto. Trovavano una branca di biava e la portavano via. Portavano via tutto anche loro, i poliziotti, ed erano della zona.
Nella casa di Fontanelle eravamo profughi insieme a una famiglia di Santa Lucia. C'era una stalletta là dietro e noi vi avevamo nascosto la vacca.
La famiglia di Fontanelle dove eravamo profughi si chiamava Chin. Non c'erano uomini: sia il capofamiglia che i suoi due figli erano in guerra. C'era solo la signora Luigia, proveniente da Treviso, che era anche zoppa e lavorava la campagna del conte Marcello.
Dapprima ci ha sistemato in due stanze e poi ci ha dato il solaio. Mia madre all'inizio dormiva nella stanza dabbasso, ma poi sono venuti gli ufficiali tedeschi e l'hanno costretta ad andare di sopra perché la stanza al pianoterra la volevano loro. Allora noi le abbiamo ceduto la nostra camera e siamo andati di sopra, nel solaio.
Anche la famiglia di Santa Lucia, famiglia Sanco – che poi ha tenuto a cresima anche una mia sorella – aveva una sua camera. Erano in sei e una delle figlie si chiamava Armida.
C'era il lampione a petrolio vicino alla porta d'ingresso della stanza di quelli da Santa Lucia, e una volta ha preso fuoco. Urlavano, e la casa era chiusa. Mia zia ha preso una brocca d'acqua e l'ha buttata sulle fiamme, e ha fatto peggio. Per fortuna comunque – alla fine – sono riusciti a spegnere le fiamme, altrimenti restavamo tutti bruciati perché non si poteva uscire dato che il fuoco era sulla porta.
I padroni Chin non è che ci trattassero male solo che, lei in particolare, la signora Luigia, era più furba di noi. Mia madre con questa vacca a volte riusciva a farsi un po' di formaggio. Lo metteva nella sua camera dabbasso e la signora Chin, di nascosto, andava a rubarglielo; di notte poi entrava in caneva e andava a prendersi del vino. Noi eravamo riusciti a portarci da casa un caretèl di vino per mia madre che era "in stato". Di notte lei andava dentro e se lo andava a prendere e poi usciva camminando con questo pentolino (quello del caffè) sopra la testa, sotegàndo, sotegàndo (zoppicando, zoppicando). «Eh, son 'ndata a ciòrme un poca de aqua in tel secièr», diceva se qualcuno la vedeva, invece andava a prendersi il vino in cantina, e alla fine ci siamo trovati col caretel vodo.
Mia madre era riuscita a portarsi via il vino perché era partita prima. Noi invece avevamo aspettato perché si sperava di restare.
Quando siamo partiti noi avevano già iniziato a sparare. Non si voleva andar via, ma alla fine siamo stati costretti ad allontanarci, con quello che si aveva.
Mia madre con il latte riusciva a farsi anche un pochino di burro e lo portava al comando.

Nastro 1994/28 - Lato B

Al comando faceva scambio con un po' di zucchero e la mamma ce ne dava un po' per ciascuno. Noi lo si tociàva con la polenta, polenta e zucchero: era il dolce, la carne e tutto.
Si andava a rubare zucche per i campi. Mia sorella aveva tre-quattro anni  – si chiama Rita e adesso è in America – una volta è andata a confessarsi e il prete le ha chiesto quale peccato avesse commesso. Lei ha risposto: «Son data robar na zuca» e il prete le ha detto che non era peccato, no.
E le radicèe, quelle che fanno il fiore giallo, i fratò-c (il tarassaco); ma anche altre erbe.
Mia zia Catìna (Saccon, sorella di mio padre), che aveva due gemelli, mangiava le radici delle erbe fratò-c perché non c'era niente da mangiare.
Anche lei era profuga dalle parti di Fontanelle, e in tanti si sono fermati da quelle parti.
A Fontanelle eravamo troppo vicini ai tedeschi; quello che si aveva lo portavano via tutto loro. Poareti, erano morti da fame anche loro. È per quello che hanno abbandonato l'Italia, che hanno perso la guerra!
Di San Cassiano di Livenza ricordo che eravamo tutti su uno stanzone, distesi per terra sulla paglia. Per quello i miei hanno voluto tornare indietro, riunire la famiglia.
Fra le erbe, buoni anche i bruscandoli e i s-ciopét.
Subito dopo la guerra ci siamo sistemati dentro una caneva bassa, sotto una casa. Tutti dentro là finché non ci hanno portato una baracca. La caneva era nel borgo in cui abitavamo prima, il borgo dei Cadorini che era vicino a quello dei Facchini, sopra la località Caminada di San Polo, per andar verso San Michele.
Subito dopo la guerra due ragazzi che andavano a scuola assieme ad alcune ragazze si sono messi a battere una granata poco distante da dove noi abitavamo. La granata è scoppiata e di quelli che battevano uno ha perso le dita, una ragazza si è presa in pieno petto il cul della granata che l'ha scaraventata nella siepe e là è rimasta morta; poverina era anche senza mamma. Un'altra ragazza ha avuto tutto il viso pestato ed è morta da poco [...] La ragazza uccisa dalla granata era una Sessolo.
Nella casa dove ora c'è mia figlia, a duecento metri dall'argine, là c'era una gran buca di granata e mio suocero ha buttato dentro tutte le bombe, granate e residuati vari che aveva trovato nella campagna. Poi le ha coperte e adesso sono ancora là sotto, ben profonde e non sono state ritrovate neppure con il "ferro" con cui andavano a cercarle. Sono là sotto e non scoppiano più, ormai.
Anche a San Polo, in campagna, quando siamo arrivati noi era pieno di munizioni.
Non abbiamo visto morti, ma ci siamo presi le coperte dei militari e le abbiamo utilizzate per farci dei vestiti, braghe, cotole, di tutto.
Quella guerra là è stata molto più dura dell'ultima. Parlo per noi che non abbiamo fatto in tempo ad andare di là del Piave. Quelli invece che sono andati di là se la sono passata meglio. Anche i miei suoceri sono andati di là e sono andati negli Abruzzi con tutte le famiglie che erano nella zona lungo il Piave, perché gli italiani avevano fatto un ponte proprio dove poi noi abbiamo messo il traghetto.
Gli italiani avevano buttato giù anche il campanile di San Polo, prima di partire.
Quelli che sono andati di là non hanno patito la fame.
Quelli di qua invece ... anche i tedeschi l'hanno patita. Perché la strassavano appena arrivati, la biava la davano ai cavalli, il vino lo lasciavano andare per le caneve perché erano ormai ciochi, ubriachi. Per quello si sono fermati qua, altrimenti sarebbero andati avanti, perché di là del Piave non c'era nessuno degli italiani.
Poi gli italiani hanno lasciato andar giù tutta l'acqua dei laghi, come quella volta che hanno annegato tutti i tedeschi. Dove noi un tempo avevamo il vigneto, avevano fatto il ponte e ci sono ancora - sotto le crode - i barconi. Ce ne sono tre quattro, di ferro. Uno lo hanno tirato su quelli di San Polo alcuni anni fa. Quanto hanno lavorato sotto acqua per tirarlo su, quei ragazzi!
Quando i tedeschi hanno fatto il ponte per andar di là, gli italiani hanno mollato l'acqua. Così si è rotto il ponte e tutti i tedeschi si sono annegati. Non è stata la pioggia: hanno lasciato andare l'acqua apposta.
*
Alluvione del 1966. Qella volta l'acqua si è alzata fino a sopra là, ha lambito la casa. Faceva paura; poi ha rotto a Saletto e allora l'acqua ha iniziato ad abbassarsi. È andata fuori di là. Noi siamo andati [con la barca] a portare da mangiare all'Ospedale di Motta; ce lo sono venuti a chiedere.
*
Una volta c'era uno qua a Cimadolmo che faceva barche, era un certo Bassetto; mi pare che abitasse in mezzo alle grave.
La barca è in abete, perché pesa meno. Dentro vi stavano dieci uomini e dieci biciclette.
È lunga 4 metri e larga crca 1,80 - 2 metri.
Era fatica ... e tante volte siamo andati prenderla a Ponte di Piave. Magari ce la slegavano, se la prendevano e andavano in giù, invece di chiamarci; ma l'abbiamo ritrovata sempre intatta.
Una volta qualcuno l'ha nascosta dietro un bàro (cespuglio).
L'osteria una volta non c'era; c'era solo la nostra baracca- abitazione; l'osteria l'ha messa mio figlio una decina d'anni fa.
Il tetto della baracca era con tegole, ho ancora la fotografia.
Dalla famiglia grande – quaranta persone – che si trovava tra Tempio e Fontanellette, sotto Fontanelle in Borgo Dalla Torre, siamo venuti via quando io avevo sette anni. Siamo andati a San Polo e me lo ricordo ancora.
Poi io sono stata a servire a Venezia da dei signori: era la moglie di un capitano della Marina. L' avevo conosciuto tramite uno di Cimadolmo che l'aveva avuto come suo capitano. Si chiamava Marcuzzo, al Lido, vicino a dove arrivavano i vaporetti.
*
Maria Saccon è la protagonista del libro della Alessandra Jesi Soligoni "Ines del traghetto".
La Soligoni veniva qua alla mattina "a prendere le arie" ancora prima di scrivere il libro. 
Qua alla mattina presto era sempre pieno. Una volta non andavano a Jesolo, il dottore li mandava qua. C'era sempre acqua e loro camminavano lungo l'acqua. Alle cinque erano qua, camminavano e poi andavano a casa.
C'era anche il "campo solare". Andavano a buttarsi giù in quel murazzo là. 
Là c'era anche una baracca dove facevano da mangiare per i ragazzi. Erano gli alunni delle scuole della zona: prendevano il sole come in spiaggia. C'era anche un areoplano che faceva il giro ogni giorno...
La Soligoni è di Ormelle e sua madre è morta da poco. Ora abita a Treviso e veniva a prendere le arie al mattino anche lei.
Pavan. Ormai lei è famosa. Quando mandava avanti il traghetto non avrebbe pensato che un giorno tutti l'avrebbero cercata...
Saccon. Quanta acqua ho preso! Se dovessi tener conto di tutta l'acqua che mi sono presa, a tutte le ore, non dovrei neppure più camminare.
Freddo o caldo. A volte c'era il ghiaccio. D'inverno ce n'era sempre, una volta; la stanga era sempre piena di ghiaccio.
A volte la barca era di là, e stivali non ce n'erano. Mi toccava andare dentro scalza e mi toccava poi massaggiarmi le gambe. Tanti mi dicevano òcio, te va dentro in tel'acqua, ocio che te ciapa qua, te ciapa là. Invece ringrazio il Signore ma sto bene.
E sempre scalza. D'inverno avevo gli zoccoli, ma sempre acqua era.
Nuotare non sapevo nuotare: se cascavo dentro mi sarei annegata. In questo posto davanti al traghetto c'erano sei metri di acqua normalmente e i ragazzi andavano sempre a nuotare, si tuffavano.
Una volta una guardiacaccia di nome Orso che era di là del Piave, ha chiamato mia figlia che andasse a prenderlo. Lei è andata, era quasi mezzogiorno. Ha poggiato la stanga su una croda ed è scivolata, cadendo dentro in acqua. La barca è scesa da sola lungo la corrente. Mio marito ed altri ragazzi vedendo la barca scender vuota si chiedevano coma mai, cosa era successo; oltretutto non c'era neppure la stanga su. Nel frattempo mia figlia andava su e giù nell'acqua perché era caduta proprio in un tòrcol, un mulinello. Per fortuna dopo tanto ha trovato sul fondo un rialzo di sabbia. È riuscita a poggiare i piedi e a uscire dall'acqua, spaventatissima: «momenti me negàa». Era mia figlia Gaiotto Luciana, la mia ultima figlia. Avrà avuto 18-19 anni.
Qua davanti alla casa – all'ex baracca – ci sono tante crode sotto; il Piave si è ristretto più di una decina di metri, sempre con queste crode. In questa maniera non c'è pericolo che la terra venga erosa e l'acqua "mangi la casa".
Mio marito sapeva nuotare.
Acacie, càssie mate. Sono buone «fin che e mena», cioè finché non finiscono di crescere, d'estate. Solo in quel periodo si riusciva a scussàrle, dopo non più. Il periodo buono è da maggio finché iniziano a chiudersi, cioè quando non "camminano più", non corre più la linfa. Lo si vede dalla cima della pianta, che "si chiude".
La fornace di Roncadelle, vicino al traghetto è di Bortotto Isaia. Ha funzionato fino a poco dopo l'alluvione. Ora pare che vi debbano fare una pizzeria, una gelateria.
La fornace funzionava con sassi del Piave, oppure con quelli del Cellina. Servivano per ottenere calsìna [calce], che una volta era molto utilizzata.
La baracca della guerra, dove abitavo prima, aveva due stanze. Poi un po' alla volta abbiamo allargato la baracca e anche la nuova casa.
Anche qua sul Piave ci sono le zanzare...

Aggiunte e precisazioni, 13 settembre 1994

Il pìc della pertica era fatto da un artigiano del posto, di Roncadelle.
Le tre figlie emigrate in Svizzera erano Elide, Maria Pia e Edda. Un'altra figlia, Luciana, era in Germania. In tutto ho cinque figlie. La più vecchia, Dilva, è rimasta invece in casa.
Giunchi: Vénchi farinati e vénchi di un'altra specie. Li raccoglievo a Cimadolmo. C'erano delle fabbrichette a Cimadolmo. Noi li portavamo da Barbaress. A Stabiuzzo ce n'erano tanti che li raccoglievano; a Stabiuzzo, più che a Cimadolmo.
Quella volta che a Cimadolmo dovevano aprire la fabbrica di vetro. Non l'hanno voluta perché in paese temevano che si perdesse il lavoro dei cesti a causa di questa fabbrica. Così l'hanno fatta a Ormelle e a Cimadolmo sono rimasti con un pugno di mosche, visto che comunque i cesti poi non li hanno fatti più. Non c'era più futuro per loro, c'era la plastica.
[...] Noi siamo in dieci fratelli, una è nata da profuga a Fontanelle nel '18, si chiama Celestina [...] Dei dieci fratelli, ancora otto sono vivi, la più vecchia è del '6 (Rosina) e il più giovane è del '20. Dieci figli in quattordici anni. Una volta era così.
Io ne ho avuti sette: cinque femmine e due maschi.
Da profuga: rane e pesci nei fossi. Mia madre li arrostiva magari con un po' di burro. 
Quando di pesci se ne prendeva pochi, mia madre li metteva dentro a delle scatole vuote di conserva che i tedeschi buttavano via. Li metteva dentro finché le riempiva, coprendoli col sale. Così si conservavano finché ce n'erano a sufficienza per mangiare. Barattoli di latta avanzati dai tedeschi. 
Il problema però era il sale: ce n'era sempre poco. Bisognava andare dai tedeschi al comando e in cambio di un po' di burro ci davano il sale e lo zucchero.
Noi profughi eravamo sprovvisti di tutto. Chi era rimasto a casa sua qualcosa era invece riuscito a nascondere. A noi tutto quello che avevamo lasciato a casa ce l'hanno portato via o ce l'hanno mangiato i cavalli germanici.
Mia zia Luigia e mia sorella Rosina alla fine della guerra si sono prese il tifo e sono state portate in un ospedale militare dalle parti di Oderzo.
Lo zucchero, per tociarlo con la polenta, lo stendevamo su un piatto.
Dopo la guerra sono andata a servire dalla signora Marcuzzo al Lido, che era sola e aveva due figli: uno era capitano di marina e faceva la spola coi piroscafi da Venezia a Trieste. La loro casa era proprio in vista della laguna, si vedeva San Marco.
[...]
Maria racconta il suo modo di «far l'amor»: i fidanzati seduti sotto il portico, dove c'era un'immagine della madonna ... e quando un vecchio accendeva il lume voleva dire che era ora di smettere e di andare a casa. 
Seduti, davanti a tutti...
Una volta «c'era più allegria», rispetto ad ora. C'era più unione, invece adesso tutti hanno la macchina e tutti sono per conto suo. Una volta biciclette non ne avevano, macchine non ne avevano, gli toccava andare a piedi e allora si univano.
Ora sul Piave non c'è più acqua. Ce n'è d'ora in avanti [in autunno], quando non ne serve, ma d'estate la prendono tutta per le campagne.

martedì 5 ottobre 2010

Silvio Rosa Teo e Teresa Colussi Oliva

Coniugi. Nati rispettivamente il 20 marzo 1910 a Borgo Cudili, località Colvere, frazione di Frisanco (PN) e il 24 novembre 1907 a Poffabro (PN). Residenti in Borgo Cudili.

Nastro 1998/12 - Lato B                             19 maggio 1998

Abitano in una caratteristica antica casa, dove una colonna riporta anche una scritta, da decifrare. Casa con i "paói", ballatoi in legno che servivano per mettere il fieno ad asciugare e conservare. Un borgo ormai spopolato.

SRT (= Silvio Rosa Teo). [...] Quando sono venuti i tedeschi posso dire una cosa: che la mia mamma mi ha dato sei sette galline che avevamo noi e mi ha detto vai su un buco qua dietro la casa, perché vengono e mangiano tutto.
Difatti ne erano rimaste ancora due-tre galline, nel pollaio, sono arrivati due militari, le hanno prese e le hanno messe nella "caldaia" e uno con la gavetta beveva il brodo, mentre bollivano. 
Fame!
Però le sei galline che ho nascosto non sono riusciti a trovarle. Erano dentro ad un fossato, alto. Le ho portate con una gerla e le ho tenute finché i soldati sono stati là poi, quando loro sono andati via verso Maniago, io sono ritornato e le ho rimesse nel pollaio.
Quando hanno perso la guerra i tedeschi sono ritornati indietro. Con un asino, una mitragliatrice e 25-30 uomini sono passati per questa strada.
Mia mamma ha detto andiamo a veder che adesso arrivano i militari nostri, gli italiani. Allora non c'era la galleria, e su quell'ultimo ponte ("il terzo ponte") abbiamo trovato un soldato italiano che veniva avanti con una motocicletta e ci ha chiesto:
- Avete visto i tedeschi?
- Eh, sì, sono andati.
- Beh, han perso la guerra!
I tedeschi, mentre scappavano con l'asino non ci hanno fatto niente.
Quando invece venivano a portare la posta - perché c'era anche a Poffabro un po' di comando - mangiavano i córnoi [frutti del corniolo - cornolàr, Cornus Mas]. È una pianta selvatica che fa dei "bromboletti" rossi, che li si può mangiare. È una pianta del bosco e con quei frutticini si può fare anche il vino: si mettevano su una bottiglia, faccia conto mezzo kilo di questi cornoletti, con due litri d'acqua e veniva fuori un vino speciale, una bevanda non alcolica di colore rosso.
I tedeschi, quando venivano su a piedi da Maniago e trovavano questa pianta, prendevano i frutti - che hanno un ossetto dentro - e li mangiavano. C'è ancora una pianta di quel tipo, di là del torrente. Adesso i frutti ci sono, ma sono ancora verdi, vengono rossi più tardi.
I tedeschi venivano solo a controllare. A Poffabro c'era il comando e anche a Frisanco. Venivano solo a guardare se potevano trovare qualche cosa da mangiare.
Poi qua c'era uno della Bassa Italia. Siccome nella ritirata certi militari che dovevano andare in Bassa Italia sono rimasti nelle case, non so se mi spiego, hanno fatto confidenza e gli si dava da mangiare, anche se ce n'era poco anche per noi. Ma loro non stavano senza far niente, facevano un gerlo, dei rastrelli per tirare il foraggio, quello che sapevano fare.
Quando venivano i militari tedeschi, gli si diceva: «Guarda che ci sono i tedeschi» e loro andavano nel bosco.
Non erano come i partigiani, non erano armati: stavano solo nascosti.
Non li si chiamava proprio disertori, perché erano rimasti indietro quando c'era stata la ritirata, e hanno dovuto nascondersi qui.
Noi non si diceva niente, era come fosse un morto. Non sapeva nessuno che ce n'era uno qua, uno nel borgo Polazzi, uno nel borgo [...]. Nessuno sapeva che c'era. Noi lo sapevamo tutti che c'erano questi soldati italiani, ma i tedeschi non lo sapevano.
Qua nel borgo di Cólvere saranno stati un 5-6. A Poffabro ce n'erano di più, anche se c'era il comando tedesco. Stavano su sulla montagna, avevano fatto come una trincea e quando si accorgevano che venivano i tedeschi, allora andavano su e si nascondevano.
Alcuni erano proprio da Poffabro «erano rimasti indietro», non hanno fatto apposta, non hanno fatto in tempo. [I testimoni lo dicono con convinzione].
Per non farsi prendere dai tedeschi e andare in guerra sono rimasti nascosti nel bosco. Hanno buttato via tutte le divise italiane e si sono vestiti da borghesi: vestiti, camicie, quello che capitava. Sono stati alla macchia, non disertori: non hanno fatto in tempo a passare.
TCO (= Teresa Colussi Oliva). Invece a casa mia erano passati in 4-5, durante la ritirata e ci avevano lasciato due tre bei pezzi di carne che avevano con loro e che non avrebbero potuto portarsi avanti. Poi hanno proseguito nella ritirata. Sono arrivati i tedeschi il giorno dopo e hanno portato via tutto.
SRT. Il fratello mio, classe 1999, ha fatto in tempo verso Maniago Libero, durante la ritirata, ad incontrare dei parenti che erano di laggiù e a dir loro di avvertire la famiglia che stava per ritirarsi.
TCO. "Classe 1999", c'era una canzone che faceva: «General Cadorna, capo degli assassini, chiama il '99 che sono ancor bambini.» 
SRT. Mio fratello era alpino ed era stato prima sul fronte ad Osoppo. Invece di venire qua e fermarsi, quando era a Maniago ha continuato per la sua strada verso il Piave. Aveva sullo zaino una forma di formaggio che gli aveva dato sua mamma due giorni prima. Per fortuna aveva quella, perché una pallottola ha forato la forma di formaggio e così non lo ha preso. Questo è successo dopo Maniago Libero, verso Montereale. [...]
È passato per Poffabro – sulla strada che va a Pala Barzana – lo Stato maggiore italiano. Siamo andati a contare le macchine e abbiamo contato 110 macchine, automobili come erano quella volta, piene di ufficiali dello Stato Maggiore. A Pala Barzana non c'era la strada bella come è adesso.
A Pala Barzana è morto anche un italiano, comunque poca roba, poca resistenza.
TCO. Ricordo solo che sono venuti avanti [i tedeschi, a Poffabro]. Siamo venuti tutti in piazza.
Noialtri avevamo una stalla, fuori, e vi avevamo portate le bestie perché un tedesco aveva detto a un mio zio che sapeva parlare il tedesco – perché era stato a Vienna tanti anni: «Portale via le mucche, perché sono pieni di fame e ve le ammazzano e ve le mangiano tutte».
Tutto uno squadrone di tedeschi ... a casa mia hanno cucinato una mucca e un maiale e l'hanno mangiati là in casa. Poi sono andati in camera, hanno tirato giù le lenzuola dal letto, nel comò sono andati a prendere le lenzuola pulite e ci hanno detto: «Questa sera qui dorme il comando.» E noi siamo andati a dormire nel fienile.
Però non hanno rubato niente. Avevano fame loro, pensavano solo al mangiare. Il giorno dopo se ne sono andati.
C'era l'albergo a Poffabro – l'albergo di Pièri – e là vi hanno messo il comando. Dopo si aveva sempre paura perché venivano sempre per le case a veder se trovavano qualche cosa.
Ah, io ho patito la fame in quella guerra; in questa, l'ultima, no.
SRT. Anch'io ho patito la fame, ma anche adesso in questa guerra l'ho patita.
Quando è finita la prima guerra è venuto un medico americano a Maniago in via Roma dove c'è un barbiere. C'era questo medico americano e mia mamma ha detto a mio papà: «Lo portiamo giù» ... per vedere se poteva farmi qualcosa, perché si mangiavano peteràti, cioè un'erba che cresce sul campo, come il radicchio e se non c'era altro la si tagliava e la si mangiava. Inoltre si mangiava la cùca un'altra erba più garba. Si trovano anche adesso: dopo gliele faccio vedere.
Non c'era niente da mangiare. Prima si era nascosta un po' di roba, ma dopo è finito tutto. [...] Si andava Alla Bassa, a Pordenone, Grions, Portogruaro e là si trovava un po' di biava, un po' di frumento, quel che si trovava. Si stava via due tre giorni e si dormiva per i fienili, per le stalle. Si chiedeva al padrone se ci lasciava dormire per la notte. Sempre chiedere.
Si riusciva sempre a portare a casa qualcosa, a volte pagando ma volevano solo soldi italiani, non corone. Noi avevamo un po' di soldi frutto dei risparmi, come si fa nelle famiglie. Quella volta noialtri i soldi li avevamo nascosti e quando si andava Alla Bassa se ne portavano un pochi. [...] Andavano Alla Bassa i nostri genitori, papà e mamma.
Mio papà non era in guerra, mio zio sì (quello del '99).
TCO. Quando ci hanno liberato dai tedeschi mia mamma è andata a Maniago, come tutti.
C'erano di quelli che scrivevano su un tavolino per conto di chi non sapeva scrivere e mia mamma ha mandato una cartolina in America ... perché tutti i paesani che erano in America volevano sapere se erano ancora vivi quelli del Friuli. E quando la cartolina arrivava in America si riunivano tutti i paesani per sentire le ultime novità dal Friuli, dopo un anno sotto i tedeschi.
Come morti, durante l'occupazione, non ne hanno fatti, i tedeschi, ma come prendere roba da mangiare hanno portato via tutto!
D. Si sente dire che sono nati tanti bambini illegittimi, da questi tedeschi?
R. Qua no, non posso dire in altri posti.
Loro badavano al mangiare. Venivano dentro e portavano via tutto.
Quelli della posta - che le ho detto prima ­- venivano da Maniago a portare la posta ai suoi soldati e si fermavano a mangiare i frutti di questo corniolo. Poi proseguivano. Erano in due quelli della posta e venivano su a piedi.
SRT. Quando gli italiani sono tornati a liberarci, sono passati di qua un asino con sopra la mitragliatrice e con una ventina di tedeschi dietro; senza parlare e senza dire niente.
Io e mia mamma abbiamo visto questo asino con la mitragliatrice e i militari che vanno verso l'Austria. Ho detto a mia mamma: «Ma allora siamo liberati, andiamo a vedere a Maniago». Siamo scesi verso Maniago, e quando siamo stati là in mezzo alle gallerie, che c'è il ponte, è arrivato un italiano con la motocicletta e ci ha chiesto:
«I tedeschi sono andati?»
«Sì, sì sono andati.»
Era l'unico italiano, dopo non ne abbiamo trovati altri fino a Maniago.
A Maniago era come una festa anche se non c'era niente. Non c'erano bandiere, soldi non ce n'erano. Niente non c'era, patito la fame; allora era poca festa, non so se mi spiego.
TCO. Quando sono arrivati gli italiani, mia mamma è andata giù a Maniago.
Dappertutto è stata fame. Beh, forse Alla Bassa, laggiù, nei paesi più bassi dove avevano terra, producevano qualcosa nella loro terra. Ma invece qua no.
SRT. Qua era rimasto solo un po' di formaggio perché mio papà aveva 5-6 mucche. Avevamo una stazione di monta che abbiamo tenuto per 37 anni...
TCO. Non so se allora vi siano rimaste le mucche, perché da noi lassù a Poffabro, no.
SRT. Sì, infatti poi hanno fatto piazza pulita anche delle nostre.
TCO. Le galline le nascondevamo. A Poffabro noialtri andavamo su verso quella montagna là (sul Monte Raut) o meglio in località Ai Larcs, dove avevamo una stalla e un fienile. Là avevamo nascosto anche qualche forma di formaggio dentro al fieno.
Un giorno mentre io e mia mamma andavamo lassù a vedere, perché vi si andava tutti i giorni, abbiamo visto i tedeschi che scendevano con le forme di formaggio nel sacco!
SRT. Si nascondeva qualcosa da mangiare anche nei prati, si facevano delle cataste di fascine e dentro vi si nascondeva qualcosa da mangiare; con i topi o senza topi.
In quell'anno niente scuola...
D. Quando sono arrivati gli italiani, dicevate già allora "ci hanno liberato gli italiani" oppure lo dicevate dopo, finita la guerra?
R. No, lo dicevamo in quei giorni "ci hanno liberato gli italiani".
Ci siamo accorti che i tedeschi se ne sono andati, e gli italiani ci hanno liberato. Non c'erano più militari tedeschi.
Alla sera, alle quattro e mezza cinque, venivano sempre su due militari, venivano non per la strada, ma per un sentiero. Se c'era qualcosa da prendere lo prendevano e andavano avanti.
D. E gli sbandati italiani, nascosti, anche loro andavano in cerca di mangiare...
TCO. Sì, ma avevano la loro famiglia. Quelli che erano a Poffabro erano tutti del paese.
SRT. In casa nostra invece c'era uno napoletano e quando si vedevano questi tedeschi nei paraggi lo si avvertiva ... e se non poteva ormai uscire più per la porta, usciva dalla finestra e andava sulla stalla qua in alto, dove di solito si recava anche alla notte per dormire.
*
Era miseria. Oggi c'è abbondanza, diciamo, ma quella volta c'era miseria.
Nella nostra famiglia eravamo in dieci persone. Mia sorella Romana è andata in America, sposata con un Giacomelli ed è ancora là vicino a Filadelfia negli Stati Uniti. Poi avevo altre tre sorelle e un fratello maschio che era andato in guerra. [...]
TCO. In casa nostra invece eravamo sole io e mia mamma. Mio papà era in America e non è tornato per la guerra...

Nastro 1998/13 - Lato A

... perché in America la classe di mio papà (che era del 1881) non è stata chiamata. Invece quelli dell'80 sono dovuti andare.
Da Poffabro in tanti, all'inizio del secolo erano emigrati in America.
SRT. Mio papà era in Istria con mio nonno a fare il boscaiolo.
TCO. Mio papà era nelle "mine" del carbone. È tornato dopo la guerra con un po' di soldi e si è stabilito qua. Poi ha cercato di ritornare via, ma gli mancava una carta, allora è andato in Argentina, dove è rimasto cinque anni e dopo è ritornato a casa per sempre.
D. Poffabro, quanti abitanti ha?
­­– Eh, ce n'è pochi, adesso. Quattro gatti a Poffabro, sotto il comune di Frisanco. Qua erano tutti emigranti.
Mio papà è andato a Graz di 14 anni a pestar grava di stéli in stéli nella strada [a spaccar sassi per la strada, dalle stelle alle stelle, cioè tutto il giorno].
Partivano con un gruppo di paesani di Poffabro. [Andavano nelle cave di ghiaia, a rompere i sassi per stenderli nelle strade].
SRT. La nostra casa è stata fatta nel '700. L'hanno fatta i miei antenati che, dopo aver lavorato quello che serviva per vivere, si aiutavano l'un l'altro a costruire.
Interviene il figlio. Andavano nel torrente a prendere i sassi, poi preparavano la calce, poi andavano nel bosco a prendere la legna. C'era fratellanza. Tutte le case di questi borghi sono di sassi. Sassi e legno.
Mi mostra l'interno della casa.
Il focolare, che adesso usiamo solo per far le castagne. Il camino ha un buon tiraggio e una volta veniva regolarmente pulito dallo spazzacamino: appoggiava la scala all'imboccatura e poi vi si arrampicava fino in cima con "schiena e gambe", per poi ridiscendere, tutto nero. Non è che lo spazzacamino scendesse giù dall'alto, ma vi saliva dal basso.
SRT. Io sono ritornato dalla Germania ammalato, dopo la Seconda guerra. [...]
Mi mostra la ferita che ha sul petto, "ricordo" della Germania.
Tre anni e mezzo di pus. In prigionia, un tedesco mi ha colpito col calcio del fucile. Quando sono arrivato a casa sono andato dal medico e gli ho detto di incidermi, di tagliare. Ho stretto i denti...
In Germania facevano 18 cose con il materiale che noi scavavamo in miniera. L'ultima era la ghiaia, la prima il carbone.
Eravamo nei pressi di dove c'erano i forni crematori. Di mille soldati italiani prigionieri siamo rimasti in 90.
Quando ero in Grecia, avevo un amico che poi è diventato primario pediatra dell'ospedale di Vicenza, ed è ancora vivo. [...]
I tedeschi ci hanno preso in Grecia e ci hanno portato in Germania, anche questo medico, un colonnello. Gli ufficiali li hanno messi su un carro e noi ci hanno portato su una miniera. Io ho lavorato sempre in questa miniera.
Quando sono ritornato dalla Germania, un parente - uno zio - mi ha rintracciato il medico vicentino con cui ero insieme in Grecia. Siamo andati a Monte Berico, e per la strada ho dovuto fermarmi due tre volte, perché lo stomaco mi faceva male: avevo lo stomaco piccolo.[...]
Il mio stomaco è rovinato, e dopo la prigionia devo mangiare come le mucche. A volte, dopo essere stato nello stomaco, il mangiare mi ritorna in bocca e lo devo rimasticare. [...]