giovedì 7 ottobre 2010

Maria Saccon (Maria dea Barca), San Polo di Piave TV

Nata il 22 marzo 1907 e al momento dell'intervista abitante a Roncadelle presso l'ex traghetto/passo a barca sul Piave.

Nastro 1994/28 - Lato A                             18 agosto 1994

Abitavo a San Polo, verso la Caminada, e sono andata profuga a Fontanelle. Dapprima i tedeschi ci avevano portati a San Cassiano di Livenza (PN).
Mia mamma doveva comperare un figlio ed è partita prima; aveva paura perché ormai c'erano i tedeschi.
Noi siamo venuti a stare qua su un baracchino, perché mio marito – Gaiotto Ugo, classe 1903, detto Piccino perché era piccoletto – lavorava con il Genio Civile e gli hanno permesso di metter su questa baracca.
Sono già stati anche quelli della barca [i Belumat] ... mi hanno tirato giù [intervistato] tante di quelle volte!
Una volta si bruciava legna, non c'era il gas. Quando veniva giù il Piave si andava a trovar le legne pa a Piave, e a volte si faceva baruffa anche par 'na soca [una ceppaia].
[...]
Quando mio marito non aveva lavoro si lavorava di cesti e nel frattempo ci si era fatto un casonetto. Si avevano due figli e bisognava arrangiarsi.
A volte passava qualcuno e chiedeva: «Me fatu un piasser passarme oltra?» 
Con quella un po' alla volta è venuto il traghetto, perché prima non c'era, in questo posto. 
Non eravamo d'accordo né col comune né con nessuno, eravamo provvisori. Una volta non era come adesso che non si può più andar raccogliere neppure un bacchetto. Non c'era una tariffa, gli si diceva: «Dème, quel che voé ... sinque schèi, dièse schèi, vinti schei.»
Mio marito nel contempo andava sempre a lavorare sulle crode lungo gli argini del fiume, con il Genio Civile. Perché non era come adesso che vanno con le macchine e mettono là. Una volta portavano la roccia, la accatastavano bene, la misuravano. C'erano tante imprese, sul Montegàn [Monticano], su a Livenza, sul Sil, dappertutto.
Quando non c'era il marito e c'era poca acqua mi arrangiavo io.
La barca veniva mandata avanti con una stanga di legno di càssia [acacia], sotto alla quale si era messo un pìc [rivestimento in ferro] che pesava più di un chilo, in modo che quando si buttava la stanga sull'acqua andava in fondo facilmente e si poteva spingere sul fondo [se sé frontéa]
Dopo la guerra questi pìc li si faceva anche con i bossoli. A volte si perdeva anche la stanga sull'acqua e non la si trovava più.
Noi siamo venuti qua nel '34 e si è iniziato il traghetto in questo posto solo da quegli anni. 
Prima dell'altra guerra il traghetto era là in fondo, di là del vigneto, sotto il Comune di Cimadolmo in località Stabiuzzo. Era una zattera mandata avanti da una zia di mio povero marito, che era mezza orba. Là passavano anche con i carretti perché prima dell'altra guerra c'era sempre il Piave alto e «Venezia passava tutta per qua». Dopo l'altra guerra hanno iniziato a prelevare acqua per il canale della Vittoria e tutti i canali, per questo ora acqua sul Piave non ce n'è più. 
Noi siamo andati avanti finché hanno fatto il ponte di Cimadolmo. E con quello è finita, ci ha tolto tutto il lavoro.
Quando sono venuti grandi ci hanno aiutato anche i figli. Alcuni sono andati in Svizzera. Poi si lavorava di cesti, si andava a vénchi. Abbiamo fatto tanti di quei lavori! Non bastava certo il traghetto ... ci davano dièse franchi.
Mi sono sposata nel 1931 e ho avuto sette figli. Tre figlie sono andate in Svizzera.
Si aveva una baracca con due stanze e mio marito se in'ségnéa a far de tut [si ingegnava a far di tutto]. Avevamo una baracca ancora dell'altra guerra, ma fatta bene. Per ripararsi dal freddo mio marito ed io andavamo a canéoni. Una volta c'erano di quelle cannelle lunghe in mezzo al Piave, e abbiamo fatto una specie di s-ciorín come quello in cui si mettevano i cavalieri [i bachi da seta], con le cannelle fisse [fitte, ravvicinate]. Dopo le si appendeva al muro e mio marito faceva la malta e gliela applicava in modo che la baracca sembrava una casetta.
Questo è successo nel 1934, qualche anno dopo che mi ero sposata.
La baracca l'avevamo comperata dal proprietario del mulino di San Polo.
Andavamo a raccoglier vénchi [vimini] qua vicino [...] dentro al Piave. Li si tagliava ogni anno e li si scusséa [sbucciava, toglieva la scorza] con la giòa: venivano tutti belli bianchi. Tagliandolo, l'arbusto rigettava germogli utilizzabili di anno in anno. Erano chiamati vimini de farinati. Ma si lavorava anche con el talpon [pioppo] e con le rame de morèr [gelso]. 
Si facevano soprattutto ceste per le damigiane, che una volta erano tutte rivestite di vimini e legno.
Anche i rami del gelso dovevano essere di un anno. Ogni ramo veniva diviso in tre parti [aiutandosi] con un pezzetto di legno preparato allo scopo e che aveva tre sporgenze (questo attrezzo non ce l'ho più).
Lavoravamo anche el talpon in questa maniera e anche le càssie [acacie] mate.
Si lavorava soprattutto con le damigiane. 
Quando mi sono sposata si facevano anche di quei cestini rotondi (e un po' oblunghi) – 20x30 – che servivano per le spedizioni. Vi si mettevano dentro patate, téghe [baccelli di fagioli] e roba così. Avevano anche il manico; si aveva la misura ed erano più alti che larghi. Li portavamo qua a Cimadolmo.
Nelle famiglie un po' tutti lavoravano i vimini. [...] 
Quanto ho lavorato!
Sono andata a scuola fino alla terza, a San Polo. Sono nata a Fontanelle e poi sono andata a stare a San Polo. 
Durante la guerra siamo ritornati a Fontanelle, di là della chiesa e del Montegan...
Quando sono arrivati i tedeschi abitavo a San Polo. 
Da S. Polo i tedeschi ci hanno portato a San Cassiano di Livenza. Eravamo io, mia sorella Rosina (che ha un anno più di me) e una mia zia, Luigia Saccon. Eravamo solo noi tre a San Cassan, perché eravamo rimasti [ci eravamo attardati] a casa. Invece mia madre con gli altri figli: cinque, più uno che l'aveva dentro e che è nato durante la guerra; un altro figlio che fa nove è nato dopo la guerra...
Mia madre dunque si era già allontanata ed era andata a Rai da una famiglia di suoi parenti. Era "in condizion", doveva avere un figlio e aveva paura di questi bombardamenti. Ma a Rai non c'era posto per tutti, allora ha trovato un posto a Fontanelle mentre noi eravamo ancora a San Polo.
Poi tedeschi ci hanno portato a San Cassan con i cavalli e i carri. Della nostra famiglia eravamo noi tre soli, ma insieme a noi c'erano tanti altri. Ci hanno sistemato dentro a una scuola.
I primi ad arrivare a San Polo sono stati i germanici. Quando sono arrivati hanno trovato tutto il ben di dio. C'era vino, c'erano pannocchie, c'era di tutto sul solèr [solaio].
Hanno iniziato a lasciar correre fuori dalle botti il vino, ciocàrse [ubriacarsi], far e brigar. Per quello si sono fermati un anno qua. Perché se avessero proseguito di là de a Piave non c'era ancora niente di pronto per fermarli. Così si sono fermati e gli italiani hanno fatto in tempo a prepararsi.
A noi non hanno fatto del male.
Tante donne hanno avuto anche dei figli e li hanno tenuti.
Dove ero io, una cognata di una mia zia ha avuto un figlio [da un "tedesco"]. Se l'è tenuto e poi sono andati a stare in Francia. Gli ha messo nome Guerrino, figlio della guerra. [...] Malgrado ciò si è sposata.
Queste ragazze andavano a lavorare per i tedeschi e mia zia che era grande si portava a casa una ciopa de pan che era fatto di polenta gialla. Non so poi con i tedeschi, con tutta questa compagnia cosa succedesse.
I tedeschi ci davano 14 chili di farina di frumento ogni otto giorni, in 14 che si era.
Eravamo a Fontanelle, nella casa di una famiglia che lavorava la terra del conte Marcello.
Mia nonna e mio nonno hanno camminato una giornata in cerca del posto dove i tedeschi ci avevano portato. Cammina e domanda, e alla fine ci hanno trovato a San Cassan di Livenza, dove siamo rimasti poco, perché siamo ritornati a Fontanelle con la nostra famiglia.
C'erano anche di quelli che sono rimasti in paese [a San Polo].
Non sono mica scappati tutti. Quelli che sono rimasti qua hanno fatto man salva dappertutto, nel senso che andavano dentro nelle case e portavano via quello che c'era dentro. Perché quando siamo partiti abbiamo lasciato tutto, non abbiamo portato via niente. Siamo andati via con le mani in mano, con quel poco che eravamo vestiti. Perso tutto.
Mio padre si chiamava Saccon Luigi, e mia madre Angela Bernardi di Oderzo. Mio padre si era diviso dalla famiglia che era composta di 40 persone, con tre cugini, una famiglia grande. La divisione era stata fatta prima della guerra e quando sono venuti i tedeschi abitavamo già a San Polo, ed eravamo in quattordici.
Quando si metteva un po' di polenta a scaldare sulla graela, sul larin ... se si voltava la testa stava poco a sparire perché i tedeschi, o dentro per il balcone o dentro per non so dove, la facevano sparire. Avevano fame anche loro!
Sono scappati perché avevano fame, altrimenti sarebbe rimasti qua ancora. Sa che hanno mangiato tutto il cinquantino, e anche i botoi [tutoli]. Non c'era più niente, per quello sono scappati, altrimenti non andavano via.
Noi in qualche maniera si riusciva a mangiare perché mio nonno e mia nonna camminavano da una casa all'altra e portavano a casa qualcosa.
Ci è capitato di mangiare anche polenta di sorgo, quello rosso con cui si fanno i scoàt [scopini]. Era quasi immangiabile, e quando lo si era mangiato non si riusciva più ad andare di corpo, si poteva fare quello che si voleva; ma se non c'era altro bisognava mangiare anche quello, senza sale né niente.
È stato un anno tremendo per noi che eravamo rimasti di qua, ma non per quelli che sono rimasti in casa, perché quelli si sono nascosti la roba che trovavano. Noi a San Polo abbiamo avuto la casa buttata giù e molti di San Polo erano rimasti a casa. Tanti andavano e tornavano e così andavano a prendersi la roba per le case.
A San Polo la nostra casa era per terra e ci hanno dato una baracca.
Noi bambini da profughi si andava par i fòss, si andava a prendere rane e pesce. C'erano tutti questi fossi e c'erano le rane: le si vedeva quando erano drio riva che saltavano dentro e allora si andava a palpéta
I pesci erano tutti pessetti piccoli, da fosso.
A scuola sono andata fino in terza.
Mi ricordo che durante la ritirata dei tedeschi, a Fontanelle – siccome nel palazzo del conte Marcello c'era il comando – mia zia che aveva sui diciotto anni gli ha detto una parola in tedesco, zurück, e loro si sono talmente arrabbiati che se non stava presto a scappare l'avrebbero ammazzata (era come una presa in giro).
Mia zia Luigia era ricoverata all'ospedale ed aveva il tifo. Mia nonna era andata a trovarla e tornando indietro ha trovato i tedeschi che non la lasciavano più passare perché ormai c'erano gli italiani ... che erano passati di qua del Piave, che erano arrivati con i cavalli.
[Gli italiani] ci hanno trovato che stavamo grattando le pannocchie per far farina per la polenta; con un chiodo e una gratariola, si grattava.
Mi ricordo quando sono arrivati gli italiani.
Sono arrivati con i cavalli e ci hanno dato una ciòpa de pan ciascuno e noi siamo stati tutti contenti, perché non se ne aveva.
Mia nonna ha indicato agli italiani dove, là in fondo, c'erano i tedeschi che non l'avevano lasciata passare. Perché i tedeschi si erano messi sopra gli alberi per fermare gli italiani che avanzavano.
Paura tanta.
Quella volta dell'offensiva [giugno 1918] ... che si sentiva tutto questo bum bum bum e si vedeva tuto un fogo, stando a Fontanelle.
Quando siamo arrivati qua c'erano tutte buche di granate, morti, di tutto.
Da San Polo siamo venuti lungo il Piave. Si andava a prender su le coperte, i teli, la roba che ci serviva per casa perché non avevamo più niente. 
Granate ce n'erano un'infinità, cassette piene; di grandi e di piccole e di tutte le sorti.
Erano sopratutto i nostri vecchi che venivano a prendere roba sul Piave, dalle parti dell'osteria della Isetta a Cimadolmo, dopo Stabiuzzo. Là c'era la possibilità di andare in Piave. Trincee ce n'erano anche qua dove poi siamo venuti a stare.
*
Trincee sull'argine ne sono state fatte anche durante l'ultima guerra: i tedeschi si erano preparati. Quante legne e quanti travi e quanta roba che ci mettevano dentro là, nei camminamenti!
Durante l'ultima guerra noi eravamo in questo posto, sul Piave, e io avevo una paura...
I partigiani venivano tutta la notte a chiamare che andassi a passarli "oltra", ma mio marito non veniva fuori, gli gridava che andassero a chiamare gli uomini addetti. Poi c'era da passare i tedeschi che andavano a fare trincee di là, sull'argine destro, a Candelù. Ma mio marito andava a lavorare e non voleva passare nessuno.
E i partigiani ... mio marito aveva paura perché qua c'era il lavoro dei tedeschi.
È successo che un maresciallo di Oderzo è stato ammazzato qua più avanti dove finisce questo argine e c'è un frantoio di ghiaia.
Hanno preso questo maresciallo e l'hanno messo in macchina. Noi eravamo nella baracca e l'abbiamo visto passare due tre volte, bendato gli occhi, dentro alla macchina. Poi non contenti sono andati in osteria e gli hanno dato da bere e l'hanno ubriacato. Quando era verso notte sono tornati a passare e abbiamo sentito il colpo quando l'hanno ucciso. Dopo cosa hanno fatto? Hanno fatto un buco là e l'hanno messo sotto due crode, con i piedi fuori. [...] Noi eravamo pieni di paura che ci ammazzassero se vedevano questo morto, ma di tutta notte i partigiani se lo sono venuti a riprendere e l'hanno seppellito in mezzo a quella grava laggiù. L'hanno scoperto anche là, sono venuti a prenderlo e l'hanno seppellito a Oderzo.
*
Vengono sempre a trovarmi i ragazzi delle scuole, ogni anno, soprattutto il maestro Fausto Pozzobon.
*
[Durante l'occupazione tedesca] i miei vecchi andavano "a carità". Una volta sono venuti a casa con un poco di sorgo; per la strada i tedeschi li hanno trovati e volevano portargli via anche quello.
Se riuscivano a raccogliere un po' di biava, di tutta notte si recavano a Campomolino a macinarla in quel molino, sempre di nascosto, perché se li trovavano gliela prendevano.
Noi 14 eravamo riusciti a nascondere una vacca, o forse ce ne avevano lasciata una... perché ci avevano requisito tutto. Non i tedeschi, ma i poliziotti nostri: si erano messi la fascia sul braccio e ne hanno fatte anche loro sì, finché bastava. Andavano dentro per le case a requisire, portavano via le calière, portavano via tutto. Trovavano una branca di biava e la portavano via. Portavano via tutto anche loro, i poliziotti, ed erano della zona.
Nella casa di Fontanelle eravamo profughi insieme a una famiglia di Santa Lucia. C'era una stalletta là dietro e noi vi avevamo nascosto la vacca.
La famiglia di Fontanelle dove eravamo profughi si chiamava Chin. Non c'erano uomini: sia il capofamiglia che i suoi due figli erano in guerra. C'era solo la signora Luigia, proveniente da Treviso, che era anche zoppa e lavorava la campagna del conte Marcello.
Dapprima ci ha sistemato in due stanze e poi ci ha dato il solaio. Mia madre all'inizio dormiva nella stanza dabbasso, ma poi sono venuti gli ufficiali tedeschi e l'hanno costretta ad andare di sopra perché la stanza al pianoterra la volevano loro. Allora noi le abbiamo ceduto la nostra camera e siamo andati di sopra, nel solaio.
Anche la famiglia di Santa Lucia, famiglia Sanco – che poi ha tenuto a cresima anche una mia sorella – aveva una sua camera. Erano in sei e una delle figlie si chiamava Armida.
C'era il lampione a petrolio vicino alla porta d'ingresso della stanza di quelli da Santa Lucia, e una volta ha preso fuoco. Urlavano, e la casa era chiusa. Mia zia ha preso una brocca d'acqua e l'ha buttata sulle fiamme, e ha fatto peggio. Per fortuna comunque – alla fine – sono riusciti a spegnere le fiamme, altrimenti restavamo tutti bruciati perché non si poteva uscire dato che il fuoco era sulla porta.
I padroni Chin non è che ci trattassero male solo che, lei in particolare, la signora Luigia, era più furba di noi. Mia madre con questa vacca a volte riusciva a farsi un po' di formaggio. Lo metteva nella sua camera dabbasso e la signora Chin, di nascosto, andava a rubarglielo; di notte poi entrava in caneva e andava a prendersi del vino. Noi eravamo riusciti a portarci da casa un caretèl di vino per mia madre che era "in stato". Di notte lei andava dentro e se lo andava a prendere e poi usciva camminando con questo pentolino (quello del caffè) sopra la testa, sotegàndo, sotegàndo (zoppicando, zoppicando). «Eh, son 'ndata a ciòrme un poca de aqua in tel secièr», diceva se qualcuno la vedeva, invece andava a prendersi il vino in cantina, e alla fine ci siamo trovati col caretel vodo.
Mia madre era riuscita a portarsi via il vino perché era partita prima. Noi invece avevamo aspettato perché si sperava di restare.
Quando siamo partiti noi avevano già iniziato a sparare. Non si voleva andar via, ma alla fine siamo stati costretti ad allontanarci, con quello che si aveva.
Mia madre con il latte riusciva a farsi anche un pochino di burro e lo portava al comando.

Nastro 1994/28 - Lato B

Al comando faceva scambio con un po' di zucchero e la mamma ce ne dava un po' per ciascuno. Noi lo si tociàva con la polenta, polenta e zucchero: era il dolce, la carne e tutto.
Si andava a rubare zucche per i campi. Mia sorella aveva tre-quattro anni  – si chiama Rita e adesso è in America – una volta è andata a confessarsi e il prete le ha chiesto quale peccato avesse commesso. Lei ha risposto: «Son data robar na zuca» e il prete le ha detto che non era peccato, no.
E le radicèe, quelle che fanno il fiore giallo, i fratò-c (il tarassaco); ma anche altre erbe.
Mia zia Catìna (Saccon, sorella di mio padre), che aveva due gemelli, mangiava le radici delle erbe fratò-c perché non c'era niente da mangiare.
Anche lei era profuga dalle parti di Fontanelle, e in tanti si sono fermati da quelle parti.
A Fontanelle eravamo troppo vicini ai tedeschi; quello che si aveva lo portavano via tutto loro. Poareti, erano morti da fame anche loro. È per quello che hanno abbandonato l'Italia, che hanno perso la guerra!
Di San Cassiano di Livenza ricordo che eravamo tutti su uno stanzone, distesi per terra sulla paglia. Per quello i miei hanno voluto tornare indietro, riunire la famiglia.
Fra le erbe, buoni anche i bruscandoli e i s-ciopét.
Subito dopo la guerra ci siamo sistemati dentro una caneva bassa, sotto una casa. Tutti dentro là finché non ci hanno portato una baracca. La caneva era nel borgo in cui abitavamo prima, il borgo dei Cadorini che era vicino a quello dei Facchini, sopra la località Caminada di San Polo, per andar verso San Michele.
Subito dopo la guerra due ragazzi che andavano a scuola assieme ad alcune ragazze si sono messi a battere una granata poco distante da dove noi abitavamo. La granata è scoppiata e di quelli che battevano uno ha perso le dita, una ragazza si è presa in pieno petto il cul della granata che l'ha scaraventata nella siepe e là è rimasta morta; poverina era anche senza mamma. Un'altra ragazza ha avuto tutto il viso pestato ed è morta da poco [...] La ragazza uccisa dalla granata era una Sessolo.
Nella casa dove ora c'è mia figlia, a duecento metri dall'argine, là c'era una gran buca di granata e mio suocero ha buttato dentro tutte le bombe, granate e residuati vari che aveva trovato nella campagna. Poi le ha coperte e adesso sono ancora là sotto, ben profonde e non sono state ritrovate neppure con il "ferro" con cui andavano a cercarle. Sono là sotto e non scoppiano più, ormai.
Anche a San Polo, in campagna, quando siamo arrivati noi era pieno di munizioni.
Non abbiamo visto morti, ma ci siamo presi le coperte dei militari e le abbiamo utilizzate per farci dei vestiti, braghe, cotole, di tutto.
Quella guerra là è stata molto più dura dell'ultima. Parlo per noi che non abbiamo fatto in tempo ad andare di là del Piave. Quelli invece che sono andati di là se la sono passata meglio. Anche i miei suoceri sono andati di là e sono andati negli Abruzzi con tutte le famiglie che erano nella zona lungo il Piave, perché gli italiani avevano fatto un ponte proprio dove poi noi abbiamo messo il traghetto.
Gli italiani avevano buttato giù anche il campanile di San Polo, prima di partire.
Quelli che sono andati di là non hanno patito la fame.
Quelli di qua invece ... anche i tedeschi l'hanno patita. Perché la strassavano appena arrivati, la biava la davano ai cavalli, il vino lo lasciavano andare per le caneve perché erano ormai ciochi, ubriachi. Per quello si sono fermati qua, altrimenti sarebbero andati avanti, perché di là del Piave non c'era nessuno degli italiani.
Poi gli italiani hanno lasciato andar giù tutta l'acqua dei laghi, come quella volta che hanno annegato tutti i tedeschi. Dove noi un tempo avevamo il vigneto, avevano fatto il ponte e ci sono ancora - sotto le crode - i barconi. Ce ne sono tre quattro, di ferro. Uno lo hanno tirato su quelli di San Polo alcuni anni fa. Quanto hanno lavorato sotto acqua per tirarlo su, quei ragazzi!
Quando i tedeschi hanno fatto il ponte per andar di là, gli italiani hanno mollato l'acqua. Così si è rotto il ponte e tutti i tedeschi si sono annegati. Non è stata la pioggia: hanno lasciato andare l'acqua apposta.
*
Alluvione del 1966. Qella volta l'acqua si è alzata fino a sopra là, ha lambito la casa. Faceva paura; poi ha rotto a Saletto e allora l'acqua ha iniziato ad abbassarsi. È andata fuori di là. Noi siamo andati [con la barca] a portare da mangiare all'Ospedale di Motta; ce lo sono venuti a chiedere.
*
Una volta c'era uno qua a Cimadolmo che faceva barche, era un certo Bassetto; mi pare che abitasse in mezzo alle grave.
La barca è in abete, perché pesa meno. Dentro vi stavano dieci uomini e dieci biciclette.
È lunga 4 metri e larga crca 1,80 - 2 metri.
Era fatica ... e tante volte siamo andati prenderla a Ponte di Piave. Magari ce la slegavano, se la prendevano e andavano in giù, invece di chiamarci; ma l'abbiamo ritrovata sempre intatta.
Una volta qualcuno l'ha nascosta dietro un bàro (cespuglio).
L'osteria una volta non c'era; c'era solo la nostra baracca- abitazione; l'osteria l'ha messa mio figlio una decina d'anni fa.
Il tetto della baracca era con tegole, ho ancora la fotografia.
Dalla famiglia grande – quaranta persone – che si trovava tra Tempio e Fontanellette, sotto Fontanelle in Borgo Dalla Torre, siamo venuti via quando io avevo sette anni. Siamo andati a San Polo e me lo ricordo ancora.
Poi io sono stata a servire a Venezia da dei signori: era la moglie di un capitano della Marina. L' avevo conosciuto tramite uno di Cimadolmo che l'aveva avuto come suo capitano. Si chiamava Marcuzzo, al Lido, vicino a dove arrivavano i vaporetti.
*
Maria Saccon è la protagonista del libro della Alessandra Jesi Soligoni "Ines del traghetto".
La Soligoni veniva qua alla mattina "a prendere le arie" ancora prima di scrivere il libro. 
Qua alla mattina presto era sempre pieno. Una volta non andavano a Jesolo, il dottore li mandava qua. C'era sempre acqua e loro camminavano lungo l'acqua. Alle cinque erano qua, camminavano e poi andavano a casa.
C'era anche il "campo solare". Andavano a buttarsi giù in quel murazzo là. 
Là c'era anche una baracca dove facevano da mangiare per i ragazzi. Erano gli alunni delle scuole della zona: prendevano il sole come in spiaggia. C'era anche un areoplano che faceva il giro ogni giorno...
La Soligoni è di Ormelle e sua madre è morta da poco. Ora abita a Treviso e veniva a prendere le arie al mattino anche lei.
Pavan. Ormai lei è famosa. Quando mandava avanti il traghetto non avrebbe pensato che un giorno tutti l'avrebbero cercata...
Saccon. Quanta acqua ho preso! Se dovessi tener conto di tutta l'acqua che mi sono presa, a tutte le ore, non dovrei neppure più camminare.
Freddo o caldo. A volte c'era il ghiaccio. D'inverno ce n'era sempre, una volta; la stanga era sempre piena di ghiaccio.
A volte la barca era di là, e stivali non ce n'erano. Mi toccava andare dentro scalza e mi toccava poi massaggiarmi le gambe. Tanti mi dicevano òcio, te va dentro in tel'acqua, ocio che te ciapa qua, te ciapa là. Invece ringrazio il Signore ma sto bene.
E sempre scalza. D'inverno avevo gli zoccoli, ma sempre acqua era.
Nuotare non sapevo nuotare: se cascavo dentro mi sarei annegata. In questo posto davanti al traghetto c'erano sei metri di acqua normalmente e i ragazzi andavano sempre a nuotare, si tuffavano.
Una volta una guardiacaccia di nome Orso che era di là del Piave, ha chiamato mia figlia che andasse a prenderlo. Lei è andata, era quasi mezzogiorno. Ha poggiato la stanga su una croda ed è scivolata, cadendo dentro in acqua. La barca è scesa da sola lungo la corrente. Mio marito ed altri ragazzi vedendo la barca scender vuota si chiedevano coma mai, cosa era successo; oltretutto non c'era neppure la stanga su. Nel frattempo mia figlia andava su e giù nell'acqua perché era caduta proprio in un tòrcol, un mulinello. Per fortuna dopo tanto ha trovato sul fondo un rialzo di sabbia. È riuscita a poggiare i piedi e a uscire dall'acqua, spaventatissima: «momenti me negàa». Era mia figlia Gaiotto Luciana, la mia ultima figlia. Avrà avuto 18-19 anni.
Qua davanti alla casa – all'ex baracca – ci sono tante crode sotto; il Piave si è ristretto più di una decina di metri, sempre con queste crode. In questa maniera non c'è pericolo che la terra venga erosa e l'acqua "mangi la casa".
Mio marito sapeva nuotare.
Acacie, càssie mate. Sono buone «fin che e mena», cioè finché non finiscono di crescere, d'estate. Solo in quel periodo si riusciva a scussàrle, dopo non più. Il periodo buono è da maggio finché iniziano a chiudersi, cioè quando non "camminano più", non corre più la linfa. Lo si vede dalla cima della pianta, che "si chiude".
La fornace di Roncadelle, vicino al traghetto è di Bortotto Isaia. Ha funzionato fino a poco dopo l'alluvione. Ora pare che vi debbano fare una pizzeria, una gelateria.
La fornace funzionava con sassi del Piave, oppure con quelli del Cellina. Servivano per ottenere calsìna [calce], che una volta era molto utilizzata.
La baracca della guerra, dove abitavo prima, aveva due stanze. Poi un po' alla volta abbiamo allargato la baracca e anche la nuova casa.
Anche qua sul Piave ci sono le zanzare...

Aggiunte e precisazioni, 13 settembre 1994

Il pìc della pertica era fatto da un artigiano del posto, di Roncadelle.
Le tre figlie emigrate in Svizzera erano Elide, Maria Pia e Edda. Un'altra figlia, Luciana, era in Germania. In tutto ho cinque figlie. La più vecchia, Dilva, è rimasta invece in casa.
Giunchi: Vénchi farinati e vénchi di un'altra specie. Li raccoglievo a Cimadolmo. C'erano delle fabbrichette a Cimadolmo. Noi li portavamo da Barbaress. A Stabiuzzo ce n'erano tanti che li raccoglievano; a Stabiuzzo, più che a Cimadolmo.
Quella volta che a Cimadolmo dovevano aprire la fabbrica di vetro. Non l'hanno voluta perché in paese temevano che si perdesse il lavoro dei cesti a causa di questa fabbrica. Così l'hanno fatta a Ormelle e a Cimadolmo sono rimasti con un pugno di mosche, visto che comunque i cesti poi non li hanno fatti più. Non c'era più futuro per loro, c'era la plastica.
[...] Noi siamo in dieci fratelli, una è nata da profuga a Fontanelle nel '18, si chiama Celestina [...] Dei dieci fratelli, ancora otto sono vivi, la più vecchia è del '6 (Rosina) e il più giovane è del '20. Dieci figli in quattordici anni. Una volta era così.
Io ne ho avuti sette: cinque femmine e due maschi.
Da profuga: rane e pesci nei fossi. Mia madre li arrostiva magari con un po' di burro. 
Quando di pesci se ne prendeva pochi, mia madre li metteva dentro a delle scatole vuote di conserva che i tedeschi buttavano via. Li metteva dentro finché le riempiva, coprendoli col sale. Così si conservavano finché ce n'erano a sufficienza per mangiare. Barattoli di latta avanzati dai tedeschi. 
Il problema però era il sale: ce n'era sempre poco. Bisognava andare dai tedeschi al comando e in cambio di un po' di burro ci davano il sale e lo zucchero.
Noi profughi eravamo sprovvisti di tutto. Chi era rimasto a casa sua qualcosa era invece riuscito a nascondere. A noi tutto quello che avevamo lasciato a casa ce l'hanno portato via o ce l'hanno mangiato i cavalli germanici.
Mia zia Luigia e mia sorella Rosina alla fine della guerra si sono prese il tifo e sono state portate in un ospedale militare dalle parti di Oderzo.
Lo zucchero, per tociarlo con la polenta, lo stendevamo su un piatto.
Dopo la guerra sono andata a servire dalla signora Marcuzzo al Lido, che era sola e aveva due figli: uno era capitano di marina e faceva la spola coi piroscafi da Venezia a Trieste. La loro casa era proprio in vista della laguna, si vedeva San Marco.
[...]
Maria racconta il suo modo di «far l'amor»: i fidanzati seduti sotto il portico, dove c'era un'immagine della madonna ... e quando un vecchio accendeva il lume voleva dire che era ora di smettere e di andare a casa. 
Seduti, davanti a tutti...
Una volta «c'era più allegria», rispetto ad ora. C'era più unione, invece adesso tutti hanno la macchina e tutti sono per conto suo. Una volta biciclette non ne avevano, macchine non ne avevano, gli toccava andare a piedi e allora si univano.
Ora sul Piave non c'è più acqua. Ce n'è d'ora in avanti [in autunno], quando non ne serve, ma d'estate la prendono tutta per le campagne.

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