domenica 10 ottobre 2010

Annunzio Putto, Segusino TV

Nato il 24 marzo 1902

Nastro 1994/11 - Lato B                         24 agosto 1994

[Dopo Caporetto] per un po' di tempo siamo rimasti qua e dopo ci hanno dato lo sgombero. Metà degli abitanti li hanno mandati dalle parti di Vittorio Veneto e Fregona, metà siamo andati su per Feltre. Io sono andato a Feltre.
Siamo partiti a piedi, di notte, quando avevano già iniziato ad arrivare le granate degli italiani.
Con i riflettori gli italiani guardavano la strada verso Vas dove noi camminavamo. Hanno visto che si trattava di borghesi e non hanno più sparato. Erano qua sul Monfenera.
Siamo partiti di sera tardi.
Il prete invece è andato dall'altra parte, verso Vittorio Veneto.
Mezzi da una parte e mezzi dall'altra, ogni gruppo ha girato per conto suo.
A Feltre sono stato fino a febbraio e poi sono andato su a Santa Giustina.
A Feltre abbiamo trovato un palazzo lasciato vuoto dai padroni, siori che erano scappati. Siamo andati su in soffitta di questo palazzo e abbiamo bruciato libri tutta la notte perché era freddo. Era il tredici dicembre e c'era un po' di neve per terra. Non so che libri fossero, erano libri, romanzi. Il palazzo era di certi signori Sasso, ma non ne sono del tutto sicuro, so solo che erano scappati.
Eravamo in 19 in questo palazzo, noi e altre tre famiglie. 
Noi eravamo la mamma (Flora Zanella), il papà (Pietro) e tre figli: Luigi (1905), io (1902) e Giovanna (1896). In totale cinque persone. Ora di questa famiglia sono rimasto io solo. [...] 
C'erano inoltre la famiglia di Tomaso Doro e i fratelli Antonio e Angelo Furlan, nostri vicinanti.
A Feltre ce la siamo passata male. La prima notte abbiamo bruciato i libri in soffitta. Abbiamo potuto far fuoco perché il pavimento era di "terrazzo", non di tavole.
Era una bella casa, piena di soldati ungheresi che poi sono andati loro di sopra e noi ci hanno messo al piano terra, in una cucina dove si faceva fuoco per tutti 19 e si dormiva per terra.
Per mangiare si andava in cerca di farina, a Feltre ma soprattutto fuori per i paesi. Siamo andati fino a Fonzaso. Erano soprattutto mio papà e mia mamma che andavano "par carità". Qualche volta andavo anch'io – che allora avevo quindici anni – specie nel primo periodo quando eravamo a Feltre. Poi quando sono andato a Santa Giustina ho lavorato, ho trovato un padrone e facevo il calzolaio.
In città a Feltre erano rimasti quasi tutti gli abitanti. Erano scappati i siori perché erano stati più furbi di noi. Era pieno di tedeschi e i negozi erano pieni di cavalli. Nei negozi non c'era più niente: portato via tutto e dentro vi avevano messo i cavalli.
Gli ungheresi che erano sulla nostra casa facevano i forneri, bekerèi gli si diceva noi ... e si prendeva qualche pagnottella. Avevano dei forni mobili, su macchine e camion.
Ma ormai si iniziava a non trovare quasi più niente, allora siamo scappati e siamo andati su a Santa Giustina che è un paese più agricolo e si riusciva a trovare qualcosa in più da mangiare.
A Santa Giustina siamo stati in casa di ... non ricordo il nome. Nella casa abitava una signora che aveva una bambina di un anno e mezzo-due e che aveva il marito militare.
In quella casa eravamo la nostra famiglia e quella di Doro: una decina di persone.
Io ho trovato lavoro da scarper [calzolaio] e così avevo da mangiare a mezzogiorno, ma fame ne avevo sempre tanta lo stesso.
C'era una signora che abitava là vicino e che in casa aveva un comando tedesco. Ogni tanto mi chiamava e mi dava un piatto di pastasciutta perché sapeva che ero profugo. Non mi ricordo più come si chiamasse, so che aveva una cucina di militari nella sua casa.
El scarper invece più di tanto non mi poteva dare da mangiare perché aveva una famiglia con sette figli da mantenere. Era un uomo sulla mezza età e si chiamava Adriano. Sapeva il tedesco come il padreterno perché era stato in Svizzera tanti anni. 
A Santa Giustina c'erano questi fornai e noi avevamo lavoro. Si preparavano le scarpe, le si rivoltava e in cambio si prendevano tante pagnotte di pane. Il padrone aveva il contratto di lavoro in cambio di pane. Fin che c'erano loro il calzolaio stava bene. Dopo io l'ho lasciato e sono andato da un altro scarpèr, perché da Adriano non c'erano più i forneri: erano andati via e lui non mi voleva più dare da mangiare.
Per fortuna in paese c'era un altro calzolaio. [...]
I fornai avevano da mangiare di più perchè dall'Ungheria veniva il grano bianco; bella farina e bel pane bianco.
L'altro calzolaio di Santa Giustina come paga mi dava da mangiare, e io sono andato da lui. Si chiamava B. e aveva la bottega vicino alla stazione. Era vedovo, con un figlio un po' deformato perché l'aveva avuto con sua figlia. La figlia nel frattempo era morta. Tutti morti, morta la moglie e anche la figlia. Quel calzolaio mi ha trattato abbastanza bene e mi dava da mangiare.
La fame l'ho patita soprattutto a Feltre, perché i feltrini stessi dentro in città non avevano niente.
Andavano fuori "par carità" mio papà e mamma, su per Fara, Foén, fino a Fonzaso e qualcosa portavano a casa.
Pochi soldi avevamo portati via da casa. So che a S. Giustina c'era un'altra famiglia che stava abbastanza bene e ci ha prestato dei soldi, quelli italiani, con i quali si riusciva ancora a trovare qualche chilo di farina dal mugnaio. Nei soldi tedeschi invece non c'era nessuna fiducia. In questa famiglia di Santa Giustina avevano anche dei marenghi dalla Svizzera e con i soldi italiani e con i marenghi si comprava un poca di biava che si macinava nei mulini che ancora funzionavano. In particolare noi andavamo dal mulino di un certo Dal Pont che mi sembra funzionasse con l'acqua del Cordevole.
Poi mio padre e mia sorella sono andati a lavorare con i tedeschi e gli hanno fatto fare non so che lavori. So che mentre io andavo a fare il calzolaio loro andavano dai tedeschi che a mezzogiorno gli davano la minestra e poi gli pagavano anche qualche corona. Lavoravano soprattutto sulla strada.
Per le donne e le ragazze il pericolo è stato quando si era ancora a Segusino, quando sono arrivati i tedeschi. Siamo rimasti in paese quasi un mese, poi siamo andati su a Miliès. Tanti sono scappati sui casolari in montagna. 
Quando c'erano le famiglie isolate così, là aggredivano le donne. Ne hanno violentate tre [...] che non hanno avuto figli come conseguenza. Erano i germanici soprattutto, poi sono rimasti gli austriaci.
I germanici erano terribili, più cattivi, facevano spavento. Erano loro fatti così. Invece gli austriaci erano come nostrani, più boni, e poi gli austriaci sono un po' anche cattolici e avevano si vede un po' più di misericordia nei confronti della popolazione.
Per il mangiare i tedeschi erano padroni loro. Hanno pestato tutto, hanno portato via le vacche e i vitelli.
Su questa casa che c'è qua in paese vicino all'osteria, lungo la strada c'erano dentro gli austriaci. Arrivano i germanici: fuori gli austriaci ed entrano loro.
A Miliès ci hanno trovato subito perché i tedeschi arrivavano tutti da quella parte, dalle montagne. Da Valdobbiadene facevano il passo di Marièch e venivano giù per la valle, di Miliès. Passavano di là perché altrimenti gli italiani che erano sul Monfenera li avrebbero visti. Lassù a Marièch non c'erano cannoni, i cannoni li hanno portati lungo le rive quaggiù.
Siamo rimasti a Miliès per un mese, poi sono stati i tedeschi ad ordinarci di partire.
A Miliès le bombe non arrivavano, a Segusino sì.
Quelli che erano rimasti a Segusino sono partiti quindici giorni prima e sono andati per Vittorio Veneto e Fregona con il parroco Don Antonio Riva. 
Con il parroco sono partiti metà dei paesani. Si sono avviati verso Valdobbiadene, anche loro sotto il tiro ... ma si vede che poi hanno visto che erano borghesi e non hanno più sparato. Il sindaco comunque è stato ferito durante il percorso, dalle parti di San Vito. Beniamino Verri, si chiamava. È stato ferito ad un piede, ma è riuscito comunque a proseguire. Il sindaco non era scappato.
Tanti erano scappati, quelli un po' più intelligenti.
A casa mia sono stato io a non voler scappare. È stata colpa mia, proprio mia. Mi sembrava impossibile che la guerra dovesse fermarsi qua. Mia mamma e mia sorella invece dicevano «'ndón via» e avevano la carrettina pronta. Si sarebbe caricata un po' di roba e si sarebbe andati di là del Piave. Bastava passare il ponte di Fener e si sarebbe stati a posto.
Neanche il parroco è scappato. Voleva stare con la gente.
Io speravo che fosse un passaggio, che andassero avanti e invece si sono fermati proprio qua.
Tanti sono morti, da fame più che sia. Chi non era messo troppo bene col fisico ci è rimasto, a Fregona soprattutto.
Invece noi e la famiglia Doro ce la siamo cavata tutti dieci.
[Finita la guerra], appena scappati i tedeschi noi siamo ritornati, siamo venuti giù di corsa. Li avevamo visti partire, con gli italiani che gli correvano dietro. Mi ricordo che sono arrivati gli italiani e noi eravamo matti dalla contentezza. Mi vengono ancora i brividi e mi commuovo a pensarci...
Abbiamo trovato un camion che veniva giù di qua a far rifornimento, perché i ponti erano tutti saltati e ci hanno preso su. Era un "15 Terzi" e ci hanno portato fino a Segusino.
Qua abbiamo trovato tutto un quarantotto. Per fare fuoco e riscaldarsi avevano levato i suoli e le travi delle case. I muri comunque erano in piedi, la nostra casa aveva preso una granata su un fianco ma era rimasta su; tante invece erano state abbattute.
Il comune di Quero ha avuto le conseguenze peggiori. Le trincee tedesche erano sulla collina che domina il paese, il "Pianà", e da là sparavano sul Monfenera.
Ritornati a Segusino ci siamo arrangiati in qualche modo nella nostra casa; abbiamo trovato una stanza che aveva ancora il suolo e là ci siamo messi.
[Quando sono arrivati, nel 1917], i tedeschi hanno adoperato le botti per fare le passerelle sul Piave. Mollavano il vino e portavano le botti laggiù, al termine della strada che dal paese porta al Piave.
A noi non hanno dato la baracca, siamo rimasti sempre a casa nostra. Tanti invece hanno avuto la baracca.
La casa era di nostra proprietà e dopo ci hanno dato dei soldi, è venuta la perizia.
Appena arrivati, gli italiani non ci hanno dato niente; dopo sì che sono venuti con i viveri.
Gli italiani sono arrivati subito dopo che i tedeschi erano andati via. Gli erano sempre adosso, ai tedeschi. Infatti un italiano, poveretto, è stato ammazzato proprio sull'ultimo giorno, dopo tre anni di guerra, e proprio là a Santa Giustina. Era un soldato anziano, avrà avuto sui 35 anni. Era un ciclista ed è stato colpito allo stomaco, lungo la strada. Io non l'ho visto ma sentivo che dicevano che era successo: gli austriaci si ritiravano facendo resistenza.
Sono cose che non dimenticherò mai e mi commuovo a ricordarle.
I giovani non sanno queste cose e, se le racconto, a loro sembra impossibile che siano successe.
Di tutto Segusino, secondo me, ben 5-600 non sono tornati, per malattie fame o altro: tanti! ... più che sia i vecchiotti. Si può dire che siano morti più civili nel solo ultimo anno che militari durante tutta la guerra.
All'epoca Segusino aveva tremila abitanti, adesso invece siamo duemila.
Nella mia vita io ho sempre continuato a fare il mestiere di calzolaio, in paese. Mi sono sposato vecchio, avevo quasi cinquant'anni e ho avuto una figlia quando avevo 52 anni.
Oramai sono rimasto il più vecchio del paese, come uomo; di donne invece ce ne sono ancora cinque di più vecchie.
Io non ci arrivo no ai cento...

Nastro 1994/35 - lato B

Aggiunte e precisazioni (16 settembre 1994)
Mia mamma era casalinga e mio papà ha fatto il carabiniere per una trentina d'anni e poi, ritornato a casa, ha comperato un po' di terra e ha fatto la guardia campestre.
[...]
Da Segusino, quando siamo partiti per Miliès, la strada è: Riva Grassa e Stramare. Da là venivano anche i tedeschi. C'era la strada, ma non asfaltata come adesso.
Per andare a Feltre siamo ritornati in paese e abbiamo preso la strada per Vas. Abbiamo passato il ponte sul Piave e siamo andati a Feltre. 

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