giovedì 20 maggio 2010

Ermenegilda Cesco, Bigolino (TV)

Nata nel 1899

Nastro 1994/32 - Lato B                    24 agosto 1994

È successo che siamo scappati su per Saccol in mezzo alle rive e si dormiva sui fienili, ma le granate ormai cominciavano ad arrivare anche là e allora da là ci hanno mandato via, ci hanno mandato a Cison.
Sono stati i tedeschi a farci andar via, ormai le granate arrivavano di qua [del Piave]. Noi non si andava via prima perché avevamo sempre il pensiero che passassero il Piave, che non si fermassero là [...] perché quella volta erano preparati sul Po a fermarli, ma non sul Piave. [...]
Mi ricordo che i tedeschi a Saccol ci dicevano morgen alles kaputt, moriamo tutti, infatti non sono più tornati indietro. Dopo un mese che si era a Saccol ormai le granate arrivavano continuamente ed eravamo preparati a partire. 
Intanto è arrivata una granata proprio sulla porta in cui abitavamo. Si era in trenta in una cantina nascosti, e mi ricordo che un tedesco è morto e mio nonno (si chiamava Francesco Vettorello) poveretto, che aveva ottant'anni, aveva preso una scheggia sulla pancia.
C'era là anche un mio fratello che aveva una gamba scavezzata, se l'era rotta andando giù per le rive con il mussét [slitta] di legno, e lui l'avevano messo sopra una botte sdraiato e una donna che era una che si ingegnava, con stecche e fasce di militari gli aveva steccato la gamba. Poi lo abbiamo portato con noi a Cison, dove siamo stati un mese.
Sono la più vecchia del paese, sono del 1899, sono la sola di tutta la mia classe, sia di uomini che di donne. Sono sposata con Pietro Prosdocimo, 4 figli di cui una bambina morta a tre mesi.
Il parroco di Bigolino dell'epoca era scappato nella "piccola casa" di Torino e poi è tornato. Il monsignore è andato là con un poche di suore, e prima di partire ci ha chiesto chi voleva andare con lui. Dopo, al ritorno se la sono presa col monsignor ... ma che lui ci aveva avvisati e noi non eravamo contenti di partire!  Si chiamava mons. Guadagnini e la piazza è intitolata a lui.
I tedeschi ci hanno mandati via loro. Sono stati galantuomini, altrimenti ci saremmo fatti ammazzare tutti quanti qua in paese; eravamo rimasti tutti quanti qua.
Mi ricordo che mia nonna aveva ... insomma non ha voluto venir via con noi a Saccol. È rimasta qua e poi se l'è portata via una donna che aveva il marito in guerra e aveva sette figli. Mio papà, da Cison, è andato in cerca fin che è riuscito a trovarla; l'abbiamo presa e ce la siamo portata con noi a Spilimbergo.
Non mi stia parlare del mangiare, da profuga: tutte le porcherie... Eravamo vicini a un macello, e là ci davano fuori le tèche [i rimasugli]. Ma una ragazza di 18 anni ... [mangiava di tutto].
Si andava "a vincere" si diceva, perché chi aveva soldi italiani trovava qualcosa di grano [da comprare], e quando si macinava il granoturco si lasciava la semola [crusca] dentro e si faceva la polenta così. Andare "a vincere" voleva dire andare a carità, elemosinare. Tutta la famiglia andava a carità, eravamo in sette, quattro fratelli, genitori e nonna. Non c'era altro modo di sopravvivere.
Dei furlani, i signori erano tutti scappati e allora si andava tutti a requisire per questi palazzi.
Mi ricordo che l'anno che sono rimasta là a Spilimbergo sono sempre stata vestita con quello che avevo addosso, non ho mai avuto né lenzuola né coperte. Sdraiata su una branca di paglia, piena di pidocchi e dopo mi son presa anche la rogna.
Di queste cose che mi sono rimaste impresse da giovane, mi ricordo ... e addesso non mi ricordo più da qua a là.
Mi ricordo ancora della guerra del 1911, di Tripoli. Allora ero giovane e qua a Bigolino c'era l'accampamento dei soldati. Si faceva la musica ogni sera qua in piazza ed era come sagra, la guerra di Tripoli. Si pensi quanto vecchia sono!
Dapprima siamo stati a Saccol, da Saccol a Cison e poi a Spilimbergo.
Fino a Saccol siamo stati con i nostri mezzi, a piedi o con il carro e le vacche chi le aveva. A Cison ci hanno invece invece portati con un carro.
A Bigolino la nostra famiglia aveva un po' di terra, ma non si avevano le vacche; mio padre faceva lo stradino.
A Saccol abbiamo dormito su un fienile di una mia zia, Giovanna Agostinetto, dentro le rive di Cartizze. Siamo rimasti là circa venti giorni. Avevamo portato via delle galline da casa e le si metteva sotto un caretèl [una botticella] dove facevano il verderame. I tedeschi avevano i cavalli che si sono impauriti dal rumore delle galline e sono scappati ... hanno alzato il caretèl e le galline via per le rive; più trovate, dopo. Allora i tedeschi hanno iniziato ad ammazzare vacche e a noi ci davano le teste, roba così.
Io non posso dire niente, per la verità, dei tedeschi. Non ho avuto nessuna malagrazia, non ho subito tentativi di violenza, perché bisogna anche essere un po' col cervello apposto e non lasciarsi ... ha capito? A me non è successo niente e non posso dir male neppure dei todeschi.
Mio padre aveva con sé un po' di soldi italiani e si andava a biada con questi soldi. Così si trovava, altrimenti senza soldi italiani non si trovava niente.
Quando siamo tornati a casa abbiamo trovato tutto per aria. Mio papà era venuto a casa prima di noi e aveva preparato una stanza al coperto; poi siamo venuti a casa anche noi. In seguito el ministerìn [Ministero delle Terre Liberate] ci ha fatto su le case. Niente baracche. Noi siamo stati sotto il portico, a casa nostra, ma qua in piazza c'erano tutte baracche, noi no, baracche non ce n'erano per tutti ... e noi alla buona di Dio siamo sempre stati riparati, finché el ministerìn non ci ha rifatto la casa.
Non posso dir male neppure dei tedeschi, perché non ho mai avuto alcuna malagrazia, perché sono sempre stata di quelle coraggiose e forti.
A Spilimbergo c'erano i prigionieri italiani che lavoravano chi nel macello, chi nel forno. Siamo andate a servire dai tedeschi nei forni mobili, e ci davano una ciopa de pan [pagnotta]. Una volta io e mia sorella ne abbiamo rubato; si aveva fatto una tasca grande sotto le cotole [gonne]; si aveva rubato due panetti e le guardie di ronda, non ci hanno incontrato? Abbiamo preso uno spavento! Siamo riuscite a scappare dentro in casa e chiudere la porta con il catenaccio e loro avevano piantato la baionetta su per la porta. Mi ricordo quella paura là; non ci siamo più fidate no, dopo, a rubare...
Ma con la fame si fa qualunque atto. Eppure era un pane "nero, nero, nero" ... ma a noi sarebbe bastato che fosse anche di semola [crusca], di tutto. Anche di granoturco facevano il pane, e quello era acido, ma insomma ci bastava mettere dentro qualcosa.
Non ho mai visto né caffè, né zucchero, né olio, né aceto, né sale. La sal [il sale] l'abbiamo trovata in una carta [?] dove c'era il deposito delle botteghe di allora. Trippe invece ne abbiamo mangiato una pasciuta, perché eravamo vicini al macello e là ce le buttavano fuori.
E poi erbe. Il condimento era il grasso che si levava dalle trippe, lo si cucinava e dopo lo si colava in una coppetta, si facevano tutte queste coppette di séo [sego], così lo si chiamava, e con quello si condivano le erbe e i radicchi; si stava con questo catino vicino al focolare. 
In qualche maniera ce la siamo cavata.
Ma a Spilimbergo ne sono morti tanti da fame e anche da malattie. Non spagnola, tifo. Io ho avuto il fratello col tifo nero ... ma che dottore, mio padre alla notte andava a scavalcare i serragli dove c'erano le vacche per poter mungerle, per dare da bere un po' di latte a questo figlio. Una sera i tedeschi lo hanno preso, e lui si è fato capire perché era stato in Germania, quando era giovane, ... che aveva il figlio ammalato e lo hanno lasciato libero. Altrimenti non so dove lo avrebbero portato.
Questo ce l'ho ancora presente ... e adesso non mi ricordo più né dove metto né niente.
Ho avuto un marito con cui siamo andati d'accordo, ho allevato tre figli, e sono qua tutti sani.
Sono sempre stata coraggiosa e tutti hanno un buon ricordo di me.

Nastro 1994-34                    Lato B

Aggiunte e precisazioni, 16 settembre 1994

Io e mia sorella avevamo nascosto delle pagnotte fra le gonne - in una specie di sacchetto, una tasca grande in mezzo alle gambe - e i tedeschi se ne sono accorti. L'abbiamo fatta franca due tre volte, finché un'ultima volta se ne sono accorti. Non hanno fatto in tempo a prenderci perché noi siamo riuscite a raggiungere la nostra casa e a chiudere la porta con la chiave. E loro a conficcare la baionetta sulla porta. Abbiamo preso una paura ... che da quella volta non l'abbiamo più fatto.

La signora Cesco mi mostra una foto con un gruppo di profughi, che riproduco. [Verrà pubblicata a p. 22 de L'ultimo anno della grande guerra].
La foto è stata scattata davanti alla porta della loro casa a Spilimbergo. Era una foto piccolina e i topi l'avevano anche rosicchiata. L'hanno scattata "i todeschi".
I tre ragazzi sulla destra in primo piano sono dei fratelli, figli dello zio Vettorello Giovanni; si chiamano: Fiorello, Nella e Giordano (quello con il berretto in mano è Fiorello). 
La prima ragazza a sinistra è sua sorella Maria. Ermenegilda è la ragazza con lo scialle bianco sulla destra... 
La foto è stata restaurata e riprodotta da Teresa, una fotografa abitante in località Ron di Valdobbiadene.

Ricordo che avevo gli zoccoli, e un paio di scarpe a cui era stato fatto il tacco "all'americana" da un prigioniero italiano.
I prigionieri erano tutti messi meglio di noi, perché uno faceva il fornaio, un altro il macellaio ... erano tutti a lavorare, così mangiavano, avevano il loro rancio. [Una volta, mentre] passavano (avevano la caserma là vicino) è venuto fuori uno dalla riga e mi ha detto: «Signorina mi faccia un piacere, mi lavi questa giacca.» E io a rispondergli: «Non abbiamo sapone, non abbiamo niente.» «La prenda», insisteva. «Che non ho niente, con cosa posso lavare», gli ho risposto. E lui: «La prenda, le dico, la prenda». Me l'ha come rifilata, imposta. L'ho presa in mano, e ho sentito che pesava, e quando sono andata dentro casa con la giacca, [ho visto che dentro la giacca] c'era una lingua di vacca lunga così, perché lui era macellaio. Per non farsi notare, perché c'erano le sentinelle una davanti e una dietro, aveva fatto finta di darci questa roba da lavare e da aggiustare. E da quella volta sì che ci sono stata attenta, anche se non avevo sapone...
Erano tutti della Bassa Italia, i prigionieri. A volte arrivava loro anche qualche pacchetto, con del formaggio grana che aveva un piccante che facevamo fatica a mangiarlo anche noi. 
C'era uno di loro che ci diceva sempre che avrebbero avuto piacere di mangiare il pesce, ma per mangiare il pesce bisogna [...] «la pastasciutta deve ballar sul piatto come un'anguilla». Noi si rideva, perché intendeva dire che la pastasciutta deve essere ancora mezza cruda per essere buona. Noi si rideva, perché se l'avessimo avuta, la pasta l'avremmo mangiata anche cruda; comunque a me piace cotta, anche adesso.
Eravamo sempre là di piantone sulla strada, quando passavano i prigionieri, e qualche volta, non sempre, loro ci facevano avere qualcosa.
A Spilimbergo c'era una via grande, via Valbruna, e poi c'erano tutte viuzze da una parte e l'altra della strada. Tutti si stava là ad aspettare su questa strada principale i prigionieri che passavano a mezzogiorno o alla sera, che andavano a lavorare e poi ritornavano alla caserma dove dormivano e avevano i materassi.
I prigionieri italiani stavano meglio di noi profughi e anche dei soldati austriaci, che andavano sul Tagliamento a tagliare le ortiche alte così e non so cosa ne facessero delle ortiche. Poi ritornavano su con questi fasci di ortiche e si sentiva dire che facevano della stoffa, io non so...
Ma i bosgnacchi e gli austriaci pativano la fame, perché andavano dove c'erano le buche del secchiaio e venivano buttati via gli avanzi della cucina; andavano a prender su le scorze delle patate. Hanno patito anche loro, come noi.
I prigionieri italiani erano tutti occupati [avevano tutti un lavoro]. Questo prigioniero, in particolare, era da Potenza in Basilicata. Io avevo un paio di scarpe di quelle di una volta con il tacco basso e lui ha voluto farmi i tacchi "all'americana", che non sembravano neppure più le scarpe di prima; si chiamava Vincenzo Parisi e faceva il calzolaio. Quello del formaggio piccante invece era un altro. Mi ricordo di Parisi perché mi faceva la corte; quello della lingua invece si è trovato una "socia" che stava bene, che ci stava. Ha trovato una vedova, mi ricordo, e allora ci ha abbandonato noi. Noi aspettavamo lungo la strada e lei invece lo accettava dentro in casa.
A Spilimbergo si era quasi vicino al Tagliamento; eravamo più o meno come qua dove abito rispetto al Piave. Davanti a noi c'era una chiesetta.
I soldati del forno mobile. Ce n'erano di ungheresi, di austriaci, di bosgnacchi [bosniaci]; ce n'erano di tutte le nazionalità, non saprei dire. A noi ci davano una ciòpa de pan [pagnotta], come pagamento, ma pane che ti grattava a mandarlo giù, nero, nero, nero. A volte lo facevano con la farina gialla da polenta ed era come acido; era buono cotto, abbrustolito.

Al centro della foto del forno mobile [vedi sopra] si nota [...] Amelia Speronello da Bigolino. La maggior parte delle altre persone erano da Valdobbiadene. Ermenegilda Cesco conserva la foto originale, come data dai tedeschi. Aveva anche un'altra foto, piccolissima, in cui si vedeva sua madre che saliva lo scalino della porta d'ingresso, ma la foto è stata rosicchiata dai topi [in quella casa, a Spilimbergo]. [...] 
Commentando un'altra foto, ripresa a Bigolino
«Il cugino di mia madre non andava a letto se non sapeva che mio padre era arrivato a casa. Erano amici per la pelle e li chiamavano i Tre Re Magi.»
Quello in mezzo con la pipa era suo padre: Eugenio Cesco. A sx guardando la foto: Giocondo Vettorello e a dx Sebastiano Codello. Il bambino con le mani in tasca è Eugenio Buffon del 1921 [...] il carro era pieno di trifoglio e era di sera. Si trovavano davanti a questo "appalto" [rivendita tabacchi, con vino] come ogni sera, e là c'era il fotografo.

Nastro 1994/35 - Lato A

[All'inizio ... perso un terzo di nastro registrato ... sovrapposto con l'intervista a Romolo Corrà da Vas]

[Ritorno al paese] 
... Alla mattina all'alba quando ci siamo svegliate siamo state portati fino a Montebelluna e un altro soldato ci ha portato fino al ponte di barche [Covolo/Vidor].
Siamo arrivate a casa a trovare nostro padre. Era tutto contento perchè al ritorno aveva ritrovato una gavetta in cui aveva nascosto un po' di soldi e l'oro della moglie. L'aveva seppellita sotto la cucina economica; prima aveva scavata una buca e poi rimesso al suo posto la cucina.
[Arrivata a Bigolino ho dovuto aspettare mio padre] perché era andato sul Piave. Ad andar vedere il Piave gli sembrava di andar ad "allargarsi il cuore": vi era andato insieme a mio fratello Filippo, di 15 anni. Puo' immaginarsi quando ci ha visto...
Mio padre era stato profugo insieme a noi ma era venuto a casa prima.
Siamo rimaste a Bigolino una notte e alla mattina siamo andate fino a Montebelluna a piedi, ad aspettare i soldati col camion. Quando eravamo là sulla strada, quello che ci aveva portato [da Cittadella] fino a Treviso ci ha riconosciute e ci ha chiesto se volevamo salire, che sarebbe andato a Spilimbergo. Ci pare di vederlo. Siamo salite su e alla sera eravamo ritornate già a casa a Spilimbergo, dalla mamma e dagli altri fratelli. Eravamo venute "in autostop" a vedere come era la situazione, e dopo siamo tornate con la stessa maniera...
Nella cucina in cui mio papà aveva nascosto i soldi i tedeschi avevano messo i cavalli e quando siamo ritornati abbiamo trovato solo buàsse de caval e paja [sterco di cavallo e paglia]...
Si aveva anche il pozzo in cui avevamo nascosto la roba da cucina e il pentolame ... quello invece è stato colpito dalle granate ed è andato tutto per aria.

[Nel novembre 1917] mio papà, da Saccol, una mattina è venuto a Bigolino con il figlio di 11 anni per prendere farina, perché proprio nella mattina in cui erano arrivati i tedeschi era andato a macinare e scappando avevamo lasciato a casa la farina. È venuto giù per prendersi la farina ... e siccome avevamo ammazzato anche il maiale e avevamo appeso il lardo a una finestra e la finestra l'avevamo lasciata aperta appoggiata al muro ... il lardo non l'ha più trovato. 
Anche la roba da vestire era stata nascosta in una buca sotto il portico, e sopra vi avevamo messo anche la legna; ma al ritorno non c'era più. Non so chi sia stato a rubarla, ma non escludo che sia stata gente del posto ... in paese si sa...
La mattina che siamo partiti da Bigolino verso Saccol si sentivano le granate che arrivavano dal monte Grappa. Si sentiva questo urlo uuuh, e mio papà ha detto al figlio: Belin butate dó. La granata è arrivata in mezzo fra l'uno e l'altro e non è scoppiata, si è conficcata nel terreno tenero; per fortuna, altrimenti sarebbero saltati in aria. [...]
Dopo hanno cominciato ad arrivare anche a Saccol, queste granate, finchè una sera ci hanno caricati tutti quanti sul carro di mio nonno Francesco Vettorello, che aveva ancora le vacche e il carro. Si era in 14 - sette di noi e sette con mio nonno - e siamo andati a Col San Martin. Mio papà era riuscito a trovare un carrettino e ci aveva messo sopra mio fratello che aveva la gamba rotta e un bambino di due anni che ancora non camminava.
In precedenza da Bigolino a Saccol eravamo andati a piedi, senza vacche né niente perché solo il nonno aveva vacche. Noi non avevamo niente.
Mio padre si chiamava Eugenio Cesco e mia mamma Regina Vettorello: hanno avuto sette figli, ma quattro solo sono rimasti vivi, gli altri sono morti da piccoli. Ne morivano tanti di piccoli, una volta; non c'era mica riscaldamento, né niente ... un po' di bronchite, polmonite, morbillo ... una roba e l'altra ne sono morti tanti.
[...] Mia zia invece non si è portata dietro la mamma (mia nonna); l'ha lasciata là perché i tedeschi dicevano sempre che sarebbero passati oltre il Piave e quindi gli abitanti avrebbero potuto ritornare presto alle loro case, per questo la nonna è stata lasciata là ... e se l'è portata via Maria Ceccato - madre di sette figli e col marito in guerra.
Poi non sapevamo più dove la nonna fosse andata, ma a forza di chiedere siamo venuti a sapere che era dalle parti di Farrò. Allora mio padre è andato a prenderla e ce la siamo portata dietro a Spilimbergo, dove è morta a 84 anni, di paralisi. Alla mattina ero andata a carità e stava bene e alla sera al ritorno l'ho trovata morta. 
È stata brava la Ceccato a portarsela dietro. La nonna si chiamava Caterina.
Io mi sono sposata nel 1922 con Pietro Prosdocimo e ho avuto quattro figli.
Di mestiere ho lavorato in filanda e poi ho allevato la famiglia e sono rimasta in filanda finché ho preso la pensione, cioè fino al 1933, quando avevo accumulato le marchette sufficienti per avere la minima di pensione, che ho cominciato a prendere a 55 anni. Mio marito ha lavorato nel calzificio di Valdobbiadene, da Piva.
Della guerra della Libia ricordo che i soldati erano accampati dove ora ci sono solo case e lavorano il legno. In quell'epoca c'era un prato grande, di là della strada per andare a San Giovanni. Era il 55 Fanteria. Io ero giovane e alla sera era sempre festa. C'era la musica, eravamo in piazza, venivano in piazza e suonavano "Tripoli bel suol d'amore". Era bello, anche perché noi eravamo giovani e ci pareva tutto bello.
[Da profugo] un mio fratello ha preso il tifo nero e gli si è perfino pelata la lingua. È rimasto sempre là, buttato giù sulla paglia in camera; ed eravamo in dieci in quella camera. Mio papà andava a saltare il recinto dove c'erano le vacche per mungerle e prendere un po' di latte per il figlio e per poco lo volevano fucilare. Per fortuna che lui era stato in Germania e qualche parola di tedesco la sapeva, così è riuscito a far capire che aveva il ragazzo che stava male e lo hanno lasciato libero. Il ragazzo poi è guarito a brodo di fagioli e latte. Il tifo procurava febbre altissima ... mangiare niente e bere tanto. Mio fratello si è salvato, per fortuna, ma quanti che ne sono morti là a Spilimbergo, da Valdobbiadene! Anche con i funghi avvelenati ... due sorelle giovani e belle sono morte all'ospedale di Spilimbergo. Quante persone sono morte, anche tubercolose...
Prima di partire da Saccol è caduta una granata davanti alla cantina in cui erano riparate in trenta persone per aspettare che arrivasse buio per allontanarsi, per andare fuori dal tiro. Con questa granata il nonno Francesco è stato ferito da una scheggia al braccio mentre un tedesco è morto.
Da Saccol siamo andati a Col San Martino nella casa della famiglia Paccanoni, una casa di contadini, con grandi stanze. Avevano appena sgranato le pannocchie e allora noi ci hanno messo tutti a dormire in questa stanza grande con i cartocci delle pannocchie finché sono arrivati i tedeschi.
Mio papà, che era ancora giovane, aveva paura dei tedeschi e ha nascosto sotto i cartocci le figlie, e sopra vi si sono sdraiati degli altri. I tedeschi hanno portato via una ragazza di Saccol e poi non se ne è saputo più niente ... e mio papà ha preso una paura! 
Quando poi è venuto chiaro, al mattino, ci hanno raggruppato tutti al municipio e ci hanno portato a Vittorio dove ci hanno caricato sul treno, su un carro bestiame che andava avanti "a sbocconate". Un paio di km e poi si fermava. Era pieno di donne, vecchi e bambini. 
Occorreva anche andare a fare i suoi bisogni e allora si apriva un po' lo sportello e uno da dentro ci teneva con una mano e si stava in fuori ... e a mia mamma venne una specie di paralisi. Per fortuna che da Cison avevamo portato via una zucca [recipiente formato da una zucca a forma di fiasco, essiccata e svuotata] di vino moro presa dai contadini e ci siamo messi a massaggiare con forza il suo braccio con il vino moro; in quel modo il sangue è ritornato.
Abbiamo fatto un viaggio che non le dico...

Nastro 1994/35 - Lato B

Sul treno ci siamo portati un sacco di biava e più roba possibile ... il viaggio è durato fino al giorno dopo ... era tutta roba che avevamo comprato a Cison: i proprietari della casa in cui avevamo dormito a Cison avevano preparato un'infornata di pane, così avevamo questa zucca di vino e questo pane fatto in casa, per non morire di fame.
Quando siamo arrivati alla stazione di Spilimbergo c'era il sindaco, o non so quale autorità. Era lui "l'impresario" addetto a portarci, a smistarci nelle varie case. La biava appena l'hanno vista ce l'hanno portata via «tanto voi non ci fate niente alla biava, bisogna macinarla», ma la farina non l'abbiamo più vista. Era granoturco in granella, giallo. Il pane invece ce l'hanno lasciato.
Poi ci hanno accompagnato in queste due stanzette; si era in 14 persone.
La casa in cui siamo andati era vuota: a Spilimbergo erano scappati tutti, i siori e anca i poareti. Là in quella strada diritta fiancheggiata di case erano tutti profughi. Le case erano tutte malpostate: ce n'erano col pergolato di legno, con la scala per fuori...
A Col San Martino, dove ci siamo fermati una notte, mio padre ci ha nascosto noi figlie sotto i cartocci.
Nei campi andavamo a prendere radicèle [cicoria selvatica] e ravisson [colza] che sotto ha una patatina che si mangiava lessata. Poi si andava a legna sul Tagliamento, perché si aveva il fogolare, non la cucina economica... 
Mi sembra fino impossibile di aver resistito, ma quando si è giovani si resiste; se mi fosse toccata adesso una cosa simile... 
Comunque non si mangiava erba medica. Sale e aceto l'abbiamo trovato in una stanza ... mia sorella era un demonio, andava a cercare dappertutto nelle stanze di queste case chiuse, dove erano scappati. Abbiamo trovato un deposito di sale ed è stata una cuccagna. Almanco la sal! E anche l'aceto ... quello che invece non c'era, era lo zucchero e il caffè: quello non l'abbiamo mai visto. 
La lat (il latte): si andava a mungere le vacche sul Tagliamento; erano tutte libere là, quelle che requisivano i tedeschi, e c'erano le sentinelle che le sorvegliavano. Noi si andava a tirare dappertutto; una non si lasciava mungere, quell'altra neppure, ma alla fine un po' di latte si trovava sempre. Spesso succedeva che quando avevamo riempito il recipiente capitava là il tedesco che ci portava via il latte. Una volta sono riuscita a scappare con il vaso pieno e l'ho nascosto dietro un cespuglio - il Tagliamento è come il Piave qua - e ho bevuto tutto il latte. Robe da morire, da morire dalla colica. Con le budelle strette [per il poco mangiare] ...  bere un litro di latte, si pensi lei. Mi è venuto subito, quando ancora ero là sul Tagliamento ... per fortuna poi sono andata ... per davanti e per didietro nascosta dietro un cespuglio. Così è stata! Se le racconto tutte diventa troppo lunga, e non ho neppure più fiato a discorrere; deve accontentarsi.

Nastro 1994/37 - Lato A

Aggiunte e precisazioni, 17 ottobre 1994

[Al ritorno da] Spilimbergo ... abbiamo passato il ponte della Priula. [Sul camion] eravamo in tre. Oltre a me, una sposa che aveva il marito in guerra e non sapeva se fosse vivo o meno (non ne ricordo il nome, era da Valdobbiadenee e suo papà faceva il moleta, l'arrotino); c'era anche un'altra ragazza che si chiamava Giuseppina Bressan da Ron. Sul camion c'erano anche prigionieri italiani che venivano dall'Austria ... e il camion è andato anche dentro al fosso e a sbattere contro un albero. Siamo stati tirati fuori con le catene da un altro camion di passaggio. I militari ci hanno portato fino alla stazione di Treviso e là ci siamo messe ad aspettare il treno che ci avrebbe portato a Cornuda.
Invece arriva un soldato che ci guarda fisso e ci chiede:
«Siete profughe?»
«Sì.»
«Dove dovete andare?»
«Sul Piave.»
«Io devo andare a Levada... »
«Ma a Levada del Piave? gli chiedo.»
«Sì, a Levada, a Levada... »
Allora siamo salite sopra: io davanti con l'autista e le altre due dietro. Ma invece di portarci a Levada ci porta verso Cittadella. E io a dirgli: «Ma guardi che di qua non si va a Levada»; anche se non ero mai stata da quelle parti me ne rendevo conto. Insomma ci ha portati a Cittadella, e ormai era sull'imbrunire. Una disperazione! Era la sera del giorno in cui eravamo partiti da Spilimbergo.
Questo autista non ci ha per fortuna fatto delle violenze. Invece alla stazione di Treviso mentre eravamo in attesa del treno - non vi potevamo salire perché non avevamo soldi italiani - sento uno che me furighèa (mi rovistava) dietro. Era un soldato che si era aperto tutto davanti ... e noi gli abbiamo gridato e allora lui si è vergognato e se n'è andato.
Arrivati a Cittadella, l'autista ci lascia là e si mette a ridere. Una malagrazia; gli avevamo detto cinquanta volte che di là non poteva essere Levada.
Passa di là un altro soldato che ci vede disperate e ci chiede cosa avevamo. Noi gli raccontiamo cosa ci era successo e lui ci dice di aspettare là, che eravamo sulla strada dove passavano tutti i camion. Si mette a chiedere ai camion di fermarsi, alzando le mani, ma passa uno, passa un altro e tutti via di corsa. Ormai stava per diventare buio e allora questo soldato dice: «O mi prendono sotto o si fermano» e minaccia di sdraiarsi in mezzo alla strada, finché un camion si ferma e lui gli chiede dove deve andare. Il guidatore gli risponde: «A Fanzolo». «Fammi una carità, prendi su queste profughe dal Friuli» ... e quello che guidava il camion ci ha prese su. Siamo così arrivate a Fanzolo, dove ci siamo sistemate in una stalla che era piena di cavalli e il padrone ci ha dato polenta e latte.
Alla mattina abbiamo trovato un altro camion che ci ha portato fino a Covolo, e là c'era il ponte di barche [sul fiume Piave]. Siamo passate e quando siamo arrivate qua in piazza a Bigolino era tuta na masièra, tutto per terra, strade tutte ingombrate di macerie. Tutte le case per terra, qua in piazza; la chiesa e il campanile buttati giù.
Mio padre era già a casa ed era contento perché aveva ritrovato una gavetta da militare dentro cui aveva nascosto dei marenghi e dell'oro sotterrandola sotto la cucina economica. Ritrovata la gavetta era andato sul Piave, a vedere il Piave e quando è ritornato abbiamo mangiato un boccone con quello che ci ha dato una cucina che i militari avevano preparato, là in paese. 
La notte abbiamo dormito in qualche maniera e all'indomani siamo partite, a piedi, con gli zoccoli, dirette a Montebelluna. Ricordo che quando siamo arrivate al ponte di Vidor, prima di passarlo, dei militari ci hanno dato delle gallette che avevano loro. Poi abbiamo passato il ponte e siamo andate fino a Montebelluna a piedi, con gli zoccoli. A Montebelluna i soldati ci hanno chiesto se si voleva del pane. Può immaginarsi, noi pane non ne vedevamo da molto tempo ... era vicino la stazione di Montebelluna e c'era 'sta casa con tutti questi militari. Ci hanno dato un po' di pane e un po' di gallette e poi noi siamo andate fuori e la sposa l'hanno chiusa dentro in una stanza.
Noi ci siamo messe a gridare: «Vigliacchi, maiali, siete peggio dei todeschi, che i todeschi non ci hanno mai fatto una vigliaccheria così». Insomma passavano dei militari, passavano delle persone e ci chiedevano cosa ci fosse; fatto sta che alla fine l'hanno lasciata libera. Volevano farle delle malagrazie ... e siamo riuscite a far venir fuori questa sposa, disperata, senza che le avessero fatto niente.
Ci siamo messe in strada, a piedi, e intanto che eravamo sullo stradone provinciale ... non passa proprio quello che da Spilimbergo ci aveva portate fino a Treviso! Ha fermato il camion e ci ha chiesto: 
«Siete di ritorno?» 
«Sì», gli abbiamo risposto. 
«Beh, io vado a Spilimbergo, volete un passaggio?» 
«Maria Vergine, una grazia!» 
E in neppure due ore siamo ritornate alla nostra casa di Spilimbergo.
A Spilimbergo erano rimasti tutti i poveri, perché i ricchi erano tutti scappati perché pensavano che la guera si sarebbe fermata sul Tagliamento; e questi poveri andavano a requisire nelle case dei signori.
Mentre eravamo là [dopo essere state a vedere il paese, alla fine della guerra], ogni mattina davanti alla chiesa, sul piazzale, portavano fornelli, cardense, comò, tutte le robe che in precedenza erano state prese, rubate dalle case dei signori scappati ... in modo che quando i profughi fossero tornati avrebbero trovato la loro roba.
Là a Spilimbergo siamo rimaste circa un altro mese, sapendo che il papà e il fratello in qualche maniera si erano sistemati a Bigolino, finché un giorno sempre con un camion militare siamo ritornate a casa.

[Alla fine della guerra], quando i tedeschi stavano per ritirarsi, i prigionieri italiani che erano a Spilimbergo buttavano giù roba dalla finestra e noi fuori tutte là, ad aspettare ... e la sentinella tedesca che era là fuori ci correva dietro per farci metter giù la roba, ma ormai erano in ritirata e non ci ha fatto niente. I prigionieri continuavano a buttare giù cuscini, lenzuola, materassi, e noi si prendeva la roba e si scappava.
Da via Valbruna, questa via grande, iniziavano tutte queste viuzze laterali, e intanto che la sentinella guardava da una parte noi scappavamo dall'altra, per queste viuzze. Insomma siamo riusciti a portarci a casa [qualcosa].
Poi anche dagli ospedali ci siamo presi delle lenzuola, macchiate da sangue e da tutte le batarie, ma insomma ... ci siamo arrangiati meglio che abbiamo potuto e siamo venuti a casa portandoci qualcosa, con lenzuola, materasso e roba da dormire che abbiamo caricato sul camion che ci ha riportato al Piave.
Quando questo camion ci ha portato fino a casa nostra, noi lo abbiamo anche pagato un po'. Mio padre aveva trovato i soldi nascosti, soldi italiani. C'erano anche i soldi tedeschi; qualcosa valevano anche loro: erano dei pezzetti di carta, color rosa-rossi, si chiamavano corone.
Quando siamo passate, al ritorno, per Vidor si vedevano tutte queste buche di granate, tuto un afàr, mariavergine!

Insieme con noi, a Spilimbergo, c'era il nonno con tutta la famiglia di suo figlio e si era in quattordici. Avevamo una casetta con due scalini per andar su e altri due per scendere in cucina: una cucina con le finestrelle metà del normale, che sembrava di essere in una prigione. E c'era un focolare e dopo c'era la scala che portava al piano superiore in una camera e poi una scala ancora che portava a un altro piano ancora sopra, terzo piano. Due camere ed eravamo in quattordici. I ragazzi (erano quattro maschi) erano sulla prima stanza e noi su quella superiore: cinque da una parte e cinque dall'altra sulla paglia. Mio nonno che aveva le vacche si era portato via i materassi assieme a una mia zia, materassi da due persone, sui quali sono riusciti a dormirci anche da profughi ... il materasso era riuscito a caricarlo su sul treno, dopo che a Cison gli avevano portato via le vacche. [?]
Io e mia sorella ci eravamo portate via un sacchetto fatto con la federa di un cuscino (un sacchetto per ciascuna) e ci avevamo messo dentro quello che si poteva. E quello poi lo abbiamo usato sempre come cuscino.
A Spilimbergo mio papà ha provato ad andare a servire da un contadino ed è stato fortunato ... così non ha patito la fame e neppure si è preso la rogna che invece noialtri tredici abbiamo preso. Eravamo tutti impestati di rogna. L'avevamo presa perché un mio zio (me barba Nani) era andato a dissotterrare un cavallo che i tedeschi avevano seppellito, e il cavallo era pieno di rogna. I tedeschi l'avevano seppellito per non mangiarlo e lui era andato a tirarlo su per mangiarlo.
Sangue, sangue usciva a forza di grattarsi, fra i pidocchi e la rogna ... e quando siamo ritornati ancora avevo della carne viva sul braccio a forza di grattarmi.
Mio nonno che aveva 80 anni ha preso anche lui la rogna, e ormai sembrava un pesce con le scaglie. Allora un dottore tedesco gli ha insegnato a fare un "pasticcio" con lo zolfo e l'alcol e farsi dei massaggi con questa pastella. Noi invece ci limitavamo a grattarci e a lavarci.
La rogna l'avevamo presa dopo aver mangiato la carne del cavallo.
Andando in queste case abbandonate abbiamo trovato un bel catino in porcellana ricamata. L'ho portato via e l'ho proposto [ai tedeschi] per un cambio con del grano e invece ci hanno dato del sorgo. L'abbiamo macinato ma non siamo riusciti a mangiarlo.
Noi eravamo giovani e forti, e ci mettevamo fuori del recinto del macello che c'era là a Spilimbergo. Restavamo là con le braccia per aria quando da dentro lanciavano fuori questi piedi delle bestie e noi li si mangiava. E poi trippe, e trippe, e trippe ... ne abbiamo mangiate così tante che da quando sono ritornata a casa non sono più stata capace di mangiarle (e neppure adesso). Le mangiavamo lesse; prima le si puliva e poi le si mangiava.
Per lavarsi, farsi il bagno, si andava giù al Tagliamento. In casa non avevamo né catino né niente, ma il Tagliamento non era come il Piave: era più largo, ma più asciutto.
Là al fiume andavamo anche a mungere le vacche, e i tedeschi stavano attenti e quando ci vedevano col recipiente pieno ce lo sequestravano. Finché una volta mi son detta «ora non mi cuccano più» e me lo son bevuto tutto. 
Ho avuto una colica da morire!

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