lunedì 24 maggio 2010

Matteo Dal Canton, Quero (BL)

Nato il 15 maggio 1908

Nastro 1994/20 - Lato A                30 maggio 1994


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Matteo Dal Canton
[Premette che ha già dato un'intervista a una ragazza delle scuole, la quale ha poi preso il primo premio...]

Se dovessi raccontarle la partenza che ho passato quell'anno là...
Visto che ormai erano qua i tedeschi ... sono rimasti fermi per colpa della Piave, era un'alluvione. La Piave era come il Po, me lo ricordo, perché avevo nove anni.
Mia mamma alla notte aveva sognato fuoco, tutta la notte. 
Alla mattina ... mio padre aveva trovato un casonét in S-ciévenin, al ponte di Cagnin, perché è un ponticello prima di arrivare a Schievenin in cui ci sono solo due tre case; su quella casetta sopra quella montagna là, [mio padre] l'aveva preso da uno che si chiamava Cagnin.
C'era mio nonno che si ricordava della guerra del [18]66, quando noi eravamo sotto l'Austria. Anche allora era arrivato qua un mucchio di truppa, perché la battaglia l'hanno fatta sul Veronese, dove sono arrivati i francesi, ed erano là là, in bilico per vincere o per perdere, la guerra. Me lo raccontava ancora, mio nonno, e diceva: «Ston qua fermi parché l'é un passàjo, l'ò vist ancora», e invece si sono fermati qua.
Mio nonno si chiamava Matteo Dal Canton e mio padre Angelo. Il nonno era del 1835 e un suo fratello aveva fatto il soldato con l'Austria, quando era in guerra contro la Boemia, su di là, ed è rimasto morto, questo fratello.
Siamo andati in Schievenin, con le vacche e il maiale, e ci siamo fermati là in quella stalletta, insieme con un'altra famiglia. Noi eravamo in tre figli e due li aveva l'altra famiglia. Abbiamo dormito sopra il fieno; eravamo piccoli, uno aveva un anno più di me. Là dentro in mezzo alla valle non c'era niente, c'era questa baita solo, vicino al pont de Cagnin; adesso anche la famiglia che abita là si chiama Attilio Cagnin, anche se è Mondin di cognome e viene da Prada.
05:20 Mia moglie si chiama Maria Tessaro, di Alano, nata nel 1910. Suo padre lavorava in ferrovia, era cantoniere. I ferrovieri sono stati mandati profughi a Porto San Giorgio e il padre di mia moglie era sull'ultimo treno passato prima che la ferrovia fosse interrotta.
Quando siamo arrivati a Schievenin con le bestie, non c'erano ponti ... saltavano da un sasso all'altro, le bestie.
Mio padre era assieme a un altro suo amico: Mondin Vincenzo, detto Céncio Baston. Mio padre si chiamava Angelo, soprannome Gamba come tutti i Dal Canton. 
La località in cui si trova la nostra casa [qua a Quero] si chiama Nogaróla. Altre località di Quero sono: Col Barbanic, Col Maor dove c'è l'ossario tedesco, ecc.
Siamo partiti sul mezzogiorno. Si sentivano ormai le cannonate e il giorno successivo, al mattino, mio papà è venuto dentro a dirci: «Presto che scappiamo, andiamo in giù» [verso Montebelluna, lontani dal Piave].
Abbiamo lasciato tutto là a Schievenin, anche le vacche e presto, scappare. Io [ero con un] altro ragazzo, Bepi Mondin, che è venuto con noi; lui attaccato a suo padre. 
Io, mio papà e mia sorella siamo partiti con un sacchettino per andare in giù.
09:50 Mio papà infatti non era molto d'accordo con il nonno: lui aveva visto che gli italiani sul Tomba avevano preparato le trincee (si sentiva dire: «I laóra, i fa le trincee»), ma si sapeva che la guerra era lassù e si vedevano sempre i treni dei feriti passare con la croce rossa. Avevamo un pezzo di bosco e si vedeva tutto.
Insomma mio padre ha detto: «El fronte vien qua ... è meglio che andiamo giù». Così ci siamo decisi a partire.
Mentre andavamo in giù c'era la strada piena di soldati, carreggi e tutto. Oramai i tedeschi erano di là del Piave, sulla zona di San Vito [di Valdobbiadene]; altro che il Piave era come un mare, arrivava fin sulla ferrovia.
Mi ricordo quando siamo arrivati Ai Canalét, come chiamiamo noi, a San Giacomo. C'erano i militari sull'argine della ferrovia con le mitraglie che sparavano di là, e dalla parte di là i tedeschi che tiravano di qua.
Io sentivo le cannonate, ma a quei tempi - avevo nove anni - credevo che fosse il tuono. Capitavano queste granate, una qua e una là. Ne è capitata una mentre si camminava di fianco ... era tutta vigna là in quel punto. Mentre si camminava nella vigna ne è arrivata una molto vicino e ci ha interrato. Un colpo ... e mi sono trovato in mezzo a una nuvola. I miei genitori mi hanno perso dalla mano e io mi sono trovato in mezzo a questa nuvola. Ho camminato finché ne sono uscito e ho visto delle persone in terra distese e mi sono detto ... e intanto veniva giu' una pioggia a dirotto ... : «Guarda - mi son detto - questi qua dormono per terra, con questo tempo».
Intanto correvo piangendo e chiamando "mamma qua, mamma là". Era una disperazione. Non si sentiva altro che piangere e gridare e cannonate.
Ho continuato a camminare finché sono arrivato nei pressi della chiesa di Fener, e là ho cominciato ad ambientarmi perché prima non sapevo dove mi trovavo, non sapevo se andavo in su o in giù. «E allora vado a casa - mi son detto - chissà che non trovi mia mamma».
Venendo in su per la strada c'era una colonna di militari. Mi dicevano: «Onde vatu, bocia?» e mi mettevano una mano sulla testa. Alla fine sono incappato in mio cugino, che faceva parte del battaglione Feltre ed era in ritirata (e poi sono andati ad accamparsi qua sul Grappa). Mi ha chiamato: «Onde vatu Mateo?» e mi sono messo a piangere, perché era uno che veniva sempre in casa nostra. Era Carlo Curto e mi ha detto fermati... 
No, mi sbaglio. È stato che Carlo Curto ha trovato mia mamma che piangeva disperata (era sorella di sua mamma), e allora questo soldato è tornato indietro, invece di seguire la colonna; è tornato indietro a guardare, in cerca di questo bambino, a vedere se mi trovava... [...]
Io ero [arrivato] a casa. Ero da solo, con la piova che continuava a cadere, e ogni tanto si sentiva un colpo qua e un colpo là. La nostra casa era come la avevamo lasciata, nessuno aveva toccato niente. Apro la porta e vedo venire avanti questo soldato e mi dico: «Meno male che c'è qualcuno, chi sarà?». 
Ormai non piangevo neppure più, avevo il convulso, ma quando l'ho visto e l'ho riconosciuto mi son messo a piangere. Lui mi ha detto. «Non sta piangere, no, è quaggiù tua mamma».
15:55 Sono tornato indietro con lui e sono andato giù e quando sono stato al ponte di Fener ho incontrato mia mamma, con mio papà e mia sorella che venivano in su.
Nessuno della famiglia si era fatto niente, mia sorella Pierina ha continuato a rimanere in mano alla mamma ... e abbiamo deciso di tornare ancora a Schievenin. Ma tornati che siamo, abbiamo trovato sì le nostre vacche, ma il posto lo avevano occupato altre persone qua del paese che vi si erano rifugiate.
Ci siamo stretti tutti dentro, tutti impaccati, e poi ogni tanto uscivamo. Questo per due tre giorni, poi sono arrivati ancora soldati italiani. Hanno bevuto del vino, hanno mangiato normalmente: erano ancora italiani in ritirata dal Cadore.
I tedeschi non potevano passare il Piave. 
I tedeschi sono arrivati a Schievenin il 15 di novembre. Li ho visti venir giù dalla montagna. Noi eravamo a ridosso e li si sentiva...
Il giorno avanti avevano fatto una battaglia qua sul monte Cornella, si sentiva gridare, andare all'assalto, «aiuto, Savoia... ». Noi eravamo giù dalla montagna e li si sentiva gridare, i soldati. I sighéa aiuto, andavano all'assalto. I todeschi uuuh!, i urléa come le bestie feroci. Hanno fatto fuori tre battaglioni, là sul monte Cornella. Tutti insieme urlavano, andavano all'assalto alla baionetta.
Sono morti italiani e tedeschi, però i tedeschi erano di più e hanno sopraffatto gli italiani. Mi dicevano che nella maggior parte [gli italiani] erano tutta roba del '99 e gli istruttori solo erano più anziani ... e questi si sono portati nelle seconde linee e l'assalto l'hanno fatti quelli di 17-18 anni.
Poi ho incontrato uno che aveva fatto la battaglia sulla Cornèla. Stavo facendo fieno in montagna e mi ha chiesto ... mi ha detto che lui aveva combattuto là e aveva lottato alla baionetta. Era capitano, si vedeva che era un uomo scaltro. Alla baionetta qua ne sono morti tanti è stata una disfatta, si era uno contro dieci. 
[Gli italiani] hanno tenuto la montagna per otto giorni, e i tedeschi vedendo che non potevano passare hanno sforzato in massa, come hanno rotto a Caporetto ... ma qua niente. Avendo tenuto fermo per otto giorni, i nostri sono riusciti a sistemare le difese sul Monfenera, sul Tomba e sul Grappa.
20:40 I tedeschi avevano la prima linea a cinquecento metri sotto la nostra casa, che di fatto era come la prima linea, c'era lo sbarramento dei reticolati. Il Tomba, là sopra, era la prima linea; poi c'era la terra di nessuno.
Il Tomba lo hanno perso tante volte, perché andavano in massa e dopo gli davano dei contraccolpi di fianco e lo hanno conquistato di nuovo, gli italiani. In sostanza non lo hanno mai perso del tutto.
Le trincee tedesche le si vedono ancora qua davanti. Ci sono ancora le postazioni in cui mettevano le mitraglie. Una l'ho spianata io che sarà poco tempo; era una collina e vi avevano fatto una piazzola. Domani sego il prato e si vede ancora il segno della trincea; io ho cercato di spianarlo per andar bene con la falciatrice.
Sulla strada che va a Treviso [la statale Feltrina] ... il fronte italiano scendeva lungo il ciglio, fino a Pederobba e là i tedeschi cercavano di andar su, ma erano in posizione sfavorevole. La strada non era né dell'uno né dell'altro, perché era una posizione che non si poteva tenere, perché là anche a sassate ti avrebbero ammazzato.
Poi hanno fatto un'altra battaglia sui Rivalti [?] perché volevano sfondare anche sul Tomba. Aveva fatto un po' di neve, era verso la metà di dicembre e noi eravamo ancora a Schievenin. Qua, dietro la nostra casa, avevano messo le artiglierie. Mio padre aveva cercato di venire a Quero per vedere se trovava qualcosa, e ha trovato tutto pieno di tedeschi; non ha più trovato niente, avevano portato via tutto. La casa l'avevano svuotata, cavato il solaio, i travi, tutto, per fare i ricoveri. I muri comunque erano rimasti in piedi, avevano solo un buco di granata. Tutt'attorno era pieno di buche.
I muri erano tutti scossi, e anche se sono rimasti gli stessi, quando poi la casa è stata ricostruita hanno dovuto rinforzarla dappertutto con degli àrpesi [rinforzi, barre] di ferro...
Siamo rimasti a Schievenin fino al giorno di Natale, quando i tedeschi ci hanno spostato... dopo che avevano diverse volte tentato di passare e di andare a Venezia. I diséa Nach Venèding, lóri. I avéa senpre in boca Nach Venèding...
A Schievenin c'erano tutti quelli di Quero che non erano riusciti ad andare di là delle linee. E noi abbiamo sbagliato quella volta a non passare per la montagna, visto che non si poteva passare lungo la strada perché si era sotto il tiro. Passare su per la montagna e scendere dall'altra parte, perché per otto giorni si poteva ancora passare.
26:30 Sul Tomba a metà altezza, era rimasta tutta la neve (in pianura invece si era sciolta per la piova) e i tedeschi avevano fatto un'azione. La vallata era piena di uomini, bosgnàcc [bosniaci]. Mi ricordo sempre che dicevano i é bosgnàcc, i é bosgnàcc e i nostri uomini dicevano: «Hanno fatto una battaglia che la Monfenera - perché un pezzo si chiama Monfenera e poi si chiama Tomba - la Monfenera è diventata tutta nera dalle cannonate. 
Io e altri due tre boce si voleva andar a vedere, si aveva gola di vedere questa neve diventata nera. Ma per la strada non si poteva passare colpa che i todeschi non ti lasciavano mica, c'era tutto un traffico di loro che andavano avanti e indietro. Allora siamo andati su per una montagna, per un pezzo, e poi sempre di traverso passando per bosco e legni finché siamo venuti fuori su un posto - noi eravamo pratici della montagna - che ci permetteva di vedere il Tomba: ed era tutta nera... La neve era nera. Si vedevano dei pezzi bianchi qua e là [...]
E gli italiani hanno fermato i tedeschi...
Poi ci sarebbe la battaglia di Val Calcino e la battaglia di Valderoa.
28:18 La grande battaglia di Val Calcino: i tedeschi si erano presentati in massa e quelli che difendevano erano i paesani. Non di Quero, ma di Feltre, del centro del Feltrino; perché c'erano tre battaglioni tutti formati dal Settimo: il battaglione Feltre, il Pavion, il Cismon. Sono stati loro a fermarli.
I tedeschi hanno requisito mio padre e altri uomini. Mio padre allora aveva 57, 58 anni: era valido, era un uomo solido. Erano stati requisiti tutti quelli validi per portar feriti tedeschi. Era una zona lassù chiamata San Daniel [?], dentro al Schievenin. I tedeschi avevano già fatto la strada per andar su; prima la strada era qua sul mezzogiorno e non la potevano adoperare perché erano sotto il tiro delle artiglierie italiane. 
Hanno fatto andare i nostri uomini fin dove sentivano andare all'assalto, e mio papà è rimasto via due giorni e una notte. Senza vederlo ... mia mamma disperata, con due boce mi ha preso per una mano: «Ndon a véder». «Mi voi me popà, me popà»
Siamo andati a vedere e là c'era un grumo di gente. Era un piano e lo chiamavano il piano de Andrea Mussa. Era pieno di morti, di feriti, di truppe. Era tutto pieno di soldati e si vedeva della gente, dei civili, che giravano: avevano requisito gli uomini validi.
30:14 Finalmente ho incontrato mio papà. Mia mamma chiedeva a questi civili «ha visto il mio uomo?» [àlo vist el me òm?). - «Si l'o vist.» 
«Beh, allora vuol dire che è vivo, chissà che salti fuori». Perché due giorni e una notte... 
Finalmente lo abbiamo trovato ed era tutto pieno di sangue.
«Cosa hai fatto papà?»
«Sono andato a portare feriti.»
Io non lo sapevo neppure [cosa fossero "i feriti"], non si sapeva mica allora ... 
Adesso i boce a dieci anni sanno come uno di venti, ma allora non c'era niente, né televisione né niente, i contéa altro che storie del diàul, del mazaròl, tute frotole. Allora non c'era l'istruzione che c'è adesso.
Mio padre quando ci ha visto ha detto: «Adesso scappo ... prima non riuscivo a scappare e ho dovuto fare non so quanti viaggi, su e giù.»
Insomma è riuscito a scappare e a venir giù in questo ricovero dove eravamo noi, nella baita.

Nastro 1994/20 - Lato B      30  maggio 1994

"Vallata di Schievenin", cartolina spedita nel 1906.
C'era tutto il paese di Quero a Schievenin dove c'è anche una fornace che la usavano quelli del paese per farsi su la calce per la casa. Nel Tegorzo ci sono dei sassi buoni per fare calce, un sass maségno, tanto che c'è anche la val Calcino.
Una famiglia si era sistemata dentro a una fornace, tutti i buchi erano buoni per ripararsi; ci hanno messo un po' di legne sopra per ripararsi [dalla pioggia].
I tedeschi ci lasciavano stare, solo che erano pieni di fame e se vedevano che qualcuno aveva qualcosa in più glielo portavano via. Noi avevamo le bestie e loro appena arrivati ce le hanno ammazzate, porzèl e tutto, e a me hanno dato el scàrp de na vaca [le mammelle di una vacca].
Due anni fa sono andato proprio in quel posto. Ci passavo sempre ma non mi ero mai fermato, in questa staléta. All'epoca era proprio baita, poi è stata rimodernata.
Due anni fa ci sono andato e mi son detto: «Ma guarda tu, quanti anni sono passati, e sapere che in questo posto qua hanno ammazzato le vacche, e sapere quante ne abbiamo passate... ». Ho riflettuto: allora ero bocia ... e due anni li ho passati in guerra dopo: a 35 anni ero ancora con le stellette qua nei Balcani. Ma la guerra in cui ho sofferto di più era quella di quando avevo dieci anni, perché quella dai trenta ai trentacinque ero ormai un uomo che sapeva anche difendersi, sapeva anche decidere. Invece da bambino ero proprio bersaglio di tutto.
34:40 Nella battaglia di Val Calcino i tedeschi sono stati decimati e si sono fermati definitivamente; allora hanno fatto sgombrare tutta la popolazione civile che era dentro alla vallata.
Ci hanno portati via tutti, di notte. Caricavano con i carri e cavalli - tutti cavalli, non c'erano macchine - e ci hanno portati nel Feltrino. Là ci dividevano. Alcuni venivano mandati nel Friuli, anche perché Feltre era il centro...
Noi ci siamo fermati a Feltre perché mio padre aveva una sorella sposata a Feltre e lei ci aveva procurato una stanza. Così le abbiamo anche salvato la roba, perché aveva suo marito in guerra e i tedeschi andavano dentro a portar via.
I tedeschi vedendo che dopo due tre volte non riuscivano a passare si sono fermati; così si sono rinforzati i tedeschi ma si sono rinforzati anche gli italiani dall'altra parte.
Proprio nella notte di Natale ci è toccato il turno di partire per Feltre anche a noi. E venendo avanti lungo la strada c'erano dei tedeschi che festeggiavano il Natale con un alberello: mettevano le granate in piedi come a far finta che fossero state le Madonne, una candeletta. Erano cattolici anche loro, si vedeva che festeggiavano Natale. Quando siamo arrivati in prossimità di Quero, la strada era stata tutta mimetizzata con legne, con frasche, perché altrimenti dal Tomba vedevano la strada e tiravano.
Perché "per seguire la linea" bisognava passare per Quero; per quello che Quero è stato distrutto, raso al suolo proprio.
Dopo la guerra ho trovato uno che era dell'artiglieria e [mi ha detto] che li facevano sparare sempre in «direzione Quero», con i 149. Finita la guerra si è detto: «Voglio andar vedere a Quero cosa è successo, perché sempre direzione Quero!... »
Quando siamo arrivati qua all'inizio di Quero, eravamo una colonna di carri con civili (io ne vedevo sette otto, ma eravamo una colonna). Ci siamo fermati perché si sentiva qualche cannonata. Sentivo degli uomini che dicevano: «Eh i spèta, parché i fa a intervali». Infatti i colpi facevano ta ta ta tan, come una scarica; dopo si fermavano e dopo un po' ripartivano. Si vede che hanno aspettato il momento giusto e a quel punto hanno spronato i cavalli a correre, a correre forte...  So che mi ricordo che eravamo andati su per una strada che adesso è via Monte Cornèla ma allora la chiamavano da drio le case, perché costeggiava le case a tramontana.
Si sentivano distintamente i colpi delle granate che cadevano sui coppi ... tu tu tu, come se cadessero sopra delle pignate. E via di corsa. Avevano queste carrette fatte a vandùia [madia], 'ste carrettone loro, e tutti questi cavalloni grossi, sauri, bianchi.
Si passava a piccoli gruppi, e appena passati abbiamo sentito le granate arrivare. Siamo arrivati ad Anzù e ci hanno scaricato in una casa. Là c'era la neve alta così. Ci hanno fatto andar dentro a una casa civile, che era tutta piena. È ancora vivo uno di quelli che erano là quella notte, aveva un anno più di me... Noi boce siamo stati là tutta la notte sotto la tavola, buttati per terra, finché non è venuto chiaro. Era freddo, ma eravamo talmente in tanti che era sopportabile.
40:40 Alla mattina siamo partiti. Avevamo un fagottino con due stracci, e siamo arrivati a Feltre dalla sorella di mio papà. Là c'era già mio nonno e mia nonna che erano partiti prima da Schievenin, perché anche fra i tedeschi c'erano di quelli che avevano coscienza e li avevano portato via prima, questi vecchi.
Ho visto, nella guerra che ho fatto io, quanta delinquenza c'era anche fra noi italiani ... di quelli che dopo ci mettevano in pericolo anche noi, per colpa loro. Era la stessa roba con i tedeschi. Ce n'erano di quelli che parlavano bene, ma in mezzo - anche là, come qua - c'era la delinquenza. Io poi sono stato in Germania e anche là ci sono delle degne persone; ne ho trovati di peggio, di italiani, io. Criminali ce ne sono todeschi e ce ne sono anche italiani.
La sorella del papà, a Feltre, si chiamava Antonia, e non aveva più posto. Allora ci ha trovato posto in un'altra famiglia. Si chiamava F. e aveva tre figlie e un figlio che erano sempre ammalati. Il marito era in guerra, e noi gli andavamo bene finché gli salvavamo la roba, perché se i todeschi trovavano le stanze vuote portavano via tutto.
Mio padre andava a legne per far fuoco, e andavo anch'io assieme. Si andava per i prati vicino alla Metallurgica, non so se abbia pratica di Feltre. Allora era tutta campagna, tutti prati, adesso ci sono tutti condomini. Là era dove si accampavano i tedeschi per andare al fronte per la valle di Seren e i tedeschi tagliavano le piante a livello della neve. 
A Feltre fa tanta neve; mio padre spostava la neve e poi con una manèra [ascia] tagliava via pezzi di legno che metteva in un sacco. Io prendevo su i pezzi tagliati, e mi ricordo che avevo un paio di calzoni che ormai si erano quasi consumati. Poi si portavano a casa queste legne per far fuoco, ma vicino al fornello c'erano sempre i padroni di casa e a me toccava star dietro, al freddo ... e ancora ringraziare di essere al coperto. Non avevamo mica troppa compassione no, dei profughi. So che c'era mia mamma che gli diceva: «Vorrei che toccasse a voi di dover scappare, abbandonando la casa come è toccato a noi, poi sapreste anche voi cosa vuol dire!»
Invece se c'era qualche piccola magagna, qualcosa che non andava, subito pronti a dire : «Eh sono i profughi», sempre la colpa ai profughi. Io ero anche piuttosto vispo, andavo fuori, trovavo qualcosa, una "trappola".  Trovavo magari una ruota di bicicletta ... allora non c'erano altro che le biciclette, di quelle dei militari. Io portavo a casa e loro me la buttavano via. Trovavo del filo della luce, interruttori ... perché gli alberghi là di Feltre erano diventate tutte scuderie, vi mettevano i cavalli, perché la motorizzazione era limitata. Avevano di quei cavalloni!
Gli abitanti di Feltre, una parte, quelli più agiati, i caporioni, quelli che sapevano, sono scappati, loro! Ma la gran parte degli abitanti sono rimasti là. Sentivo che dicevano: «Eh i siori i é ndati lori, i siori ... quei i sa come che la barca la va.»
45:59 A me non mi hanno trattato troppo bene, no. La famiglia in cui ero, ma non voglio che ne scriva il nome... Sono stato disgustato del loro comportamento. Sono poi stato tanti anni senza più vederle, queste persone. Dopo una trentina di anni c'era uno di quella famiglia che era della mia classe, e io lo vedevo quando andavo avanti indietro a Feltre, ma non mi sentivo di andarlo a chiamare e parlare insieme, perché mi avevano fatto dei dispetti. È stato lui poi a venire a casa mia. Io l'ho visto arrivare e sono scappato via. Non lo volevo vedere, ecco.
Dopo una trentina, e anche quarantina, di anni ci siamo incontrati per caso a Feltre, in un ambiente. Sentivo chiamare il nome, Albino, di questa persona e gli ho chiesto: «Ma sei A. F., tu?» 
«Sì» - mi ha risposto. 
«Eh, una volta ti conoscevo, io!» e ho lasciato correre tutto. 
Lui mi ha salutato, e questo e quell'altro, e poi veniva sempre a trovarmi, e anch'io lo sono andato a trovare. Ma i me n'ha combinà tante! 
Dopo, finita la [prima] guerra, suo papà è venuto a trovarci. Ma io era soprattutto coi boce che ce l'avevo ... ma anche con suo papà. Mio papà portava a casa delle tavole che trovava in giro e loro gli hanno portato via tutto. Mio papà cercava di prendere su qualcosa che avevano abbandonato i tedeschi - perché sapeva che qua non si trovava più niente - e loro dicevano che avevano trovato una famiglia che affermava che quella era roba sua, che era stata rubata a loro dai tedeschi...
Questa famiglia abitava in centro a Feltre. [Il capofamiglia] faceva il sarto durante la guerra e anche uno dei figli, dopo la guerra, ha fatto il sarto.
Durante tutta la guerra siamo rimasti sempre a Feltre.
Proprio negli ultimi giorni della guerra mi ricordo che a Feltre c'è stata una sparatoria di uno scherzo, perché i tedeschi hanno fatto resistenza e non volevano ritirarsi.
Quando mio papà ha saputo dell'armistizio ha voluto subito tornare a vedere la sua casa, e l'ha trovata nello stato descritto prima: senza porte né finestre; niente, niente.
Quando è arrivato gennaio [del 1919] mio papà è venuto giù a mettersi a posto la terra. Un pochi di operai avevano fatto su una casa come un baraccone e dormivano là. C'era una cucina militare che dava a questi uomini che lavoravano una gavetta di minestrone e pagnotte da militari. Io sono venuto a casa con mio papà; non volevo più restare lassù. Aiutavo qua a tirar su sassi, legar fil di ferro, preparare.
50:45 Quando i tedeschi si sono ritirati hanno fatto resistenza, e a buttarli fuori è venuto un battaglione di arditi che sono andati all'assalto. Noi sentivamo le sparatorie, ma eravamo tutti chiusi in casa.
Dagli aeroplani [italiani] noi abbiamo preso anche una bomba, su quella casa [a Feltre], e per puro caso non ci siamo fatti niente, forse perché non era una bomba tanto potente. Ha portato via il tetto, ha colpito esattamente il muro maestro ed è scoppiata là. 
Poco distante invece, a neppur cento meri, un'altra bomba è caduta in un giardino ed è rimasta là senza scoppiare. Rimaneva fuori a metà inclinata, e ci hanno messo un soldato tedesco di guardia, ma non l'hanno mossa, perché rischiava di saltare. È rimasta là finché non l'hanno fatta brillare degli specialisti dopo aver fatto sgombrare tutte le case. Ha fatto una fossa enorme...
Eravamo in una zona pericolosa per le bombe aeree perché si era vicino al Ponte delle Tezze.
Noi siamo stati fortunati quella volta, perché eravamo proprio sotto il tetto, al terzo piano. Se [la bomba] fosse scoppiata!
Al secondo piano c'erano i padroni di casa e al primo c'era una famiglia che li aveva tirati dentro mia mamma. Più che in una stanza erano in un corridoio in cui si erano sistemati in sette. Erano del comune di Quero o meglio di una frazione che si chiama Santa Maria. A quella famiglia è andata bene per il fatto che sapevano il tedesco tutti e due, e bene. Una, la moglie, era tedesca. Lui invece era da Santa Maria; un Andreazza, Luigi.
Lavoravano in Germania, si erano sposati là e poi erano venuti a casa colpa della guerra. Loro, se si presentavano dei tedeschi alla porta, sapevano difendersi perché avevano il parlare ... e poi lei ha avuto delle conoscenze con degli ufficiali, e ha attaccato alla porta un cartello con su scritto Kommand officier. Così nessuno osava entrare, perché avevano una disciplina i tedeschi!
Poi quella signora è andata come interprete al comando. Andava, veniva e poteva sempre avere qualcosa da mangiare e qualcosina da portare anche a noi, ma la loro famiglia era di sette persone. Lei si chiamava Maria: era una brava persona.

La gente di Quero che è riuscita ad andare verso giù è andata verso Riese, Castelfranco e là ha trovato da mangiare e da cavarsela bene. Là hanno mangiato, hanno trovato da lavorare, prendevano soldi e mangiare ce n'era. 
56:05 Il parroco di Quero, Ferrazzi, è rimasto con noi ed è venuto a Feltre. Poi è morto nel 1944, proprio in quell'anno che sono tornati di nuovo i tedeschi. È rimasto con la popolazione e poi veniva a trovarci.
Anche il sindaco, Angelo Mondin, era profugo ed era nel Feltrino. Il dottore invece ha fatto in tempo di andare oltre le linee, era un certo Gatto Giannino. È tornato dopo la guerra ma non ha fatto più servizio qua; si è trasferito con tutta la famiglia.
La maggior parte degli abitanti di Quero è rimasta di qua [della linea del fuoco].  Ha avuto 800 morti civili su 2500 abitanti, e 65 militari morti. Famiglie complete che non volevano scappare sono sparite sotto le granate. 
E la fame? Che non c'era da mangiare! 
Si andava a pelare le siepi, i germogli degli alberi, i radichietti per terra. E le zucche? Mi ricordo che mi sembrava fossero delle angurie da quanto erano buone, ed erano zucche. È per quello che io quando vedo trar via un tòco de pan ... mi viene ... perché mi leccavo perfino le mani quando per la prima volta mi hanno dato una fetta di pane.
Tanti sono anche morti da fame, qua a Quero. La più parte sono morti da fame, e poi è venuta la famosa spagnola. Una gran febbre, e molti ne sono morti.
Ma c'è la scritta a Quero, dentro al municipio, c'è la tabella là. 
01:00:50 Tanti boce... Mi ricordo che si era 25 nella mia classe e finita la guerra, dopo, nel '19, ci siamo trovati in 10-12. Più di mezzi sono mancati. C'era uno, vicino di casa, con cui andavo a scuola sempre assieme, era un Mazzocco...
Il paese di Quero quando sono tornato era tut un masarót, tut nèt. E giù per la campagna qua ... di quelle fosse, ma di quelle buche! Qua da noi c'era uno sbarramento di reticolati che attraversava. Era la prima linea.
Io ho visto anche nell'ultima guerra. Quelli che sono un po' delicati, prendono un po' di piova, qua e là, subito febbre, bronchite, polmonite. Non siamo tutti compagni. Io sono stato fortunato: ho preso delle bagnate e mi sono asciugato col calore del corpo. Ma sono stato fortunato e ho sempre resistito.
Ho sempre fatto il contadino. Si aveva 20 campi locali [cioè 20 quarte da 800 m] e poi si aveva la montagna.

Nastro 1994/22 - Lato B

Aggiunte e precisazioni, 2 giugno 1994

Maria Tessaro (moglie di Matteo Dal Canton)
Mio padre lavorava in ferrovia (a Fener) e ho fatto appena in tempo a prendere l'ultimo treno che andava in giù. Siamo rimasti fermi tutta la notte nella galleria di Montebelluna [per andare a...]. Mi ricordo che ci hanno fatto buttare giù per terra perché sparavano, di là del Piave.
Ero insieme con la famiglia: mio padre, quattro fratelli, la mamma. Abbiamo preso il treno a Fener, l'ultimo treno che à passà. Mio padre doveva andare ... e quando eravamo al Canalét (dove è stato costretto a tornare indietro Matteo), hanno tirato anche al treno.

Matteo Dal Canton 
[Negli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale]è stato prelevato il maresciallo dei tedeschi comandante la guarnigione di Quero. È stato maltrattato dai paesani, partigiani. E il comandante guardava me - perché mi conosceva - ma io mi sono girato dall'altra parte perché se avessi dato segno di conoscerlo avrei avuto i miei guai con i partigiani... Ma sono morti tutti malamente, quelli che lo hanno trattato così.

Io facevo il carèr.   
(PS - La registrazione originale di questo breve brano è molto rovinata: 
non essendo riuscito a correggerla non l'ho unita al resto. 
Chi vuole può comunque richiederne l'ascolto separato)

Nastro 1994/23 - Lato A    2 giugno 1994
   
Sono nato il 15 maggio 1908. Il mio soprannome è Matìo Gamba.
[Nel novembre del 1917] mia mamma di notte ha fatto un sogno (mentre eravamo erano già andati con le vacche a Schievenin) ... che sarebbero accadute brutte cose.
Pochi mesi prima, fra l'altro, il prete - che evidentemente sapeva - aveva detto in chiesa...  Qua stavano facendo le trincee già un anno prima.
Mia mamma, dopo aver fatto questo sogno, ha detto a mio papà che venisse a prendermi in Schievenin, per scappare e andare in giù.
Noi si camminava ai fianchi della strada; c'era l'artiglieria che tirava e io credevo fosse il tuono.
A Schievenin la casetta l'avevamo presa in prestito da questo tipo che si chiamava Cagnin.
01:05:35 La classe di mio padre era il 1860; mia madre era del 1872 e si chiamava Gambalonga Vittoria. Si erano conosciuti quando mio padre era rimasto vedovo. Si era sposato quando aveva trent'anni passati e andava a lavorare sulla ferrovia Longarone - Calalzo. Là aveva incontrato queste ragazze che portavano il materiale dalla Piave per inghiaiare la ferrovia, con le gerle. Dopo essersi sposato è venuto a stare nella casa di suo padre. Con la prima moglie ha avuto una figlia. Poi la moglie è morta giovane, di parto. 
È rimasto vedovo un pochi di anni e dopo si è incontrato con mia mamma, dalla quale ha avuto un primo figlio, morto subito. Dopo, perché non si trovava molto con suo fratello, se n'è andato in America. Era il 1900 o il 1899, perché il figlio morto era del 1899 ... tanto che mia mamma diceva sempre: «Guarda, se quel figlio avesse vissuto ora sarebbe in guerra, e magari sarebbe anche morto.»
Mio padre è andato in California sulle miniere di carbone, e poi raccontava  che «era una montagna come qua la Monfenera». Andava dentro a pianterreno, lavorava a contratto, taglie da due metri ... ma non sempre, era a turni. Quando il carbone andava via [era richiesto] si lavorava da matti e poi stava magari due tre mesi fermo. Mio padre è riuscito a scamparla, perché c'era il pericolo di morire sotto, con le mine. Si è fatto quattro anni là, e in un primo tempo ha scritto a mia madre che andasse là anche lei. Ma poi è tornato qua e ha comprato [della terra] con i due soldi che si era risparmiato.
01:09:24 Ha avuto anche una brutta avventura, al ritorno. Per fortuna che sapeva che c'erano i ladri che aspettavano, qua e là negli sbarchi, e quando, dopo quaranta giorni di viaggio con un mercantile (per risparmiare) è sbarcato a Le Havre ... per fortuna i soldi li aveva "puntati" all'interno dei vestiti, al petto. Ha messo giù la valigia un attimo, e gliel'hanno rubata. Non aveva tanta roba, ma almeno da cambiarsi. È venuto a casa senza niente, così, con il fazzoletto da naso solo. C'erano i predoni anche allora, come adesso.
Mio padre ha avuto un primo figlio morto subito, poi una femmina Pierina (1904), e poi me, nel 1908. E quando sono nato io lui aveva 48 anni.

A Schievenin eravamo con un'altra famiglia e c'era un altro ragazzo, Bepi Mondin, della mia età e figlio di Vincenzo (Cencio).
Quando ero sul Canalét e mi hanno sparato addosso era di mattina, verso le 9-10. 
Carlo Curto, l'alpino mio cugino, è tornato indietro un attimo ma sapeva dove doveva andare con gli altri, sul Tomba. Avrebbe anche potuto scappare, ma dopo dove sarebbe andato? 
Ci sono stati di quelli che sono scappati e si sono fermati qua, ma poi andavano in mano ai tedeschi ed era ancora peggio. Ce ne sono stati [disertori] su per le montagne, sulle caverne, e sono morti da fame. Se andavano in mano ai tedeschi venivano mandati sui campi di concentramento... 
E poi passare la linea non sarebbe stato facile.
Qualcuno si era fermato di qua della linea, ma mio cugino ha voluto seguire il suo reparto. Mia mamma pensava sempre: «Che lo abbiano ammazzato?», perché seguitavano a sparare. Era una colonna, erano tutti sbandati questi militari, mica organizzati plotoni per plotoni. C'erano soldati, carrettoni ... c'erano tutti.
Io, dopo lo scoppio della granata, pensavo che dormissero quelli che erano per terra. Invece erano morti, e forse erano morti proprio a causa di quella granata. Erano per terra, un qua un là; «varda, i dorme co sta piova qua!»
01:14:58 Ricordo che i tedeschi sono arrivati a Schievenin il 15 novembre perché erano gli anziani a ricordare la data esatta ... mentre erano arrivati a Càrpen (ultima frazione di Quero) il giorno di San Martino, 11 novembre. Là i nostri hanno tenuto duro il fronte un pochi di giorni. Poi è stata sopraffatta la linea del Cornèla e i tedeschi sono venuti a Schievenin per andar su in Valderóa, l'ultima battaglia ... che sarebbe intitolata "la battaglia di Val Calcino".
01:15:47 Nella battaglia sul Cornèla sentivo gridare aiuto, feriti. Io non sapevo niente; dopo mi spiegavano i vecchi, i morti che c'erano stati. Però io sentivo tutto perché eravamo giù in basso e da là in su non saranno stati 500 metri. 
Era un costone di montagna che passa così. I todeschi i venìa vanti e gli italiani erano in difesa, ma erano pochi a confronto. Era sul mezzogiorno, fino alla sera scuro si sentiva sigàr [gridare]. Hanno detto quelli che erano su una frazione di Ciladon là sopra, e che erano arrivati prima ... hanno detto che erano tutti ubriachi. Tutti all'arma bianca, come in delirio. Li ubriacavano perché andassero avanti senza paura.
Gli italiani erano in meno, e demoralizzati. Avevano le artiglierie tedesche che erano in una zona chiamata il Pian del Vént e battevano la linea italiana, e sono stati sopraffatti. Una gran parte si è ritirata verso nord e una parte si son dati prigionieri. Ma dicevano (quelli che hanno visto) che i tedeschi non facevano prigionieri, erano tutti esaltati.
Un pochi di italiani si erano rifugiati dentro la chiesa di Quero, un pochi di sbandati, ma i tedeschi hanno aperto il lanciafiamme e li hanno bruciati tutti.
Comunque questa battaglia ha permesso di rafforzare le linee.
I più giovani erano poco esperti. Anch'io nella seconda guerra mi sono trovato con quelli del '21 e del '22 che venivano sempre dietro a me. Drio al vecio...
Erano tre i battaglioni italiani distrutti nella battaglia della Cornèla. È nominata... A Bassano c'è il monumento di Giardino e tutte le battaglie sono nominate, anche quella del Cornèla.
La piazzola che ho chiuso era sul terreno, non in cemento, e si vede ancora il segno delle trincee ... [su questo pianoro di fronte al Tomba e Monfenera, proprio in faccia alle postazioni tenute dagli italiani, in posizione sottostante e senza difesa. Si trova nella sua proprietà e ancora si nota il segno zigzagante della trincea].
01:20:56 Al ritorno, dopo la guerra, i nostri campi erano pieni di bombe, e se ne trovano anche adesso. Io ne ho ancora dei pezzi di granata; se si ara un po' in profondità ... ne ho trovate anche l'anno scorso, ne ho trovate di 149. Ormai se non hanno scoppiato restano neutre. La gelatina che è dentro se non si fa fuoco non scoppia.
Comunque subito dopo la guerra hanno mandato i militari artificieri a recuperare tutto. Gli artificieri facevano mucchi di munizioni qua e la; poi davano lo sgombero alla popolazione e facevano brillare le bombe. Facevano prima i segnali con quei razzi segnaletici che poi ho usato anch'io in guerra, e noi quando si vedeva quel razzo si doveva andare a nascondersi. Venivamo a nasconderci dietro la casa.
Nella battaglia di Val Calcino, mio padre era pieno di sangue per portare i feriti tedeschi. Mi par di vederlo, come fosse adesso.
Nach Venèding, Nach Venèding. Li ho sentiti tante volte anch'io i tedeschi che dicevano così, perché erano convinti di andare giù. 
Quando eravamo a Feltre, nella battaglia di giugno [del Solstizio], l'ultima in cui avevano anche sfondato il Piave, e la chiamavano "la grande offensiva" ... Nach Venèding, dicevano. E mio padre ha detto ad alcuni di loro: «Eh, Venèding, nain!» e loro gli hanno risposto male, arrabbiati e mio padre ha dovuto scappare.
01:24:55 In quell'occasione tutto il fronte era tuto un fogo e con mio padre sono andato in una località che si chiama La Culiada a Feltre, che va verso Fonzaso. Là si è di fronte la Valle di Seren e il Grappa. 
La Valle di Seren era quella che riforniva i tedeschi che andavano su per il Grappa, ed è stata la loro tomba. Si vedeva tutto fuoco, vruuum, vruum. Noi siamo andati a vedere ... Se i tedeschi fossero passati l'Italia era proprio kaputt.
Dopo, finita la offensiva, quelli che si erano salvati ritornavano tutti con la testa bassa e dicevano Austria kaputt. Avevano perso una strage di uomini, avevano avuto 400.000 prigionieri...
Io l'ho saputo dopo, da chi aveva combattuto, come si erano svolte le cose. Amici che stavano anche qua vicino di casa e che portavano munizioni. Uno in particolare andava in prima linea con cavallo e due granate sul basto: portarle su a metà del Monfenera, legarlo ai castagnèr e portarle ai francesi, alle artiglierie francesi. Era un certo Curto Celeste, del 1895.
C'è anche un articolo del Gazzettino sulla battaglia di Val Calcino, quando hanno ricordato il battaglione Feltre ... l'episodio di un capitano di Trieste e di un soldato di Sanzan, che pur con gradi differenti erano intimi amici.
Noi eravamo in Schievenin al pont de Cagnin. Quando tiravano le batterie, tut el gabiot in cui ci trovavamo tremava. 
01:30:10 Le batterie erano distanti dal ponte Cagnin solo due-trecento metri. Si sentiva proprio i colpi tun tum tem. Proprio fuoco accelerato. Saranno stati 4-5 cannoni non molto grossi, non saprei che calibro e uno è anche scoppiato e tutti i serventi sono morti. Io avevo sentito un colpo fuori della norma, e i più grandi hanno detto: «Se à s-ciopà un canon ... almanco i s-ciopéa tuti».
Quando si fermava il cannone i vecchi dicevano: «Adess i fa i morti», perché voleva dire che le truppe sarebbero andate all'assalto. E poi è successo anche a me, nella seconda guerra, sui Balcani.
La località esatta era Valderoa, dove hanno fatto la battaglia. Prima erano stati in Finespa [?], che è una piccola sella ... ma è là, tutto attaccato.
C'era una strada mulattiera che portava su, fatta dai tedeschi. La chiamano la Val de Fobba.
Mio padre lo abbiamo incontrato nel Pian de Andrea Mussa dove arrivavano i feriti (era la terra e la casa di questo contadino). C'erano viti, piante; non era molto alto, saranno stati sui 400 metri, ed era a circa un chilometro dal ponte di Cagnin.  Là al Pian de Andrea Mussa c'era terra agricola, piccole case, coltivavano patate, viti ... e là venivano convogliati i feriti per poi spedirli col carreggio ai vari ospedali. Mio padre è riuscito a scappare, era di sera. I tedeschi non potevano mica sorvegliare uno per uno.
[Nel dicembre 1917] quando siamo passati di notte per andare a Feltre, dietro Quero, a causa delle granate erano cadute le tegole sulla strada e le ruote, a camminarci sopra, facevano il rumore delle pignatte.

Nastro 1994/23 - Lato B      2 giugno 1994

01:35:40 [Natale 1917] Ad Anzù per andare a Feltre. Al mattino non abbiamo mangiato niente, non c'era niente e l'unica credenza che ci eravamo portati via - avevamo solo un sacchetto, non avevamo niente - ce l'ho ancora: era una cassa di munizioni tedesca, da 50 cartucce. Mio figlio voleva buttarla via; io l'ho voluta conservare perché per un anno era l'unico mobile che avevamo, a Feltre.
A Feltre c'era già la corrente elettrica, in città l'avevano tutti. A casa nostra, a Quero in campagna, l'ho tirata io nel 1945 e mi è anche costata parecchio. (Prima c'era solo in centro al paese).
Dopo la [prima] guerra siamo rimasti senza bestie [vacche e buoi] per due anni ... prendevamo qualcosa di sussidio dallo stato.
Per dormire, finché non sono arrivate anche mia mamma e mia sorella da Feltre, abbiamo dormito - io e mio papà - in una casa riparata alla meglio, insieme a tutti gli operai, distesi su un poche di stramaglie, qua in paese a Quero.
Dopo, mio papà è riuscito a trovare un tendone e - con due travi - ha recuperato una stanza nella nostra casa. Là siamo rimasti per tutto l'estate finché in autunno il Genio militare non ci ha preparato tutta la casa. 
Eravamo ritornati a Quero in primavera, non subito dopo la guerra. Era impossibile d'inverno stare a Quero, e siamo rimasti a Feltre.
Al padrone di casa a Feltre non è stato dato niente, da nessuno; ma si può dire che noi gli abbiamo salvato la roba, la mobilia, che altrimenti vi sarebbero entrati i militari tedeschi.
[Nella casa di Feltre, i proprietari] erano padroni ... e io ero umiliato. Venivo a casa tutto bagnato, dopo essere andato a raccogliere le legne e loro là, sulla portella [vicino al fuoco]. Va bene, ma lascia che mi scaldi, almeno. Mia mamma (per consolarmi) mi diceva: «Ringrazia Dio che ci tengono qua, bisogna che tu faccia silenzio, non lamentarti». E aveva anche ragione.
01:40:38 Il parroco di Quero era a Feltre, ospitato (di casa) nell' ospedale, e andava a trovare i suoi parrocchiani. Si è comportato bene. Si chiamava Innocente Ferrazzi, ed era dalla provincia di Vicenza.
[Per mangiare] andavo a pelare i "vidisòi" [Clematis vitalba] per le siepi ... quello che corre, si attorciglia sulle siepi, quelle puntine là. Sono buone anche adesso; tirare via quelle puntine e in insalata con un po' d'olio. Comunque è roba diversa dal "briscandol" [germoglio di luppolo - Humulus lupulus] che è più grosso. Ma è di quella famiglia, lo si mangiava sia mettendolo direttamente in bocca sia cucinato (lessato). Poi si andava a raccogliere radicchi, erba. C'erano delle erbe buone,  anche la "spagna", i cuoricini della spagna [erba medica - Medicago sativa] cotti con un poco di grasso, di margarina; si cucina e quando c'è fame! E le "téghe" [i bacelli] delle "càssie" [acacia - Robinia pseudoacacia] ... che fanno di quelle teghéte là, quando erano fresche; ma quelle venivano come acide, sempre dopo averle cotte e con un po' di sal negra [sale nero]. I avéa la sal negra, i todeschi, come quela che i ghe déa a le bestie.
Anche le zucche, "i suchét", noi andavamo a rubargliele. Io non ero uno di quelli che avevano tanto coraggio, ma c'erano di quelli ... e allora si stava di guardia, attenti ai padroni. Poi se ne facevano dei pezzi e li si mangiava come fossero anguria. Crudi, crudi. Anche "i sucàt" che si danno ai maiali, e la diarrea era assicurata. Allora mia mamma ci faceva il the, perché i tedeschi avevano tanto the.
01:44:38 I tedeschi avevano preparato degli orti per procurarsi la verdura. Avevano dei prigionieri italiani che lavoravano a questi ortaggi e poi venivano racchiusi con reticolati. [Erano] vicino a un fiume che passava, la chiamano la Sona, a Feltre. 
Noi si parlava con i soldati da qua a là e c'era sempre qualcheduno che facendo in modo di non farsi scoprire ci lanciava di qua dei reticolati o una carota o un ravo e noi li si mangiava, il primo che riusciva a prenderli. A volte ci si trovava anche in quattro cinque bambini, giù per queste grave e se per caso ci si sedeva in un sasso si prendeva una carga di pedoci perché i tedeschi andavano a lavarsi giù per questo fiume e perdevano i pidocchi. Quando si arrivava a sederci giù, si era pieni. E corri a casa... In fianco al letto avevo un lateral [comodino] e c'era un pettine. Mia mamma mi pettinava e mi piaceva vederli tutti a correre, e poi ammazzarli. Mia madre mi guardava e mi diceva: «Tu se pien de gènderle». Li sentivo nei capelli; gènderle sarebbero gli ovetti dei pidocchi.
Ma anche in Jugoslavia ne ho presi di pidocchi! Ci si levava la camicia e la si voltava...

01:47:20 Quando adesso vedo buttar via un pezzo di pane mi sento male. A pensare che l'ho perfino baciato, quando mi è capitato per la prima volta un pezzo di pane, e mi sembrava che non fosse neppure vero. Così quando lo vedo buttar via ... ma almeno dallo a una bestia che lo mangi! Non vederlo sui sacchi di immondizia. Io a quelli là gli farei passare un tirocinio ... che ne facessero poca di calda e allora di fredda non ne mangiano. Perché a me è toccata: di calda non ne facevano e allora di fredda non ne restava... [il riferimento è alla polenta].
Dopo la guerra sono ritornato a scuola e ho fatto la terza e poi la quarta. La scuola era su una baracca a Quero.

I nostri campi si chiamano "quarte" e sono di 870 metri quadrati. La nostra campagna, all'epoca, era di 15.000 metri, ma solo 10.000 erano arabili e 5000 erano di prato stabile. In più avevamo un pezzo di montagna per far legna.
Adesso il terreno l'ho più che raddoppiato e ho 35.000 metri quadrati. Anche in montagna ho altri 30.000 metri di bosco, o meglio, una volta era prato ma adesso non lo va più nessuno a tagliare e si è imboscato. Va bene per le legne e ci facciamo la legna per casa.
01:50:26 Mi sono sposato nel 1934 e ho conosciuto mia moglie perché era figlia di un cantoniere della ferrovia. È di Alano, e suo padre teneva un casello sulla ferrovia.
Ho avuto quattro figli: due femmine prima della guerra... 
E poi, fra una cosa l'altra, ho fatto dieci anni di militare.
La prima figlia è Pierina (a ricordo di una mia sorella morta); la seconda, a ricordo della mamma, Vittoria...
Sono stato richiamato per due anni dentro nei Balcani... 
Poi ho avuto un'altra figlia, Angiolina (a ricordo del nome Angelo di mio padre) e il quarto, quando io ormai avevo 42 anni e mia moglie 40 - a quattro anni dall'ultima figlia - ho avuto un figlio di nome Giovanni.
01:52:45 Il mestiere del legno
Ho sempre avuto passione. Ancora quando andavo a scuola, andavo sempre a vedere o ad aiutare chi lavorava sui carri, e anche da solo ho iniziato a farmi delle ruote piccole per il carrettino, quando avevo 10-11 anni. Poi  ho iniziato a fare la ruota di una carriola. 
C'era un mugnaio che veniva qua a portarci la farina che mi ha detto: «Potresti farmi due ruote anche per la mia carretta visto che hai fatto quella della carriola.»
Io gli ho risposto che non ne ero capace. Lui mi ha detto che sì, ero capace. Ha insistito e le ho fatte, però con un piccolo errore di cui lui non si è accorto. Le ruote infatti dovrebbero essere un po' inclinate, e io ne avevo fatta una più inclinata dell'altra. Ma gli sbagli bisogna lavorare per farli, e bisogna farli per accorgersene: dopo non ne ho fatti altri di quegli sbagli là e le ruote venivano tutte uguali.
Poi io ho fatto proprio una bella carrettina molto leggera, per me. C'era un fabbro che era stato ad imparare (ed ormai era un maestro) dove facevano i carri, e me l'ha inferrata.
Io per compenso, col recupero di tutto il materiale che avevano lasciato qua i tedeschi - qua avevano lasciato carrette, barelle, carretti, ... un desìo par tut... tutta roba che serviva per trainare con i muli il materiale - io l'ho aiutato a sistemare questi carri.
Con questa carrettina andavo a prendere la legna. Ma aveva quattro ruote e mio padre diceva che con quattro ruote si faceva troppa fatica. Allora ho venduto la carrettina e ne ho fatta una grande per poter prendere un musso. Mio padre però non era amante dei cavalli o mussi e neppure io per la verità. Così si è andati sempre avanti col carretto a due ruote, a mano. Solo più tardi si è iniziato ad attaccarvi sotto le bestie.
Tutti carri fatti da me, anche il carro che utilizza adesso mio figlio.
Lavoravo anche per gli altri, anche a fare tine e botti. Solo in tarda età ho iniziato a fare qualche lavoretto artistico di intaglio, sedie tutte lavorate... Con i soldi guadagnati mi sono comprato le macchine e mi son fatto anche il salotto di casa,  tutto in noce. [...]
Ma ci vuole tempo a fare questo lavoro. Settimane, non ore. Devo avere una settimana senza pensare ad altro, allora si fa il lavoro.

01:59:17 Sui Balcani [Seconda guerra mondiale] ero di presidio con la milizia territoriale. Sono partito da Fiume e poi sono andato a Zagabria e verso il Kossovo. C'erano i treni che portavano il materiale che andava verso la Russia, e noi li dovevamo scortare. Treni blindati. Noi facevamo servizio con i carabinieri.
C'era della gente italiana che "portava via" della roba per darla alle femmine del posto, perché anche là le donne, per prendere qualcosa, andavano con questi soldati. Capitava che i nostri venissero presi in casa dai fratelli o dai mariti e venivano ammazzati. 
02:01:05 Allora i nostri bruciavano questi paesetti. Erano paesetti come i nostri qua nelle vallate. I nostri bruciavano le case per rappresaglia, come hanno fatto i tedeschi a Schievenin - giusto 50 anni fa, adesso che andiamo a settembre - perché c'erano i partigiani che avevano nascosto munizioni sotto i barchi del fieno e i tedeschi le hanno trovate e hanno bruciato tutto. 
Gli italiani in Jugoslavia facevano lo stesso, assieme ai tedeschi. Noi eravamo con le armi leggere e i tedeschi erano con i carri armati.
Noi soldati parlavamo con gli slavi e gli dicevamo guardate che noi non siamo mica venuti qua volontari, siamo in guerra. Ce n'erano di quelli che ragionavano, ma in mezzo ce n'erano di quelli...
Il partigianismo, com'è venuto fuori anche qua, mette a scompiglio la popolazione. Anche noi ... i todeschi i me rispetéa, non ci facevano niente. La provincia di Belluno era annessa alla Germania. Ci facevano avere tutto quello che ci occorreva con la tessera. 
Però i partigiani erano contro i tedeschi. C'è il pro e il contro, come c'è sempre...
La guerra, quando avevo trent'anni, in qualche modo mi difendevo e sapevo cosa facevo, mentre prima [da bambino] ero bersaglio.
02:03:45 Anche qua con i partigiani. C'erano i todeschi che erano buona gente, il comandante della gendarmeria ... c'era il presidio a Quero. Il capo, era intimo amico con me, mi aveva in simpatia e quando mi trovava...
Io a volte mi "schivavo" di andare in paese, perché quando mi vedeva gli piaceva bere la birra con la sgnàpa dentro. Poi veniva a trovarmi ... ma  ero tenuto d'occhi dai partigiani. Avevo paura che dopo loro credessero che io collaboravo con i tedeschi. Dovevo stare in guardia, e ai partigiani mi toccava dargli una damigiana di vino, o un sacchetto di farina di nascosto, o una gallina o un pezzo di formaggio. Ne avevamo bisogno noi perché si portava il latte alla latteria e il formaggio... Tutto "per starci".
Questo tedesco era un buonissimo uomo, che ha salvato il paese, perché avevano fatto delle marachelle (i partigiani). Lui è andato a parlare con quelli delle SS che erano venuti a Quero a controllare e gli ha detto che il paese di Quero ce l'aveva lui sotto controllo, so io che gente che è; insomma gli ha detto che non erano stati i paesani. Invece erano proprio da qua, quelli che avevano fatto questi scherzi.
Il comandante negli ultimi giorni non era scappato, con la baraonda. Si era rifugiato dentro dal custode del monumento germanico. La custode era tedesca e aveva sposato un italiano; aveva fatto il concorso quando era stato aperto questo monumento. È stato inaugurato nel 1938 ed è venuto un plotone di soldati tedeschi hitleriani, proprio del partito. Mi ricordo che è stata fatta una festa...
Il comandante, questo maresciallo, si è rifugiato in casa del custode, ma si vede che i partigiani sono andati a prelevarlo. Gli hanno fatto dei dispetti, gli hanno dato botte, e pedate, e gli hanno sputato addosso. Era da ammazzarli, quelli.
Così, quando sono arrivati gli americani, è stato per un caso che non mi sono trovato sotto una scarica di mitragliatrice americana. Perché sentivo gridare giù di là, e avevo visto passare i tedeschi con i mitragliatori. 
E noi qua, nascosti.

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