sabato 4 settembre 2010

Produzione del Parmigiano Reggiano a Magreta di Formigine MO nel 1918-19



Testimonianza di Angelo De Ruos, profugo del Montello nato nel 1903 a Sovilla di Nervesa TV. Questo brano fa parte di una più ampia intervista effettuata da Camillo Pavan nel corso delle sue ricerche sull'ultimo anno della prima guerra mondiale.

Nastro 1994/7 - Lato B                                          28 aprile 1994
                   
A Magreta eravamo vicino al canale che si chiamava La Secchia.
Vicino alla canonica c'era una famiglia di contadini che si chiamava Fèri [Ferri]; buona gente, buona gente...
Sono andato a lavorare nella latteria di Remigio Bertocca, e dormivo là, in una cameretta che c'era sopra. Eravamo in due servitori: l'altro andava a casa sua, aveva la moglie in paese. Io, invece, il padrone voleva che rimanessi là, pur essendo vicino alla vecchia canonica abbandonata dove c'era il resto della famiglia.
Dovevo dare da mangiare ai 2-300 maiali che il padrone allevava (aveva anche 2-3 scrofe). Lavoravo assieme a una ragazza del posto che si chiamava Angelina, una ragazza grande che avrà avuto 30 anni.
Dovevo dare da mangiare ai maiali e fare il formaggio.
L'altro servitore aveva invece il compito di preparare i cavalli per il mercato. Andava sempre assieme al padrone, ai mercati.
Da dentro il capannone in cui erano tenuti, dovevo portar fuori in un recinto un gruppo i maiali alla volta per far la pulizia. Questo al pomeriggio; al mattino invece facevamo il formaggio.
Ai maiali davamo da mangiare a seconda della loro qualità. 
A quelli piccoli si dava lo scolo e i semolèi. A quelli più grossi un po' di farina e semolèi, e a quelli più grossi di tutti si dava farina sbollentata. Quando i maiali pesavano sui due quintali erano venduti all'esercito.
La farina veniva broàa [scottata] con l'acqua bollente, non bollita. Si buttava l'acqua bollente dentro il recipiente della farina di granoturco: era farina da polenta, vera farina da polenta, sempre gialla.
I semolèi erano di frumento: semola e semolèi [crusca e cruschello]. Niente mangime.
I maiali non li ammazzavamo noi, ma li davamo a un capitano che veniva a prelevare quelli che gli servivano con un carretto trainato da 4 cavalli, assieme a sei sette soldati.
Alla domenica andavo a messa e passavo per casa, ma a mangiare tornavo sempre dal padrone. Si mangiava bene: formaggio grana fin che si voleva.
C'era lo scantinato pieno di scaffalature di formaggio ed era nostro compito pulirlo, ogni giorno.
Finito di accudire i maiali si andava nello scantinato a pulire il formaggio.
Avevamo un bruschìn [spazzola] per pulire quella "polverina" che si formava. Solo pulire; sulla crosta niente olio o altra roba.
Ogni giorno, ad ogni forma di formaggio di 40-45 kg che si produceva, si doveva applicare la data.
All'epoca non c'erano le presse per fare uscire lo scolo dal formaggio, ma si metteva - sopra una tavola di legno che era a contatto con il formaggio - un sasso grosso che ci volevano due persone per alzarlo.
La data si otteneva con dei pezzetti di legno che venivano sistemati all'interno dello "scatolo" in legno che rivestiva la forma.
Il capitano controllava sempre le date. Niente contrabbando o vendita ai privati: tutto per l'esercito.
Si mangiava bene ... pane, pastasciutta. Ma la padrona era sempre ammalata e mi stupisco di ricordarmi ancora che aveva una macchinetta che - siccome non riusciva a digerire bene - le tirava fuori il mangiare in eccesso.
Come si faceva il formaggio grana
Avevamo una calièra [caldaia, paiolo] di rame fatta a campana, precisa identica a una campana. La si scaldava sotto con il fuoco a legna e si metteva il dito nel latte per sentire se aveva raggiunto la temperatura giusta, altrimenti si continuava a scaldare.
Poi si metteva dentro il conàio [caglio]: un liquido, una boccetta. Era il padrone incaricato a questa operazione; il mio compito era di mischiare, rigirare il latte con un bastone.
Lavoravamo io e la ragazza e si faceva una forma al giorno.
Il padrone aveva due latterie, ma solo in una si produceva il formaggio.
L'altro servitore attaccava i cavalli e andava a prendere il latte nell'altra latteria e alla sera c'erano tutte queste bacinelle. Alla mattina io passavo con la cazzuola e raccoglievo da ogni bacinella la panna, che mettevo in un secchio e dopo la versavo in un caretèl [botticella] di legno con due manici.
Intanto che si scaldava il latte e si preparava il formaggio noi continuavamo a rigirare la botticella finché si otteneva il butiro [burro].
Con il latte senza panna si procedeva a preparare il formaggio. Non c'era scrematrice, non c'erano macchine: tutto a mano.
Ogni giorno una forma di 40-45 kg.
La calièra avrà avuto una capacità di circa 3-4 ettolitri.
Quando il figlio del padrone, che era prete, veniva a casa a mangiare alla domenica raccontava tutto orgoglioso: «Papà ho fatto la predica in tal paese» ... e si metteva a predicare, appena finito di mangiare.

venerdì 3 settembre 2010

Angelo De Ruos, Sovilla di Nervesa del Montello TV

Nato il 29 luglio 1903

Nastro 1994/7 - Lato A                                       28 aprile 1994

[...] Sono nato a Sovilla, vicino alla casa dove abito adesso e che ho costruito nel 1950.
Sono figlio di Luigi (Jijo), nato 19 marzo 1867 e morto a 98 anni: faceva il contadino, ma è stato anche due anni in America.
Mia mamma si chiamava Pavan Teresa, era nata in Brasile ed è morta a 74 anni.
I miei genitori erano tornati in Italia e con i risparmi si erano costruiti la casetta, ma è venuto il ciclone del... [non ricorda l'anno], che ha spianato la casetta. In quell'occasione mio nonno è morto, mia mamma è rimasta ferita e l'hanno ricoverata in ospedale a Conegliano.
Mio papà si è maritato due volte. La prima con una di Colfosco, che poi è morta e da cui ha avuto un figlio.
Io sono il più giovane di sei maschi, e poi mi dicono che sono vecchio!
Ora i miei fratelli sono quasi tutti morti. Siamo rimasti in tre, di nove che eravamo.
Nome dei fratelli: Giovanni 1889, Pietro 1897, Agostino 1893, Toni 1899, Vittorio 1901, Angelo 1903. Nome delle sorelle: Oliva 1908, Maria 1910 e Regina che è morta e di cui non ricordo la data di nascita
*
Della guerra ricordo che i sparava là a Calfosco.
Perché il Montello viene tagliato dal Piave e un pezzo si trova di là del Piave, a Calfosco appunto.
*
A un certo punto arriva el marescial a dire: «Via, andate via da qua!»
Allora siamo andati a Volpago e anche là a un certo punto è arrivato un maresciallo dei carabinieri a mandarci via. Siamo andati a Signoressa a prendere il treno. Si doveva partire per la Bassa Italia, ma il treno per vari motivi non è passato.
Da casa siamo partiti insieme a un'altra famiglia, e ci siamo portati via un maiale appena ammazzato, che perdeva il sangue per la strada.
Eravamo sul Montello, si aveva fatto un buco sulla costa del Montello, una specie di trincea, per essere protetti dalle schegge delle granate.
Mio padre invece era rimasto quaggiù a Sovilla, perché la nostra famiglia aveva due case, una qua in campagna a Sovilla "alla Crosèra" [...] e un'altra all'Abbazia del Montello, dietro l'Abbazia.
Mio fratello Giovanni del 1899 era in guerra; era stato fatto prigioniero sugli altipiani di Asiago e portato a Mathausen [Mauthausen]. Era sergente maggiore e si è fatto quattro anni di prigionia. Gli mandavamo pacchi di pane che prima biscottavamo per bene. Malgrado questo ci ha detto che riceveva il pane con la muffa. Noi avevamo il forno per fare il pane.
Il maiale lo abbiamo portato via con la testa che penzolava fuori dal carro. Era un carro "co e lame", cioè con le ruote in legno cerchiate in ferro.
Quando ci hanno obbligato a partire ci siamo detti: aóra ndón via col porsèl. Era un bel maiale da un quintale e mezzo, uno e ottanta.
Abbiamo caricato un po' di farina per la polenta, coperte e lenzuola e - attaccato al carro un pèr de vache – ci siamo diretti a Selva, da una famiglia di contadini dove "abbiamo fatto su el porsel" [abbiamo fatto i salami, ecc.]. 
[A Selva del Montello] eravamo ospitati da una famiglia molto povera, i Trevisi. La padrona di casa portava la carne sui piatti con le mani, perché non aveva nessuna posata. Si mangiava in stalla.
Quando siamo scappati dal Montello eravamo una decina di persone: il nonno Jiji, la nonna, io, due sorelle. Mio padre e mia madre erano rimasti nella vecchia casa di Sovilla, anche perché là avevamo la caneva piena di vino [...].
Avevamo vino fràmbol (fragolino), borgogna, crinto. Il frambol era ottenuto dall'uva americana, il borgogna era un vino buono, da bottiglia.
La stalla di Sovilla era piena di bestie (8-10) e mio padre ha dovuto portare i buoi "al governo", a Selva, dove c'era un centro di raccolta di bestiame e maiali, vicino al capitello, su per quella stradella là.
Poi mio padre è venuto a trovarci a Volpago, dai Santinoni. 
Siamo rimasti a Volpago circa un mese finché è venuto un maresciallo dei carabinieri a mandarci via. Ci hanno portato a Signoressa per prendere il treno per la Bassa Italia, ma il treno non è passato, allora mio padre alla mattina dopo ci ha portati a Faldè Campagna [Falzè di Trevignano] dove ha trovato una famiglia che ci ha ospitato in stalla. Era la famiglia dei Frassettoni, vicino al municipio del comune di Trevignano che si trovava appunto a Falzè di Campagna.
A Falzè siamo rimasti per circa tre mesi e dopo il maresciallo ci ha mandati via; bisognava che andassimo in Bassa Italia. 
Ma mio padre ha detto: «No, vado via per conto mio» e così siamo andati a prendere il treno a Castelfranco, con i camion dei soldati, con i sacchi della roba e le donne e tutti.
A Castelfranco è passata una tradotta e siamo saliti in un vagone bestiame.[...]
Siamo arrivati fino a Magreta di Modena e ci hanno messo in una vecchia canonica abbandonata, vicino a una chiesa. Là siamo rimasti fino alla fine della guerra. Siamo ritornati nel 1919.
A Magreta, io dapprima sono andato da un meccanico ad aiutarlo a riparare biciclette, ma non prendevo niente. Poi ho trovato lavoro in una latteria dove mi son trovato benon.
Avevano un allevamento di maiali e io li governavo; poi aiutavo a fare il formaggio.
C'erano due fratelli in quella latteria: uno era prete e uno era soldado; si chiamavano Bertocca. Il padrone era Remigio, e faceva sempre i mercati. Commerciava e vendeva anche i pioppi, e aveva due fittavoli.
Stavo bene là, tanto che il padrone ha proposto a mio padre di restare là, ma mio padre non ha voluto.
Pur parlando il dialetto trevisano mi capivo con i modenesi.
Mio fratello Vittorio e mio padre lavoravano il pioppeto e un frutteto, e anche l'orto e tutte le sere erano pagati. Io invece ero pagato ogni quindici giorni.
*
Quando siamo venuti a casa ci hanno sistemato su due baracche piccole. 
Era primavera e abbiamo trovato la terra piena di topi, tanto che il comune ci ha passato il veleno per metterlo nei campi e farli morire.
Ma anche lièvori [lepri] ce n'erano molti e si andava a caccia con il fucile: c'erano fucili dappertutto, per terra, buttati là. Noi - in tre quattro ragazzi - andavamo a caccia con un fucile da guerra ciascuno; robe pericolose!
C'erano ancora bombe dappertutto.
Un giorno siamo andati ad arare in uno dei quindici campi che avevamo [...] e arando è venuta su una scarpa. Abbiamo fermato le bestie; abbiamo guardato sotto e c'era un morto, seppellito superficialmente. Abbiamo avvertito i carabinieri che sono venuti a prenderlo e l'hanno portato all'ossario senza poterlo riconoscere.
Avevamo trovato la scarpa col vassór [varsor = aratro a versoio, aratro comune (Emanuele Bellò)] che era tenuto da mio fratello Toni, mentre io "paravo via" [conducevo] le bestie, davanti, assieme a Vittorio. Oltre alla scarpa, del soldato erano rimasti tutti ossi e da quella volta il campo si è chiamato "il letto del morto".
Sulla Crosèra, in una buca ne abbiamo trovati altri sette-otto di soldati seppelliti. 
Erano in una buca di granata, sulla terra della famiglia di Aurelio Coletti, vicino alla nostra campagna e alla nostra casa vecchia, in località Crosèra (il posto era segnalato da una croce).
Nella nostra terra c'erano reticolati, schegge, bombe, trincee, e sotto là ... in una siepe di arnère (ontani), avevano messo una fila di cannoni che sparavano oltre il Piave. Bossoli ce n'erano a volontà, tanto che io ne ho lavorato più d'uno, facendo i puntini con un punteruolo.
Ora vivo da solo; mia moglie è morta da 6-7 anni.
Per lavorare il bossolo bisognava prima ri-cuocerlo [l'ò ricòto] con la forgia [a fusìna] e poi per fare le coste in basso ho messo uno scalpello di ferro. Il colore che ha è perché era di ottone; tutti i bossoli delle granate erano d'ottone.
*
A Magreta stavo bene, ma mio padre ha voluto venir casa perché aveva 15 campi suoi.
Nervesa al ritorno era tutta a terra, tutta "pestata su". Anche Sovilla: tutta in terra.

Nastro 1994/7- Lato B

La chiesa di Sovilla era a terra, il campanile in piedi ma rotto.
A Nervesa – San Nicolò era sulla piazza di sopra e poi è stato rifatto di qua nel terreno del comune – la chiesa di San Nicolò era tutta buttata per terra e l'hanno ricostruita quaggiù vicino al municipio. 
A obbligarci a partire dal bosco del Montello dove avevamo preparato un ricovero è stato un maresciallo dei carabinieri. Ormai avevano iniziato a sparare in pieno, perché là eravamo vicini all'Abbazia.
Dapprima ci siamo spostati in un'altra casa vicina, da Ciri . [...]
Sul Montello avevamo scavato questa trincea e vi eravamo rimasti per circa 15 giorni, dormendo dentro. Non si voleva venire via, abbandonare la casa che era di nostra proprietà, a differenza di quella a Sovilla che invece era in affitto. Sul Montello avevamo sei campi e mezzo [ca. 35000 mq], quello che era spettato alla nostra famiglia in seguito alla divisione del Montello [Lg. 21.2.1892, n. 57 che dichiara alienabile il bosco demaniale inalienabile del Montello, conosciuta come "Legge Bertolini"].
I miei avevano levato il bosco e dove si poteva lavorare avevano piantato viti, pannocchie, ecc. 
Se pioveva si otteneva il raccolto, altrimenti niente.
*
Dopo la guerra sono ritornato a lavorare la terra per un po', poi ho girato il mondo. Dopo il soldado sono andato a lavorare allo stabilimento Breda di Milano, dal 1926 al 1933. Lavoravo sulle carrozze della ferrovia. Facevo il "ribattitore", perché all'epoca non c'erano le saldatrici, era tutto imbrocà. I tecnici facevano il disegno e noi si faceva la carrozza. Si lavorava per le Compagnie internazionali, carrozze che andavano anche all'estero.
Il militare l'avevo fatto alla scuola centrale del Genio a Civitavecchia.
Dopo la Breda di Milano ho lavorato sotto Puricelli a Postumia e poi ho lavorato a Castelfranco Veneto, alla Fervet. Per andare a Castèo i primi giorni usavo la bicicletta ma dopo ho fatto l'abbonamento alla ferrovia. Prendevo il treno a Nervesa - che veniva da Conegliano - e a Montebelluna prendevo la coincidenza con quello che veniva da Calalzo e andava a Padova. Scendevo a Castelfranco.
Dopo aver lavorato alla Fervet sono tornato a casa, sulla terra.
Mi sono sposato nel 1932 con Anna Maria Dal Pin che era stata a servire a Bergamo. Quando ero a Milano andavo varie volte a trovarla a Bergamo, ma io l'avevo conosciuta qua in paese. Lei andava a past co i piot [portava al pascolo i tacchini] e io andavo a past con le vache giù per le stradine vecchie. Si era ragazzini allora. 
Il proverbio dice che l'amor no ciapa rusine. Ha ragione. Mi sono affezionato a questa ragazza e l'ho sposata.
Avrei quattro figli, ma il primo mi è morto, a 16 mesi porcamadone! È morto perché il dottore ha detto che aveva l'angina, invece aveva la scarlattina. Me l'ha fatto portare a Montebelluna; è rimasto 24 ore a Montebelluna e il sangue gli è andato per dentro e me l'hanno portato a casa morto.
Quando mi sono sposato lavoravo a Milano.
Gli altri figli: uno lavorava a costruire rimorchi per la ditta Franchin, che ora ha fallito; adesso va lavorare in un'altra ditta.
Anche l'altro figlio fa l'operaio. Inoltre ho una figlia [...].
Con la pensione che ho non ce la faccio a starci dietro. [...] Ho 7 campi e mezzo di terra qua in campagna, in più ho bosco sul Montello. Potrei averne molta di più, di terra, ma mia moglie non voleva, tanto che ho comprato due campi di terra senza che lei lo sapesse. [...]
Mia nuora mi fa da magiare bene: a mezzogiorno pastasciutta con la carne dentro. Alla sera minestra. Alla mattina caffelatte, ma mi arrangio io. E ancora lavoro!
Alla domenica vado a giocare a carte, qua all'osteria "Da Mignot" a Sovilla, da Fabio.


A chi mi domanda cosa mangio gli rispondo: «Sono sotto la cura di un professore che viene da Padova, ha l'ambulatorio in una famiglia di contadini di Camalò e mi ha ordinato alla mattina quattro fette di soppressa, do ciòpe de pan e un botiglion de vin; a mezzogiorno mezzo chilo di pastasciutta e due bistecche e sempre un botiglion de vin

Una volta fumavo adesso no.
Nei nostri campi si coltivava anche tabacco. 
Io e mio fratello, con il circolo agrario avevamo due trattori. Ho la patente del trattore dal 1926.
In osteria a giocare a carte vado sempre in motorino, un Piaggio. Prima avevo i Guzzi, avrei però dovuto portare il casco ma mi sono rifiutato e ho comprato un 48, un Bravo della Piaggio. La Guzzi aveva un 83 di cilindrata: era il Galletto.
In osteria gioco a tressette o a scopa, a seconda di chi trovo. Vado verso le due del pomeriggio di ogni domenica, in osteria, e se manco i miei compagni di gioco poi mi chiedono «dove sei stato?»

mercoledì 1 settembre 2010

Intervista a Francesco Daniel, Ponte di Piave TV

Nato il 27 novembre 1905  

Nastro 1993/03 - Lato A                           Lunedì 23 agosto 1993
         
In famiglia all'epoca della prima guerra eravamo in dieci. Mio padre si chiamava Daniel Luigi, era del 1879, portava il pizzo e aveva la barba, tanto che lo chiamavano Mosca Daniel. Mia madre si chiamava Nespolo Maria, ed era del 1885. Inoltre c'erano sette figli, due maschi e cinque femmine. Il più vecchio ero io, poi Agostino. Le sorelle si chiamavano Virginia, Palmira, Antonietta, Isetta e Italia, e tre di loro sono ancora vive.
Dopo la guerra sono nati altri fratelli e sorelle: complessivamente eravamo otto sorelle e quattro fratelli. [...]
Lavoravamo 15 campi di terra in proprietà. Che io sappia eravamo in proprietà da sempre. La casa era la stessa in cui ci troviamo per l'intervista e prima della guerra aveva solo due piani.
Si coltivava soprattutto uva e pannocchie, e un po' di frumento. La vigna era già tirata a Bellussi, ne sono certo, perché ho estirpato io la vigna una ventina d'anni fa.
In pratica avevamo metà azienda riservata al vigneto e metà a cereali e foraggio. In stalla avevamo solo quattro vacche e una cavalla. C'erano poche bestie nelle stalle, all'epoca; solo più tardi abbiamo comprato dei buoi. A quei tempi era così.
Il vino era principalmente raboso (il nero) e riesling (il bianco).
Le pannocchie erano bianche e gialle in sorte.
Le viti erano sostenute da opi [aceri campestri] e gelsi, in modo che si recuperava la foglia dei gelsi per i cavalieri e i rametti degli opi venivano utilizzati come scaràsse [sostegni] che si mettevano nel vigneto stesso e permettevano alle viti di espandere i tralci.
Avevamo anche dei boschi, verso il Piave (al cao de là): c'era arneràra (arnère = ontani) e pioppi, talponi che erano nati spontaneamente. Si trattava di un bosco spontaneo del quale si utilizzava legname al bisogno e un po' di legna la vendevamo. Il bosco in parte era di nostra proprietà e in parte era del demanio.
A causa della guerra sono andato a scuola solamente fino alla seconda elementare, perché nelle scuole elementari di Ponte di Piave si era stabilito un ospedale militare italiano fin dall'inizio della guerra.
A scuola avevo ripetuto sia la prima che la seconda, per quello nel 1915 avevo finito appena la seconda. Molto è stato anche a causa di una maestra che era severa. Si chiamava Nice Zambon (a maestra Zambon) e abitava a Negrisia. Era sorella dell'avvocato, ed era da sposare. Più che severa era cattiva: "spaccava la testa ai ragazzi", botte con la bacchetta.
Era una maestra tremenda, anche troppo, tanto che un ragazzo - che abitava qua in una casa sotto Negrisia ed era un po' duro da capire - una volta che la maestra lo aveva picchiato, si è ribellato e le ha infilato el canòto con il pennino nel sedere. Dopo è scappato e da quella volta non è più andato a scuola. Si chiamava Angelo Davanzo, ed era della classe 1896.
Da parte mia, una volta chiusa la scuola e iniziata la guerra, sono rimasto a casa a lavorare, anche perché mio padre era andato in guerra ed era rimasto ferito (mentre due fratelli di mio padre erano morti).
Mio padre era rimasto ferito a una gamba. Aveva preso come una grossa botta, che pur non avendogli fatto perdere l'uso della gamba lo costringeva a zoppicare. Era rimasto in ospedale ed era venuto a casa in convalescenza [nel 1917] un giorno prima che facessero saltare i ponti.
Appena mio padre era tornato, io e un mio cugino abbiamo scavato una trincea a fianco della casa per poter andarsi a riparare. Eravamo in 25 persone che vi si rifugiavano.
Non eravamo scappati perché degli ufficiali italiani che erano passati da quelle parti ci avevano rassicurato, dicendoci di non scappare, perché tanto sarebbe stata una cosa "di passaggio".
Nella trincea venivano a rifugiarsi anche abitanti delle case vicine, come altri Daniel (della famiglia di Luigi, che però era militare) e anche della famiglia Sartor (due ragazze e il padre). La trincea ci dava un po' di sicurezza nel caso ci fosse stata qualche sparatoria. Ma la cosa è diventata presto ben più grossa.
Siamo rimasti nella trincea tre giorni e tre notti. Solo per far da mangiare mia madre e mio padre uscivano un pochino.
La trincea era una buca scavata nel terreno e ricoperta da grossi tronchi di acacia, sopra i quali erano disposte delle zolle di terra. Vi si accedeva attraverso una piccola rampa.
A un certo punto è arrivata una granata giusto sopra la nostra casa e le pannocchie che erano nel granaio si sono sparpagliate tutt'attorno. Avevamo il maiale che pesava ormai due quintali, ed è stato colpito da una scheggia e sventrato.
Quando abbiamo visto questa cosa, dentro a casa non ci siamo più andati e siamo scappati direttamente, dirigendoci alla volta di Negrisia, perché dalla parte di Ponte di Piave c'erano i cannoni italiani che - sistemati a Saletto e a San Bortolo - sparavano in direzione del ponte. Anche perché inizialmente i tedeschi erano passati oltre il Piave, a Ponte, ed erano arrivati fino a San Biagio di Callalta. Da San Biagio però sono ritornati indietro, perché hanno avuto l'impressione di essersi spinti troppo avanti e avevano paura di rimanere circondati.
La bomba che ha colpito la nostra casa e ci ha conviti a partire è arrivata dopo che avevamo trascorso tre notti nella trincea. Era di mattina, verso le otto e mezza-nove.
In trincea dormivamo su della paglia stesa per terra. I bisogni andavamo a farli fuori, se proprio era necessario. Ma si andava poco, anche perché si mangiava poco, perché si aveva paura.
Quando siamo scappati io mi son preso sotto il braccio destro mio padre, e sotto quello sinistro mia nonna (Elena Dalla Torre, di anni 75). E sulle spalle avevo anche la penultima delle mie sorelle, la Isetta. La bambina più piccola invece era in braccio a mia madre.
Quando siamo scappati abbiamo camminato ai piedi dell'argine, per via delle pallottole che fischiavano. Eravamo in gruppo, con i ragazzini più piccoli che a volte andavano più avanti.
Non avevamo preso niente dalla casa.
Appena scoppiata la bomba siamo scappati. Il maiale è rimasto là, agonizzante. Le mucche sono rimaste in stalla dove da tre giorni non mangiavano ed erano là che si lamentavano perché non avevamo coraggio di andare fuori a dargli da mangiare, con tutte le pallottole che fischiavano.
Siamo scappati come ci trovavamo, scalzi. Non abbiamo fatto in tempo di prendere su niente, tanta era la paura per le granate che fischiavano, ed erano tante. Non abbiamo preso su neanche i soldi. Mio padre li ha lasciati là. Aveva poca roba per la verità, ma li ha nascosti sotto terra, per paura che i tedeschi li trovassero. E poi, al ritorno li ha ritrovati dove li aveva nascosti, dentro in casa, in una delle stanze che non avevano il pavimento ma solo la terra.
Il giorno in cui hanno fatto saltare i ponti era di venerdì [9 novembre 1917] e noi siamo partiti alla volta del mercoledì o giovedì successivo. Infatti hanno iniziato a sparare un paio di giorni dopo aver fatto saltare i ponti.
Siamo scappati da casa prima che arrivassero i tedeschi. Per fortuna non pioveva e ci siamo incamminati lungo la stradina che portava all'argine, fiancheggiata da una siepe di acacie su entrambi i lati.
Abbiamo camminato ai piedi dell'argine fino all'altezza dell'osteria Da Violina. Qua siamo saliti sulla strada - perché ormai non sparavano più – e abbiamo proseguito fino a Roncadelle. Poi siamo passati per Ormelle, Tempio, Lutrano, Camin giungendo a Mansuè, dove abitava la famiglia di mia madre (Nespolo Domenico era il capofamiglia).
Mentre noi stavamo scappando eravamo gli unici perché le famiglie che abitavano fuori dell'argine erano già scappate. Noi invece, qua dentro, eravamo rimasti gli ultimi a partire. Qualcuno della nostra trincea ha voluto rimanere ancora là, ma alla sera quando sono arrivati i tedeschi è stato portato a Oderzo. [...]
Lungo la strada non abbiamo trovato nessuno che scappava. Invece abbiamo incontrato quelli che erano scappati prima di noi. Li abbiamo trovati a Lutrano. Ma fino a Lutrano non abbiamo trovato nessuno, neppure soldati tedeschi che avanzavano.
A Mansuè siamo rimasti fino ad aprile, quando i tedeschi ci hanno dato l'ordine alla sera di trovarsi alla mattina successiva tutti in piazza. Là ci hanno caricati sui camion e portati ad Annone Veneto. Ad Annone c'era un treno che ci ha portati fino a Cividale. A Cividale abbiamo cambiato treno, salendo su un trenino che fino a S. Pietro di Natisone, più precisamente a Vernasso, dove ci hanno sistemati in case lasciate vuote da abitanti del luogo che erano invece scappati dopo Caporetto per andare in Italia.
Come razione alimentare i tedeschi ci fornivano 150 grammi al giorno, a testa, di "farinaccia" di cui non saprei dire la consistenza, perché non era farina da polenta, era farinass e la si cucinava in qualche maniera con l'acqua, senza sale né niente per insaporirla.
Si andava da questi slavi, perché Vernasso era il primo paese di slavi, a chiedere qualcosa da mangiare e loro non ci davano niente. Avevano patate ma non davano niente, perché se le tenevano per loro. Erano ingordi. Le avevano, ma le tenevano per loro. Perché se si andava nei paesi più indietro (non slavi), si trovava qualcosa da mangiare; ma bisognava camminare tanto.
Certo, noi soldi per pagare non ne avevano.
Si andava anche in imosinon (a elemosinare) ma nessuno ci dava niente. 
Andavo anche a lavorare, ad aiutare quegli slavi là. Ce n'era uno che mangiava un pollo alla sera e mi diceva: «Tu mangia la polenta sola, che io sono stanco questa sera, a te la darò domani la carne.» Lui mangiava il pollo e io mangiavo la polenta pura, e per forza di cose dovevo farmela bastare.
Abbiamo iniziato a cavarcela con il mangiare quando finalmente è arrivata la stagione delle castagne, a partire dalla fine di agosto del 1918. Andavamo a battere i castagni, perché oltre a quelli di proprietà delle famiglie rimaste ce n'erano molti altri che appartenevano ai profughi italiani.
Mio padre, malgrado avesse la gamba ancora zoppicante, doveva recarsi a Cividale per lavorare sotto i tedeschi. Lavorava alla riparazione e manutenzione degli acquedotti della zona. Anch'io andavo a lavorare sugli acquedotti ma soprattutto a caricare ghiaia da portare lungo le strade.
Finalmente sono arrivati gli italiani, e solo allora abbiamo iniziato a mangiare regolarmente.
I tedeschi in sè non è che ci trattassero male, non erano cattivi quelli là; ma mangiare niente, perché non ne avevano neppure loro, avevano fame anche loro.
Per primi fra gli italiani, sono arrivati i lancieri di cavalleria, che correvano al galoppo. Sono arrivati quando i tedeschi stavano ancora ritirandosi. La prima notte c'è stato anche uno scontro a fuoco, in quanto la truppa tedesca tentava di ritirarsi e non voleva arrendersi agli italiani. Gli italiani hanno sparato e sono rimasti feriti molti tedeschi e uccisi muli e cavalli. Questo è successo a Vernasso.
Arrivati gli itliani, per mangiare andavamo alle cucine dei militari, che ci davano quello che avevano in più. Andavamo in prevalenza noi ragazzi a chiedere da mangiare. Mi ricordo di aver mangiato per la prima volta con abbondanza pasta in brodo (subiòti), che erano anche buoni ... soprattutto perché avevamo fame. Comunque niente carne, solo pasta in brodo e qualche volta anche risotto. Niente vino.
Neppure ai primi tempi quando siamo ritornati a Ponte di Piave ne abbiamo bevuto; solo più tardi quando hanno messo su degli spacci a Ponte si andava a prenderne.
A Ponte eravamo ritornati con il treno messo a disposizione dai comandi italiani. Siamo arrivati fino a Ponte, perché la ferrovia funzionava fino a Ponte. Alla stazione ci attendeva nostro zio Domenico Nespolo con un mulo e un sarabàn (calesse) che ci ha portato a Mansuè, perché a Ponte di Piave non c'era più niente, era tutto distrutto.
Mio zio si comportò anche bene, perché a mia mamma spettava la sua quota di eredità.
Con il calesse abbiamo portato anche un po' di coperte che erano state utilizzate dai tedeschi e a Mansué abbiamo trascorso l'inverno, il primo del dopoguerra, finché a Ponte, nel nostro cortile ci hanno sistemato una baracca. Era la primavera dl 1919; fine marzo, inizio aprile.
Appena finita la guerra suo padre andò a presentarsi alle autorità militari, spiegando che era stato messo in convalescenza [...] poi i militari lo hanno congedato.
Quando sono tornato a casa non vi ho trovato più niente, altro che sassi. Tutto a terra; non c'era un benché minimo pezzo di tavola in piedi.
C'erano reticolati nella campagna, c'erano trincee, camminamenti che ci siamo dati da fare per chiudere.
Abbiamo tirato su le viti che erano tutte per terra, mettendo i loro pali, ma siamo andati avanti due anni prima di fare un raccolto. Il primo anno, 1919, niente.
Dopo la guerra Ponte di Piave lentamente tornava alla normalità. Sono stati costruiti dei forni per il pane.
Nella nostra campagna abbiamo iniziato a mettere da una parte (accatastare) le bombe, ma in certi casi le mettevamo anche sul fondo delle buche esistenti. Tutto questo provvisoriamente, perché poi sono passati gli artificieri che hanno prelevato le bombe e le hanno portate tutte sulla grava del Piave, dove le facevano saltare sul mezzogiorno.
Gli artificieri sono passati anche con una specie di calamita per cercare le bombe che erano in profondità.
La nostra famiglia si è dedicata in particolare a chiudere i camminamenti austriaci che c'erano nella campagna. C'erano molte trincee che erano come una specie di fossa larga circa due metri e coperta da travi di cemento armato. Travi che noi abbiamo ancora conservati in un catasta e in parte li abbiamo riutilizzati come architravi nella ricostruzione della casa.
Di queste trincee ce n'erano diverse nella nostra campagna. C'erano poi anche le trincee per gli ufficiali che avevano il fondo preparato con una mano di traversine ferroviarie sopra le quali veniva disteso del cemento [...]. In linea di massima le barre di cemento che coprivano le trincee sono tutte in buono stato e non risultano colpite da schegge, ecc. In queste trincee i soldati dormivano, anche. Mentre per spostarsi usavano i camminamenti (che invece erano scoperti).
Dopo aver chiuso le trincee e liberata la campagna da bombe e reticolati, sono arrivati gli artiglieri che ci hanno arato la terra, in modo da prepararla alla semina del mais (già nel 1919). Gli artiglieri avevano un traino di 3-4 paia di cavalli cui era attaccato un aratro.
A preparare la nostra terra abbiamo lavorato solo noi di famiglia, maschi e femmine, tutti; senza aiuti dalle altre famiglie, perché ognuno aveva il proprio gran lavoro da fare. La vigna è rimasta improduttiva fino al 1920. Per quanto riguarda l'acqua per bere, già prima della guerra avevamo una pompa a stantuffo che pescava in falda, ma i tedeschi ce l'hanno portata via. Così quando siamo ritornati ci procuravamo l'acqua da bere nel Negrisia, acqua che allora era pulita, perché si teneva pulito lungo il canale, mentre adesso ci buttano giù porcherie. Poi un fabbro di Ponte di Piave ci ha riparato la pompa in modo da poterla riutilizzare.
I cavalli che aravano la terra andavano via di corsa. L'aratro era fatto con il vomere che aveva una posizione obbligata; così un artigliere, una volta iniziato il solco, vi si sedeva sopra. In questa maniera non era obbligato a correre a piedi per tenere il ritmo dei cavalli, che andavano via molto veloci.
Ogni coppia di cavalli aveva un soldato in groppa che li conduceva, per questo i cavalli andavano via veloci. Comunque, anche se di corsa, l'aratura è stata fatta bene.
Noi a questi soldati da mangiare non potevamo darne, ma magari davamo loro un fiasco di vino, che si andava a comprare.
Una volta arata la terra si è provveduto a seminare il granoturco con un vanghetto, a righe.
Per il vino abbiamo invece dovuto faticare ed attendere di più, prima di avere il raccolto. Ci sono voluti due anni e per colmo di sfortuna nel secondo anno (1920) è arrivata anche la tempesta, e la produzione è stata molto ridotta.
Le viti, che erano a Bellussi [belussera], non erano state tagliate dai tedeschi, ma distese a terra [...] in modo che rappresentassero un ostacolo per eventuali avanzamenti di soldati italiani (par ingambararli). Era lasciato libero solo dove c'erano i camminamenti.
La casa abbiamo iniziato a farla molto più tardi, nel 1923, perché non c'erano soldi. Poi il governo ci ha dato un contributo di 25.000 lire, ma in realtà abbiamo speso trentamila lire.
La nostra casa è stata costruita da una cooperativa di Maserada. C'erano molte cooperative che appaltavano i lavori.
Noi abbiamo iniziato i lavori con la procura di pagamento promessa dal governo, ma poi abbiamo dovuto aggiungere il resto. Il lavoro è stato fatto a regola d'arte, perché i muri da allora sono ancora in piedi.
Inizialmente, nel 1923, la casa è stata ricostruita a due piani, come prima della guerra. Solo più tardi, nel 1928, è stato aggiunto un altro piano.
Oltre al contributo per la casa, qualcosa abbiamo ricevuto dal governo anche per il bestiame, e tutto l'abbiamo investito nella casa.
Per vestirci invece abbiamo dovuto arrangiarci.
Con i residuati bellici non abbiamo guadagnato niente. 
Pali di reticolato, reticolati, schegge di bombe che avevamo raccolto con molta fatica nei nostri campi e ammucchiato davanti casa... Siamo stati vittime di una truffa. Sono venuti in casa nostra con la falsità. Si sono presentati come una "Commissione", accompagnati dai carabinieri, e noi abbiamo dovuto starcene buoni.
Forse saranno stati (anzi erano) carabinieri, ma evidentemente erano pagati da quelli che venivano a prelevare la roba. Quelli della sedicente "Commissione" erano vestiti in borghese e avevano l'accento della Bassa Italia.
Si sono presentati con i cavalli e con i carioti [carrettieri] al seguito. I carioti erano Tomiot Luciano e fratello, da Ponte di Piave. Avevano un carro ciascuno ed eseguivano gli ordini della "Commissione".
Hanno prelevato la roba che noi avevamo accatastato ma non ci hanno pagato. Eppure avremmo potuto guadagnare circa 5000 lire, vista la quantità di materiale.
Avevamo soprattutto circa mille pali di sostegno dei reticolati, dei quali - in precedenza - avevamo in parte tagliato le punte per utilizzarle come denti degli erpici. Era stato molto faticoso estirpare quei paletti di ferro dal terreno e poi liberarli dai reticolati utilizzando delle trance che avevano abbandonato per terra i tedeschi. Manovrare i reticolati a mano nude, senza guanti, qualche volta al massimo aiutandosi con una forca per ammucchiarli...
La "Commissione" ci ha portato via tutto senza rilasciare alcuna ricevuta, e noi non potevano protestare più di tanto, perché c'erano i carabinieri. Io avevo intuito che era una truffa, ma cosa potevo fare ... e poi c'erano anche mio padre ed altri più grandi di me.
Questa truffa sui residuati bellici non è capitata solo a noi ma anche a tutte le altre case della grava, le case del Borgo dei Danieli, come è chiamato.
Avevamo anche recuperato dei barconi di ferro con cui gli austriaci avevano fatto un ponte nell'offensiva di giugno. Il ponte era all'altezza dell'isola, di fronte a dove nel 1993 si è svolta la sagra di San Romano e la corsa dei cavalli. Il ponte è stato colpito proprio mentre i tedeschi lo oltrepassavano e il Piave era in piena. I tedeschi sono caduti numerosissimi nel Piave e vi sono morti. Infatti quando noi siamo ritornati nella nostra campagna, abbiamo trovato nella grava moltissimi ossi, ormai senza carne.
Si trovavano ossi sparsi nella grava, nei giaroni. Di là del Piave c'erano gli ossi degli italiani, con i quali poi hanno preparato l'ossario di Fagarè. Di qua invece c'erano tutti gli ossi dei tedeschi, persi per la grava. C'era un osso qua, un osso lavvìa, una testa. 
Noi li lasciavamo la nel giaron e poi la Piave a forza di rotolare li ha calpestati, frantumati, sepolti. Adesso dopo tanti anni, saranno ormai consumati.
Quando è arrivata la Commissione falsa siamo stati un po' colti alla sprovvista, anche perché non c'era ancora una severità, c'era un po' una mancanza di poteri; non si sapeva bene a chi rivolgersi. Era l'estate o la tarda primavera del 1919.

Nastro 1993/03 - Lato B

In una giornata, il via e vai continuo dei carioti ha ripulito le nostre cataste di rottami trasportandole a Ponte, non so dove.
Hanno portato via anche tutte le schegge di granata che avevamo raccolto nei campi e che fra l'altro disturbavano il lavoro, perché si segava l'erba a mano con la falce e se la lama colpiva un pezzo di ferro si scheggiava.
Le bombe invece erano state raccolte e fatte scoppiare in precedenza dagli artificieri che, dopo averle ammucchiate nella grava, le facevano scoppiare nel primo pomeriggio. Noi che eravamo in baracca sentivamo questo gran colpo e avevamo anche paura che qualche scheggia arrivasse da noi, perché si sentivano fischiare le schegge.
La casa è stata ricostruita con un po' di pietre della fornace Bertoli di Fagarè e con molti sassi della grava. Sassi: in parte ce n'erano ancora della casa vecchia e poi si andava in grava con un mulo a prendere quelli che servivano. 
[I muri della casa avevano] "ogni quattro-cinque file di sassi, una fila di pietre (un corso de piere)".
*
Io ho fatto il militare nel 1925 e sono riuscito ad evitare la seconda guerra, anche perché dopo di me c'erano altri due fratelli che facevano il militare.
Quello che faceva guadagnare un po' alla nostra azienda era il vino, sempre buono e venduto direttamente agli osti che venivano a casa nostra a prenderlo.
L'alluvione del 1965 è stata peggio di quella del 1966, perché c'era ancora il raccolto dell'uva sulle viti (era settembre). Qualcuno è riuscito comunque a piazzare l'uva come fosse buona, ma molti altri no.
Nel 1965 l'uva era piena di fango. Dentro ai grappoli era entrata erba, fieno. Non si aveva neppure la possibilità di mangiare un grappolo d'uva; un granello d'uva non si poteva mangiarlo perché era pieno di fango. Lavandolo, al massimo si riusciva a mangiare un grappolo.
Invece nell'alluvione dell'anno successivo [1966] il raccolto era già stato portato a casa.

Aggiunte e precisazioni, 1 settembre 1993

Non ricordo a quale gamba fosse rimasto ferito mio padre.
Io ero il più vecchio dei fratelli.
Scappando [dopo Caporetto] non abbiamo trovato nessuno vicino a casa e a Negrisia perché siamo partiti per ultimi. Tutte le case erano abbandonate, ma a mano a mano che ci allontanavamo dal Piave le case erano abitate, perché da quelle parti non bombardavano.
La baracca dopo la guerra.
Era abbastanza grande. Aveva quattro stanze ed era coperta da tegole. Le pareti erano fatte con una doppia mano di tavole, in modo che non filtrava il vento ;  dentro era abbastanza accogliente. Solo che all'interno della baracca non si poteva far fuoco per cucinare, così noi avevamo approntato una tettoia dove c'era la vecchia casa, e là accendevamo il fuoco.
Molte altre baracche invece erano coperte da cartone catramato e consistevano magari in un solo stanzone. Noi siamo stati fortunati, forse perché siamo stati fra gli ultimi ad ottenere la baracca.
Le travi di cemento erano di circa 2 metri e venivano sistemate sopra le trincee in varie maniere. [...]
Come pavimento le trincee avevano delle tavole in legno, ma noi non abbiamo fatto in tempo di vederle, le tavole, perché le altre famiglie della zona che erano ritornate a casa prima di noi se l'erano prese loro.
In altre trincee vicine al Piave, trincee per ufficiali, il pavimento era in cemento e il tetto era in traversine ferroviarie coperte di terra.
Il fabbro che poi ci ha rimesso a posto la pompa si chiamava Luigi Zanusso, di Negrisia, detto Violina: aveva anche una piccola osteria, con gioco di bocce.  [14:00 fine intervista]