venerdì 3 settembre 2010

Angelo De Ruos, Sovilla di Nervesa del Montello TV

Nato il 29 luglio 1903

Nastro 1994/7 - Lato A                                       28 aprile 1994

[...] Sono nato a Sovilla, vicino alla casa dove abito adesso e che ho costruito nel 1950.
Sono figlio di Luigi (Jijo), nato 19 marzo 1867 e morto a 98 anni: faceva il contadino, ma è stato anche due anni in America.
Mia mamma si chiamava Pavan Teresa, era nata in Brasile ed è morta a 74 anni.
I miei genitori erano tornati in Italia e con i risparmi si erano costruiti la casetta, ma è venuto il ciclone del... [non ricorda l'anno], che ha spianato la casetta. In quell'occasione mio nonno è morto, mia mamma è rimasta ferita e l'hanno ricoverata in ospedale a Conegliano.
Mio papà si è maritato due volte. La prima con una di Colfosco, che poi è morta e da cui ha avuto un figlio.
Io sono il più giovane di sei maschi, e poi mi dicono che sono vecchio!
Ora i miei fratelli sono quasi tutti morti. Siamo rimasti in tre, di nove che eravamo.
Nome dei fratelli: Giovanni 1889, Pietro 1897, Agostino 1893, Toni 1899, Vittorio 1901, Angelo 1903. Nome delle sorelle: Oliva 1908, Maria 1910 e Regina che è morta e di cui non ricordo la data di nascita
*
Della guerra ricordo che i sparava là a Calfosco.
Perché il Montello viene tagliato dal Piave e un pezzo si trova di là del Piave, a Calfosco appunto.
*
A un certo punto arriva el marescial a dire: «Via, andate via da qua!»
Allora siamo andati a Volpago e anche là a un certo punto è arrivato un maresciallo dei carabinieri a mandarci via. Siamo andati a Signoressa a prendere il treno. Si doveva partire per la Bassa Italia, ma il treno per vari motivi non è passato.
Da casa siamo partiti insieme a un'altra famiglia, e ci siamo portati via un maiale appena ammazzato, che perdeva il sangue per la strada.
Eravamo sul Montello, si aveva fatto un buco sulla costa del Montello, una specie di trincea, per essere protetti dalle schegge delle granate.
Mio padre invece era rimasto quaggiù a Sovilla, perché la nostra famiglia aveva due case, una qua in campagna a Sovilla "alla Crosèra" [...] e un'altra all'Abbazia del Montello, dietro l'Abbazia.
Mio fratello Giovanni del 1899 era in guerra; era stato fatto prigioniero sugli altipiani di Asiago e portato a Mathausen [Mauthausen]. Era sergente maggiore e si è fatto quattro anni di prigionia. Gli mandavamo pacchi di pane che prima biscottavamo per bene. Malgrado questo ci ha detto che riceveva il pane con la muffa. Noi avevamo il forno per fare il pane.
Il maiale lo abbiamo portato via con la testa che penzolava fuori dal carro. Era un carro "co e lame", cioè con le ruote in legno cerchiate in ferro.
Quando ci hanno obbligato a partire ci siamo detti: aóra ndón via col porsèl. Era un bel maiale da un quintale e mezzo, uno e ottanta.
Abbiamo caricato un po' di farina per la polenta, coperte e lenzuola e - attaccato al carro un pèr de vache – ci siamo diretti a Selva, da una famiglia di contadini dove "abbiamo fatto su el porsel" [abbiamo fatto i salami, ecc.]. 
[A Selva del Montello] eravamo ospitati da una famiglia molto povera, i Trevisi. La padrona di casa portava la carne sui piatti con le mani, perché non aveva nessuna posata. Si mangiava in stalla.
Quando siamo scappati dal Montello eravamo una decina di persone: il nonno Jiji, la nonna, io, due sorelle. Mio padre e mia madre erano rimasti nella vecchia casa di Sovilla, anche perché là avevamo la caneva piena di vino [...].
Avevamo vino fràmbol (fragolino), borgogna, crinto. Il frambol era ottenuto dall'uva americana, il borgogna era un vino buono, da bottiglia.
La stalla di Sovilla era piena di bestie (8-10) e mio padre ha dovuto portare i buoi "al governo", a Selva, dove c'era un centro di raccolta di bestiame e maiali, vicino al capitello, su per quella stradella là.
Poi mio padre è venuto a trovarci a Volpago, dai Santinoni. 
Siamo rimasti a Volpago circa un mese finché è venuto un maresciallo dei carabinieri a mandarci via. Ci hanno portato a Signoressa per prendere il treno per la Bassa Italia, ma il treno non è passato, allora mio padre alla mattina dopo ci ha portati a Faldè Campagna [Falzè di Trevignano] dove ha trovato una famiglia che ci ha ospitato in stalla. Era la famiglia dei Frassettoni, vicino al municipio del comune di Trevignano che si trovava appunto a Falzè di Campagna.
A Falzè siamo rimasti per circa tre mesi e dopo il maresciallo ci ha mandati via; bisognava che andassimo in Bassa Italia. 
Ma mio padre ha detto: «No, vado via per conto mio» e così siamo andati a prendere il treno a Castelfranco, con i camion dei soldati, con i sacchi della roba e le donne e tutti.
A Castelfranco è passata una tradotta e siamo saliti in un vagone bestiame.[...]
Siamo arrivati fino a Magreta di Modena e ci hanno messo in una vecchia canonica abbandonata, vicino a una chiesa. Là siamo rimasti fino alla fine della guerra. Siamo ritornati nel 1919.
A Magreta, io dapprima sono andato da un meccanico ad aiutarlo a riparare biciclette, ma non prendevo niente. Poi ho trovato lavoro in una latteria dove mi son trovato benon.
Avevano un allevamento di maiali e io li governavo; poi aiutavo a fare il formaggio.
C'erano due fratelli in quella latteria: uno era prete e uno era soldado; si chiamavano Bertocca. Il padrone era Remigio, e faceva sempre i mercati. Commerciava e vendeva anche i pioppi, e aveva due fittavoli.
Stavo bene là, tanto che il padrone ha proposto a mio padre di restare là, ma mio padre non ha voluto.
Pur parlando il dialetto trevisano mi capivo con i modenesi.
Mio fratello Vittorio e mio padre lavoravano il pioppeto e un frutteto, e anche l'orto e tutte le sere erano pagati. Io invece ero pagato ogni quindici giorni.
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Quando siamo venuti a casa ci hanno sistemato su due baracche piccole. 
Era primavera e abbiamo trovato la terra piena di topi, tanto che il comune ci ha passato il veleno per metterlo nei campi e farli morire.
Ma anche lièvori [lepri] ce n'erano molti e si andava a caccia con il fucile: c'erano fucili dappertutto, per terra, buttati là. Noi - in tre quattro ragazzi - andavamo a caccia con un fucile da guerra ciascuno; robe pericolose!
C'erano ancora bombe dappertutto.
Un giorno siamo andati ad arare in uno dei quindici campi che avevamo [...] e arando è venuta su una scarpa. Abbiamo fermato le bestie; abbiamo guardato sotto e c'era un morto, seppellito superficialmente. Abbiamo avvertito i carabinieri che sono venuti a prenderlo e l'hanno portato all'ossario senza poterlo riconoscere.
Avevamo trovato la scarpa col vassór [varsor = aratro a versoio, aratro comune (Emanuele Bellò)] che era tenuto da mio fratello Toni, mentre io "paravo via" [conducevo] le bestie, davanti, assieme a Vittorio. Oltre alla scarpa, del soldato erano rimasti tutti ossi e da quella volta il campo si è chiamato "il letto del morto".
Sulla Crosèra, in una buca ne abbiamo trovati altri sette-otto di soldati seppelliti. 
Erano in una buca di granata, sulla terra della famiglia di Aurelio Coletti, vicino alla nostra campagna e alla nostra casa vecchia, in località Crosèra (il posto era segnalato da una croce).
Nella nostra terra c'erano reticolati, schegge, bombe, trincee, e sotto là ... in una siepe di arnère (ontani), avevano messo una fila di cannoni che sparavano oltre il Piave. Bossoli ce n'erano a volontà, tanto che io ne ho lavorato più d'uno, facendo i puntini con un punteruolo.
Ora vivo da solo; mia moglie è morta da 6-7 anni.
Per lavorare il bossolo bisognava prima ri-cuocerlo [l'ò ricòto] con la forgia [a fusìna] e poi per fare le coste in basso ho messo uno scalpello di ferro. Il colore che ha è perché era di ottone; tutti i bossoli delle granate erano d'ottone.
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A Magreta stavo bene, ma mio padre ha voluto venir casa perché aveva 15 campi suoi.
Nervesa al ritorno era tutta a terra, tutta "pestata su". Anche Sovilla: tutta in terra.

Nastro 1994/7- Lato B

La chiesa di Sovilla era a terra, il campanile in piedi ma rotto.
A Nervesa – San Nicolò era sulla piazza di sopra e poi è stato rifatto di qua nel terreno del comune – la chiesa di San Nicolò era tutta buttata per terra e l'hanno ricostruita quaggiù vicino al municipio. 
A obbligarci a partire dal bosco del Montello dove avevamo preparato un ricovero è stato un maresciallo dei carabinieri. Ormai avevano iniziato a sparare in pieno, perché là eravamo vicini all'Abbazia.
Dapprima ci siamo spostati in un'altra casa vicina, da Ciri . [...]
Sul Montello avevamo scavato questa trincea e vi eravamo rimasti per circa 15 giorni, dormendo dentro. Non si voleva venire via, abbandonare la casa che era di nostra proprietà, a differenza di quella a Sovilla che invece era in affitto. Sul Montello avevamo sei campi e mezzo [ca. 35000 mq], quello che era spettato alla nostra famiglia in seguito alla divisione del Montello [Lg. 21.2.1892, n. 57 che dichiara alienabile il bosco demaniale inalienabile del Montello, conosciuta come "Legge Bertolini"].
I miei avevano levato il bosco e dove si poteva lavorare avevano piantato viti, pannocchie, ecc. 
Se pioveva si otteneva il raccolto, altrimenti niente.
*
Dopo la guerra sono ritornato a lavorare la terra per un po', poi ho girato il mondo. Dopo il soldado sono andato a lavorare allo stabilimento Breda di Milano, dal 1926 al 1933. Lavoravo sulle carrozze della ferrovia. Facevo il "ribattitore", perché all'epoca non c'erano le saldatrici, era tutto imbrocà. I tecnici facevano il disegno e noi si faceva la carrozza. Si lavorava per le Compagnie internazionali, carrozze che andavano anche all'estero.
Il militare l'avevo fatto alla scuola centrale del Genio a Civitavecchia.
Dopo la Breda di Milano ho lavorato sotto Puricelli a Postumia e poi ho lavorato a Castelfranco Veneto, alla Fervet. Per andare a Castèo i primi giorni usavo la bicicletta ma dopo ho fatto l'abbonamento alla ferrovia. Prendevo il treno a Nervesa - che veniva da Conegliano - e a Montebelluna prendevo la coincidenza con quello che veniva da Calalzo e andava a Padova. Scendevo a Castelfranco.
Dopo aver lavorato alla Fervet sono tornato a casa, sulla terra.
Mi sono sposato nel 1932 con Anna Maria Dal Pin che era stata a servire a Bergamo. Quando ero a Milano andavo varie volte a trovarla a Bergamo, ma io l'avevo conosciuta qua in paese. Lei andava a past co i piot [portava al pascolo i tacchini] e io andavo a past con le vache giù per le stradine vecchie. Si era ragazzini allora. 
Il proverbio dice che l'amor no ciapa rusine. Ha ragione. Mi sono affezionato a questa ragazza e l'ho sposata.
Avrei quattro figli, ma il primo mi è morto, a 16 mesi porcamadone! È morto perché il dottore ha detto che aveva l'angina, invece aveva la scarlattina. Me l'ha fatto portare a Montebelluna; è rimasto 24 ore a Montebelluna e il sangue gli è andato per dentro e me l'hanno portato a casa morto.
Quando mi sono sposato lavoravo a Milano.
Gli altri figli: uno lavorava a costruire rimorchi per la ditta Franchin, che ora ha fallito; adesso va lavorare in un'altra ditta.
Anche l'altro figlio fa l'operaio. Inoltre ho una figlia [...].
Con la pensione che ho non ce la faccio a starci dietro. [...] Ho 7 campi e mezzo di terra qua in campagna, in più ho bosco sul Montello. Potrei averne molta di più, di terra, ma mia moglie non voleva, tanto che ho comprato due campi di terra senza che lei lo sapesse. [...]
Mia nuora mi fa da magiare bene: a mezzogiorno pastasciutta con la carne dentro. Alla sera minestra. Alla mattina caffelatte, ma mi arrangio io. E ancora lavoro!
Alla domenica vado a giocare a carte, qua all'osteria "Da Mignot" a Sovilla, da Fabio.


A chi mi domanda cosa mangio gli rispondo: «Sono sotto la cura di un professore che viene da Padova, ha l'ambulatorio in una famiglia di contadini di Camalò e mi ha ordinato alla mattina quattro fette di soppressa, do ciòpe de pan e un botiglion de vin; a mezzogiorno mezzo chilo di pastasciutta e due bistecche e sempre un botiglion de vin

Una volta fumavo adesso no.
Nei nostri campi si coltivava anche tabacco. 
Io e mio fratello, con il circolo agrario avevamo due trattori. Ho la patente del trattore dal 1926.
In osteria a giocare a carte vado sempre in motorino, un Piaggio. Prima avevo i Guzzi, avrei però dovuto portare il casco ma mi sono rifiutato e ho comprato un 48, un Bravo della Piaggio. La Guzzi aveva un 83 di cilindrata: era il Galletto.
In osteria gioco a tressette o a scopa, a seconda di chi trovo. Vado verso le due del pomeriggio di ogni domenica, in osteria, e se manco i miei compagni di gioco poi mi chiedono «dove sei stato?»

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