domenica 5 settembre 2010

Abbazia di Nervesa del Montello, leggende e tradizioni popolari

Testimonianza di Angelo De Ruos, nato a Sovilla di Nervesa il 29 luglio 1903

Questo brano fa parte di una più ampia intervista effettuata da Camillo Pavan nel corso delle sue ricerche sull'ultimo anno della prima guerra mondiale.

Nastro 1994/15 - Lato B                          20 maggio 1994

All'Abbazia di Nervesa lavoravano due fittavoli, sotto Collalto, che era il proprietario. Uno era Cenedese e l'altro lo si chiamava l'Omenét (Gènio Omenét).
L'Abbazia prima della guerra era intatta e io avevo amicizia con i fittavoli perché abitavo in una casa dietro l'Abbazia. La casa c'è ancora; è stata distrutta con la guerra ma poi è stata ricostruita dall'impresario Visetti di Torino. C'è una pietra davanti il portico con il suo nome scritto.
Da ragazzo ero sempre là, nell'Abbazia ... e c'era ... una volta, c'erano i frati e facevano le torture.
C'era soltanto la strada che parte dalla parrocchia di Nervesa, che andava su. Tutto intorno all'Abbazia c'era una mura e non entrava nessuno, al di fuori dei frati. E quando entrava qualcuno, non veniva più fuori. In fondo là c'era un buco profondo, ma profondo che non se ne vedeva la fine e là dentro vi buttavano le persone uccise. L'ho sempre sentito dire.
C'era uno strumento per schiacciare la testa ai prigionieri, una grande morsa in legno per schiacciare la testa. Io l'ho vista; e c'era la ghigliottina: un coltello che andava su alto e poi tutto su un colpo scendeva per tagliare la testa.
D. Ma era una mostra, un museo?
R. No, no: là facevano quelle torture. Li ammazzavano: quando li prendevano, li portavano dentro là e li ammazzavano.
C'erano anche le celle, strette che ci stava appena un uomo in piedi e c'era l'acqua che gocciolava piano piano e di continuo sulla testa del condannato, in modo che gli marciva il cervello. Era una cella dove il condannato non si poteva muovere ed era costretto a stare in piedi. Io l'ho vista la cella.
Ora è morto Dàmo dea Bassìa [Adamo dell'Abbazia] come noi lo chiamavamo. Di cognome era Cenedese, e lui lo potrebbe confermare.
Nell'abbazia abitavano due famiglie. Da una parte Adamo Cenedese. [...] Dall'altra parte c'erano due ragazzi e tre ragazze di cui una era una bella moretta che mi piaceva (ero tosato e andavo sempre là). Il capofamiglia si chiamava Eugenio (Genio Omenét) e i figli Caio, Attilio e Angelo, che è andato in America. Ma di questa famiglia ricordo solo il soprannome Omenét, non il cognome.
Una volta all'anno all'Abbazia facevano la messa.
Le colonne che io ho in stalla sono i piedestalli, i basamenti delle colonne, perché quando la chiesa è stata demolita noi che abitavamo là vicino ci siamo tanto serviti del materiale dell'Abbazia. Pietre, soprattutto.
D'accordo con Damo, si andava là e si portava via. Damo, dopo la guerra si è costruito una casa più in basso, vicino alla chiesa.
Io ho lavorato a ripararla, l'Abbazia, assieme a un muratore, siccome abitavo là vicino. C'erano dei muri pericolanti e ho aiutato il muratore, come manovale, a raddrizzarli; io e un altro che abitava più avanti:Nanni Sussi, che ora è morto anche lui.
Il padrone dell'Abbazia è sempre stato [il conte] Collalto, che poi ha venduto a Frate.
I frati una volta facevano delle barbarità, ammazzavano.
Quelli che andavano dentro non venivano più fuori, perché c'era quel macchinario là, io l'ho visto: una morsa con le ganasce grandi, un "vitone" in legno. E poi la ghigliottina.
È proprio vero. Se vuole ci sono anche i figli di Damo che lo sanno.
C'era una strada che andava su, dentro l'Abbazia, e in fondo alla strada c'era un portone. Chiudevano il portone e dentro non entrava più nessuno, perché tutto intorno c'era una gran mura alta tre metri.
Adesso ci saranno le fondamenta di questa mura, adesso si è imboscato tutto ... ormai resta in eterno così, non la aggiusta più nessuno, ormai.
*
La famiglia De Ruos come soprannome è chiamata Cóa [Coda] perché una volta uno dei miei antenati portava la coda, come pettinatura. E siccome continuava a portarla, lui solo, allora i lo cojonàva [lo prendevano in giro]. Aveva i capelli lunghi come le donne; la coda la legava e andava giù per le spalle, per la schiena. [...]
All'Abbazia, quando faceva gran siccità i parrocchiani di Nervesa andavano su con il parroco a dir messa per ciamar a piova [invocare la pioggia]. C'era una bella chiesa alta, con le colonne, una bella chiesa.
Poi c'erano anche tutte le stanze del convento e c'era un pozzo che aveva sempre acqua. Anche i fittavoli che erano là non erano mai senza acqua. Era proprio acqua sorgente.
Il convento aveva molte stanze, e vi abitava l'Omenét. Erano tutte stanze al sole [rivolte a sud]. L'altro fittavolo invece abitava in una casetta a nord
Una volta all'anno si faceva anche una messa che era una cosa diversa della funzione per la pioggia. Per la piova si andava quando serviva.
L'azienda dell'Abbazia era molto grande: circa sessanta campi. C'era tanto prato per le bestie in stalla (15 bestie un fittavolo + 7-8 bestie l'altro).
C'era bosco con acacie e castagni. C'era vigna con viti Verdiso, Crinto, Frambola, Bianchetta.
Ma sa che vino buono che viene fuori là ... tutta creta là, terra cattiva, ma il vino veniva fuori buono, se piove però, altrimenti addio!
C'era l'oratorio di San Girolamo dove si faceva la messa ogni anno. Il santo aveva una chiesetta; giù, non dentro l'abbazia. La si vede ancora...
La "Madonna della Piova" era un'altra cosa: era dentro l'Abbazia, mentre il Santo era fuori. Mi sembra che la Madonna fosse quella della Cintura, ma non ricordo bene.
«Ndemo su in Abassìa a cior a piova». Ma non è che poi piovesse, era una devozione.
Durante la guerra dentro l'Abbazia c'erano i soldati e sulla nostra casa c'erano i cavalli e l'artiglieria e noi vedevamo le granate che i tedeschi sparavano proprio sull'Abbazia. Le vedevamo arrivare e allora siamo scappati e andati su da Ciri che aveva fatto un rifugio, a circa mezzo chilometro, sulla seconda presa. L'Abbazia è un po' prima della prima presa.

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