giovedì 30 settembre 2010

Giovanni Puicher Soravia, Sappada BL

Nato il 18 ottobre 1903

Nastro 1996/1 - Lato A                                        1 febbraio 1996

D. Ricorda quando siete dovuti andare via da Sappada?
R. Sì, io ho diversi articoli, vediamo, vediamo. [Non lo lascio guardarli]
... Dunque il 28 ottobre del 1917.
Ho scritto diversi articoli e poi sono interessato a Timau, le portatrici...

Nastro 1996/1 - Lato B

Il 28 abbiamo saputo che c'è stata la rottura, là verso Caporetto.
Abbiamo saputo, ma noi non c'interessava, io ho scritto un articolo anche.
Non c'interessava [perché] eravamo così lontani...
Però nei due giorni seguenti vengono dei soldati: «Dovete andare via da qui, c'è stata la rotta, i tedeschi sono penetrati verso Caporetto».
Ma siamo pur qua! Come a dire: siamo distanti da Caporetto.
«No, no» c'han intimato.
Dunque, sa cosa facevano questi soldati sotto le borgate – io stavo a metà paese, tutte case di legno, erano. Stavo nella borgata Fontana, quella volta – gettavano delle bombe a mano, i militari nostri, per farci impaurire, per farci scappare.
Buttavano delle bombe come a dire: «C'è la guerra qui, dovete andar via sennò bruciamo le case».
Sì, gli italiani, perché andassimo via.
A noi non c'interessava andar via. Pensavo, sarà una cosa provvisoria, chissà.
Avevamo dieci capi di bestiame, noi: mio papà Valentino, poi c'era ancora il nonno Giovanni.
Valentino era come militarizzato, aveva l'esonero ma con [l'obbligo] di accorrere in qualunque momento l'avessero chiamato. Era qua in casa, con otto figli. Aveva appena avuto l'esonero in maggio. Richiamato nel 1916, con otto figli, finalmente ha avuto l'esonero.
Sì, sì, c'han minacciati [con le bombe a mano, per mandarci via]. C'han detto: «Andate via, sennò bruciamo le case.»
Allora abbiam preso questo bestiame, avevamo due carri, un paio di buoi piccoli - avevano tre anni, diciamo - e un paio di mucche. C'era mio zio Ludovico anche, e la zia Maria (sua moglie).
Io e il nonno con un carro, con sopra dei maialini e la scrofa. Sull'altro carro avevamo trentatre colli, perché quelli della borgata Fontana ci han dato ognuno un collo. Ma noi si pensava di andare a Santo Stefano, forse in Cadore, appena. Sarà un momento...
Per fortuna avevamo venduto un paio di buoi di quelli da dodici anni, un mese prima. Li avevamo venduti a un privato: un barone, il commendator Protti di Longarone. Per fortuna che avevamo quei pochi soldi in casa. Avevamo preso bene di quel paio di buoi, mi pare ottomila, che era una somma. Ma eran buoi forti, grandi!
Avevamo una bella campagna eravamo una famiglia bacàna, come si diceva una volta. Vuol dire: bacani erano quelli che possedevano almeno dieci - dodici capi di bestiame.
Poi si avevano di solito anche due maiali e la scrofa. Si vendevano i maialini qua e là per la Carnia. No, mai nei mercati, venivano a prenderli.
*
Allora giù per questa Acquatóna, si chiama questa strada, e Santo Stefano. A S. Stefano volevano comprare i maialini al nonno, per cinque lire [l'uno]. Ma lui arrabbiato: «Come cinque lire, vale di più un maialino!» Anche quella volta valeva dieci.
Magari li avessimo dati via!
Beh, siamo andati giù. Abbiamo dormito a Santo Stefano vicino alla chiesa, non c'è più quella casa.
Era proprio il primo novembre, il secondo novembre, che laggiù c'è il mercato bestiame e merci, da tanti anni, da cento anni, diciamo.
Il mercato, ma dico: «Che bel mercato quest'anno, eh. Che bel mercato dei Santi!»
Siamo qua, e pioveva a dirotto. Siamo qua, ma dove andiamo, cosa fanno di noi?
«Dovete andare avanti.»
Abbiamo conseganto il bestiame a Santo Stefano, che c'era un parco. Avevamo anche un toro, due mucche, tre quattro vitelle. Abbiamo consegnato. C'era un comando, un piazzale di là del fiume. Ci han consegnato un buono, abbiam messo in tasca il buono. E poi...
«Ma qui non dovete stare, dovete andare avanti!» ci dicevano i soldati.
Noi con i carri, io e la zia, una mantellina ci han dato. Pioveva a dirotto.
Nella valle che va fuori a Cima Gogna, la strada antica non la galleria, pioveva a dirotto, tutte le truppe in ritirata, pensi che casino!
Dunque, io e la zia con i buoi piccoli, lo zio con le mucche e con un altro carro, siamo arrivati a Lozzo. E cosa fare?
D. Gli altri abitanti di Sappada, sono venuti via con voi?
R. Sì, siamo tutti venuti via...
A Santo Stefano avevamo venduto il bestiame in più; ci siamo tenuti quello per tirare i due carri.
Siamo arrivati a Lozzo. Cosa fare?
Nostro padre ha detto: «La prima casa di Domegge no, la seconda andando in giù, che conosco la famiglia, lasciate là tutta la merce.»
Siamo andati giù. Le bestie le abbiamo lasciate a Lozzo, da uno che mio zio conosceva, osteria La Luna si chiamava. Abbiamo lasciato là queste bestie con il carro [...]
Il maiale con i maialini li abbiamo lasciati là, a quella donna dove abbiamo dormito a S. Stefano. Li abbiamo lasciati là, senza soldi. Cosa potevamo fare a quei maialini, ci voleva la cura, no? Meglio era se li avessimo dati prima, a cinque lire all'uno.
Beh, mio zio dice: «Lasciamo qua - che conosco quest'oste - le mucche e questi manzetti.» Ha preso su un cavallo e siamo andati giù a Domegge, in questa seconda casa, aspettando gli altri, tutta la famiglia, che c'era quattro bambini della zia più nonno e nonna che son rimasti a S. Stefano.
Nel frattempo li avevano caricati e portati a Calalzo con i camion, la massa di Sappadini, forse seicento.
D. Solo a Sappada gli abitanti son stati costretti ad andar via o anche a S. Pietro di Cadore, non so... ?
R. Anche qua, ma non tanto. Era soprattutto Sappada che è stata costretta ad andar via...
D. Perché?
R. Noi siamo più obbedienti!
D. Ho visto nei registri del Comune che trecento persone non sono andate via...
R. Sono rimaste, sa perché? Erano un po' fuori strada, erano nei paesi piccoli. Sono rimasti alcuni a Cima Sappada, e poi quei paesetti su, due-tre paesetti.
Poi abbiamo scaricato a Domegge tutta la roba [...] Tornando indietro verso Lozzo, con lo zio e la zia, con la mantellina, a piedi sempre a piedi, tutta quella maledetta valle a piedi... Pioveva a dirotto, i militari in rotta, ognuno per suo conto, sbandati. Erano tutti come sbandati, "si salvi chi può".
D. Anche qui, nel Cadore? Mi sembrava di aver letto diverso.
R. Sì...
Allora, tornando indietro verso Lozzo pensavamo di andare dormire a Lozzo dove avevamo le bestie. Vediamo una colonna di militari, di camion. E da uno [di questi camion si sporge] una ragazza che si conosceva. «Ehi – dice - sono qua i vostri, sono qua dentro!».
No! Oh, porca miseria ... invece di andare a Lozzo [ritorniamo]verso Calalzo.
[...] C'era un sergente nostro paesano, che era là di servizio a Calalzo – si chiamava Piller Onder Augusto, una brava persona. È morto alla vigilia dell'armistizio, brava persona – e dice: «Mezz'ora fa ho accompagnato in treno la nonna che stava male. Son partiti mezz'ora fa».
Noi rimaniamo a Calalzo, avevamo questa catasta di 33 colli, ognuno ci aveva dato un fascio dentro ad un lenzuolo, per vestirsi. 
Per noi avevamo portato due sacchi pieni di forme di formaggio, e in più avevamo un sacco di fagioli.
A Calalzo ci siam trovati ancora in 150, in attesa. Erano quelli che sono venuti dopo, sempre di Sappada. Là non abbiamo visto nessuno di altri paesi.
Dopo tre giorni di attesa ci han caricato sul treno e abbiamo viaggiato tutta la notte. La mattina dopo eravamo a Fano. Là ci han fatto scendere e siamo saliti in città, una città cinta di mura. Sa dove ci han messo prima, perché non ci sparpagliassimo? Nel cimitero! 
L'ho scritto, nel cimitero di Fano, perché erano impreparati.
Finalmente ci han messo su una grande aula del patronato scolastico, su in soffitta, un grande stanzone, e là siamo rimasti un mese.
Un giorno, guardando fuori, abbiamo sentito dei colpi di cannone. Sa che c'erano sei navi austriache, là davanti a Fano? Cercavano di colpire la stazione e il ponte sul Metauro. Tutto un fuggi fuggi generale, per andar dietro le mura, dall'altra parte di Fano. Tutti scappavano.
Beh ... dopo, da un giornale, abbiamo saputo che i nostri paesani erano ad Arezzo. Così dopo un mese ci siamo ricongiunti. Siamo stati là ad Arezzo su una villa, "villa Subbiani", appena fuori di Arezzo. L'ho scritta tutta questa storia.
Quelli che sono rimasti a Sappada sono stati niente male, perché erano tutti contadini. Vivevano, vivevano e poi forse han "preso su".
Noi avevamo in cantina settanta gerli di patate, settanta. Mai come in quell'anno. Dunque, se son stati furbi li han presi. Molti, mi pare, li han portati via i soldati austriaci, perché quando siamo ritornati dopo 17 mesi non abbiamo trovato più niente.
La casa era sana, il paese non era stato colpito.
È che mio nonno non voleva andar via. Diceva a mia nonna: «Lasciami qua, lasciami qua... ti do l'ultimo soldo, lasciami qua, non voglio andar via. Lasciami qua, per amor di Dio». Difatti è morto laggiù, profugo, dal dispiacere, dal crepacuore. [...]
Siamo rimasti giù diciassette mesi, sparpagliati.
I primi che sono andati giù - con i seicento - son arrivati fino a Firenze e li han messi dentro a dormire a Santa Maria Novella, nella chiesa. E dove metterli, all'aperto? Poi li han portati a Arezzo nel teatro, come si chiamava quel teatro... "Politeama Aretino", e dopo li han smistati.
La nostra borgata, borgata Fontana, è andata a finir tutta nella villa Subbiani, una cinquantina di persone. Era una villa proprio, di un possidente che aveva mezza collina poco fuori di Arezzo, mezz'ora; di sotto c'era la chiesa dei cappuccini, il convento. La località non aveva un nome, era proprio sopra la villa Redi, quel famoso umanista.
*
Io ho fatto il pastorello quando ero piccolo. Non avevamo pecore ma vitellini, torelli, al pascolo: quelli che non si poteva portare in montagna perché erano troppo piccoli. Sennò ci son le malghe, c'erano pascoli su in alto, in Val Sésis. C'era anche la casera, dove si faceva il formaggio.
*
Laggiù, prima ho fatto lavori nella vigna di questo signore. Si faceva dei muretti pieni, ci faceva lavorare e si prendeva qualcosa, due lire al giorno [...] una lira e 25 al giorno, dal governo. E i nonni, che figuravano separati, prendevano due lire per ciascuno.
Di pane ce n'era abbastanza, e allora cosa si faceva? Zuppa! Non v'era verso di far la polenta come si usava noi. C'erano quei fornelli come usano loro, a carbone; come si fa a far la polenta? Sempre zuppa!
Era zuppa di farina bianca abbrustolita di frumento, farina bianca, non di mais; ma quanta zuppa abbiam mangiato! Pane ce n'era abbastanza, lo [mettevamo] dentro il pane, in questa zuppa.
La zuppa si faceva con l'acqua. Il latte lo davano solo ai malati. Acqua e sale, e farina abbrustolita, farina di frumento.
Noi la si chiamava brhenzuppen – qua abbiamo un dialetto tedesco – che vorrebbe dire un po' bruciata, perché prima bisognava abbrustolirla, la farina, fin che diventava scuretta e poi l'acqua sopra. Io la mangiavo volentieri.
D. La mangiavate anche qua in paese?
R. Sì, sì, sempre, ma molta polenta. La mattina era polentina, diciamo; quella si faceva in pochi minuti [...]
A villa Subbiani, dopo aver lavorato in questi filari di uva, il nostro cappellano mi ha trovato un posto come garzone in un negozio di ferramenta in città di Arezzo, da "Ricci e Pellizzari".
Il cappellano era Don Emilio Troiero. Mi ha trovato il posto come commesso e son stato là parecchio. Non ricordo neanche la paga che prendevo. Il negozio vendeva ferramenta, misticherìa ... misticherìa vuol dire stucco, oli, così.
*
Fra le due guerre ho fatto l'impiegato ad Asmara. Son stato undici anni in Africa. Sapesse che vite che ho fatto io. Quattordici stagioni in Svizzera, carpentiere. Ho scritto tutto.
*
Ferdinando Polentarutti. Sono andati "questi fetenti" [di soldati] anche da lui a dire che se ne vada via. E lui ha detto: «Io faccio quello che fa il mio popolo». Ma, non so cosa, bastava una parola quella volta... È stato in prigione, poi l'hanno rilasciato, più tardi. Lui ha detto: «Faccio quello che fa il popolo.» Loro volevano dire: «Predica che vadino via!» E dice: «Io faccio quello che vuole il popolo, sono il loro parroco, non so cosa fanno.»
Non si sono comportati bene, i soldati, no, no. Sebben che era prete, forse li ha maledetti, anche. Qualche ufficialetto, di quelli stupidi ... sa come sono quegli ufficialetti!
Le faccio un esempio. Qua giù a Rigolat[o] c'era un albergo. Ora non c'è più, l'albergo del cavalier Zanier. Questi ufficialetti appena usciti dall'accademia, erano là in questo albergo, dietro il focolare...

Nastro 1996/2 - Lato A

... Sono là, attorno al focolare, e discutono: «Ah, questi austriaci, in 14 giorni li buttiamo giù di là». Il cavaliere, che aveva un'età, dice: «No, ragazzi, no, non è così facile, l'Austria è un osso duro». L'han preso e l'han portato via, si chiamava Amedeo Zànier. L'han portato via e per fortuna aveva un avvocato della Carnia che si è interessato. In fin dei conti non aveva detto niente di male e l'hanno lasciato andare.
Ma quegli ufficialetti, poi, ha visto dove son andati a finire, quei maledetti? [...] Che l'han fatto finire in prigione. Questo avveniva all'inizio della guerra e lui diceva: «No ragazzi, non è così facile buttarli giù, l'Austria è un osso duro...». Ehi, ma dove siamo? Ma là, dietro al focolare. Ma dopo li avranno messi in prima linea!
Dopo Caporetto la gente diceva: «Noi siamo distanti da laggiù, da Caporetto. Cosa c'interessa a noi?» Eppure c'han fatto andar via.
D. Perché, vi hanno fatto andar via, per quale motivo?
R. Perché? Perchè adesso vengono i tedeschi... Mah! noi stavamo sotto, sapevamo la lingua, anche. Forse era proprio per quello, perché sapevamo la lingua. Disgraziati, quelli là, farci fare quella vita da cani.
D. Non siete andati via spontaneamente...
R. No, no, per l'amor di Dio. Ci han costretti, sennò bruciavano le case con le bombe a mano. Era tutto un legno, stalle, fienili, tutto legno. Borgata Fontana, vada a vedere: tutto legno.
Anche le altre borgate ... Granvilla, era tutta in legno - bruciata nel Ventiotto [1928]; borgata Bach - l'ha vista adesso passando - quella era tutta in legno, bruciata nel 1908.
D. Quando siete ritornati a casa, come avete ritrovato il paese?
R. Il paese era ben intero, ma stalle ... era tutto vuoto. Per fortuna che ci avevano lasciato i letti, cosa facevano dei letti? Almeno i letti c'erano.
D. Ma avevano patito la fame, gli abitanti?
R. No, qua no, ma in certi posti sì.
D. Avevo sentito che anche qui a Sappada avevano patito la fame.
R. No, no, non era così grave.
Per esempio di sotto casa mia in Borgata Fontana è rimasta una donna con il figlio, e il marito era via, non so come... Forse ha detto: «Vado a vedere» e l'han portato via!
La madre con il figlio – si chiamava Fontana Carolina e il figlio era Luigi – son rimasti qua e il marito, Giovanni Fontana, sarà andato a informarsi sulla strada, e l'han portato via, dritto.
C'han sparpagliato un po' dappertutto.
A villa Agazzi erano cento paesani, villa Agazzi era di là di Arezzo. Poi ce n'era 200 a Cortona, un po' sulla villa del Vescovo in buona parte tutti ammucchiati, una branda dietro l'altra.
Noi a Arezzo avevamo anche le camere.
Nessuno ha visto a Camucìa che erano in fila, dentro a un grande salone! Erano in duecento là a Cortona.
Poi ce n'era a San Giovanni Valdarno, a Quarata, a Stia, Poppi, a Ràssina nel Casentino.
Uno, che aveva la moglie incinta, nella confusione sa dov'è arrivato? Una bella mattina, che eravamo là alla villa - c'era un viale – arriva ... «Ma chi è quello?» Non è Giorgio Benedetti! Il contadino, lo si chiamava noi - paur - vuol dir contadino. «Ma quello lì è il paur, il contadino.»
«Cari ragazzi, qui siete a casa!» ha detto «sapete dove sono stato io?»
«Dove?»
«A Caltanissetta.»
«Ma perché non siete sceso prima? Perché non siete sceso prima, Madonna? Scendete...» Più in là di Caltanissetta non poteva andare.
Arriva un altro che aveva famiglia là alla villa, Egidio Kratter si chiamava. Quello era stato in Puglia!
Poi son venuti quasi tutti là, ad Arezzo.
D. Come vi trattavano gli abitanti del posto?
R. Eh! l'ho scritto qua... Sa cosa dicevano queste donne, queste donnette, ai bambini cattivi: «Se non state zitti vi faccio mangiar da un profugo!»
Oppure dicevano: «Accidenti a li profughi e chi ce l'ha portati!»
Noi si andava a mendicare un po' di farina da polenta e siccome noi si parlava in tedesco – ma il mio nonno sapeva bene l'italiano – pensavano che fossimo tedeschi.
Ma dopo nel '44, quando c'era la Linea Gotica avran pensato ai profughi di Sappada. «Ma guarda, succede anche a noi... ».
D. Però non è che vi trattassero male. Dicevano così...
R. No, no... Una mia cuginetta (Angela) l'aveva presa su dei benestanti proprio là sotto, come in famiglia. Poi l'altra mia sorella, che aveva 12 anni circa (Margherita), faceva baby sitter a un bambino di due anni, la baby sitter in città.
D. Ma si chiamava baby sitter anche allora?
R. Ma no! Custodiva questo fanciullo! Baby sitter è venuto dopo. Guardava questo bambino; è stata là tutto il tempo. Un'altra cugina, che era del 'Sei, era presso una famiglia di due sposi giovani.
D. Restando alle autorità: il parroco l'hanno messo dentro...
R. Sì, ma dopo un quattro cinque mesi l'hanno rilasciato. È venuto con noi ad Arezzo.
Il cappellano don Remigio [?] Troiero e la maestra, che si chiamava Kratter Maria erano presso i padri Serviti di Arezzo, e il parroco poi è venuto anche lui.
Sotto di noi c'era la chiesa dei Cappuccini, di Santa Croce. Ma era basso, Santa Croce.
D. Dunque eravate in contatto, fra voi abitanti di Sappada.
R. Sì, sì. Anzi una volta io e la nonna da Arezzo siamo andati a Cortona. Il 22 febbraio era Santa Margherita a Cortona, mia nonna si chiamava Margherita e siamo andati là per Santa Margherita a trovare i paesani. «Quando finisce questa guerra? Quando andiamo a casa?», dicevano. Ma eravamo appena a febbraio.
D. La guerra è finita il 4 novembre 1918, perché siete stati diciassette mesi profughi?
R. Invece siamo arrivati qua appena agli ultimi di marzo [del '19]. Prima hanno mandato su gli uomini a vedere se era tutto a posto, a mettere un po' in ordine. Avran pensato: «Non possiamo mandarli giù in pieno inverno.»
*
Quando è scoppiata la prima guerra era maggio. Quel giorno c'è stato un ferito, da noi. Forse l'unico, a Sappada.
Erano due finanzieri che andavano su come al solito verso il confine. Andavano su per i contrabbandieri – quella volta c'era i contrabbandieri, qua, contrabbandavano il tabacco e anche zucchero – e su in cima c'erano già gli austriaci che han visto questi due finanzieri salire. Han sparato un colpo, han ferito uno che poi è stato trasportato in casa nostra, che il sindaco stava in casa nostra quella volta. Ma poi la ferita non era tanto grave, l'han portato a Belluno, questo finanziere.
Il sindaco si chiamava Leonardo Fontana.
Non c'era ancora la sanità, che è venuta più tardi. Ma il nostro fronte era calmo, molto calmo. Non vi son stati grandi fatti d'arme.
Volevano conquistare il Peralba una volta, e c'è stato un morto: un Monti di Auronzo. Son saliti sul lato sud, sopra le sorgenti del Peralba, con una guida di qua, Obertaller Giuseppe, si chiamava. Attraversato il Peralba, sono scesi di là per il passo, che c'è il passo Sesis, ma son venuti i rinforzi e li hanno cacciati. È rimasto morto questo Monti, che c'è un segno là sulla roccia.
Del resto molti morti non ci son stati. Quassù c'era poca battaglia. La battaglia era più sulla Carnia: sul fronte di Passo Monte Croce Carnico era battaglia forte.
Pavan. Per quello è stata una sorpresa quando vi hanno detto di andar via. Voi non capivate...
R. Noo... ma perché andar via? Ma se non ci buttavano quelle maledette [bombe a mano], se non ci dicevano venite, noi non ci si accorgeva neanche. Invece, maledetti!
Noi avevamo venti quintali di granoturco. Comperato, naturalmente, perché mio padre e mio zio smerciavano sempre, perché per l'inverno non si sa...
L'inverno prima c'erano nove metri di neve. 
Nel 1916-17 c'erano nove metri di neve, qua in paese! Allora si ha paura. Noi eravamo famiglia numerosa, eravamo in diciotto. Otto figli più papà, mamma, nonno e nonna, poi c'erano zio e zia, con quattro figli. Si mangiava tutti sullo stesso tavolo, come una volta: una famiglia patriarcale. Al ritorno non abbiamo più trovato niente.
D. Le portatrici, cosa andavano a portare?
R. Andavano a portare viveri e munizioni, specialmente quelle della Carnia. Anche qua avevamo una squadra. Ce n'erano quindici - venti che portavano su ai Laghi d'Olbe viveri. Poi dal 1916 al '17 han fatto la teleferica, che non occorreva più andar su. Funzionava quella teleferica. 
C'erano queste donne: portavano perfin sabbia e cemento per fare le postazioni per l'artiglieria, che magari sull'ultimo non han sparato un colpo.
Erano ragazze, forse qualcuna sposata - mi pare una sola - e prendevano qualcosa; non facevano mica per niente. I giovani (maschi) ce n'è uno solo che era come portatore, si chiamava Virgilio Eccher. Era del '900, non doveva ancora far militare.
Preferivano le donne che erano più "buone" col gerlo.
Ehi, gli uomini ... chi ha mai visto un uomo col gerlo?
Le donne sono abituate, specialmente quelle carniche. Quelle carniche "nascono col gerlo".
*
[Per controllare alcuni nomi di Arezzo, leggo dalle sue memorie scritte].
Cav. Subbiani (proprietario della villa in cui era alloggiato Puicher). Mesticheria: il capocommesso era Attilio Serrini; il negozio si trovava in corso Vittorio Emanuele di fronte alla chiesa di S. Spirito; proprietario era il professore Ricci, insegnante di disegno, sotto le armi. 
Alla barriera del Dazio, in fianco a destra c'era un caffè bar dove con una palanca mangiava la minestra alla trattoria del Corso. [...]
*
A Sappada, fronte tranquillo. Quelli della Croce Rossa erano sei soldati, han avuto poco da fare: qualche congelato.
Il peggio è stato lassù verso il fronte. 
Uno stradino borghese gli aveva detto: «Ma cosa fate qua?»
Han fabbricato delle baracche, i finanzieri, a fianco di un bosco. C'era una scia che scendeva dal monte Lastroni e lo stradino gli ha detto:
«Ma no... là se viene la neve forte vien giù la valanga.»
Guai a parlare così, poi ti portavano via!
Non è venuta giù - quella volta del 1916-17 che c'erano qua 9 metri di neve - una massa di neve... 70 finanzieri sono andati sotto la valanga, morti. Gli unici, forse, con pochi altri.
Lo stradino si chiamava Eder Antonio. Le baracche erano in località Sésis dove c'erano delle capanne di legno dei nostri contadini. Li han seppelliti là e poi li han portati a Redipuglia. Gli è venuta giù una massa di neve che dopo due tre anni li han tirati fuori dal Piave. Son andati giù nel Piave con la catasta di neve. Uno si è salvato. Dice: «Mi son salvato perché avevo una medaglia della Madonna», perché l'ha buttato fuori, è andato a finir sopra e si è trovato sul prato di là, sull'altro versante.
Il fronte era sul confine. Noi avevamo un confine molto breve dal Peralba al Chiadenis, passo Sésis. Questo è il nostro comune. Dopo c'era la Val Visdende, che era vasto, era grande, quel fronte.
Laggiù c'era poco da fare sopra Forni Avoltri; la battaglia era sul Monte Croce Carnico.
*
[Leggo dalle sue memorie]. Mio padre era stato in Baviera come capo muratore, emigrante e poi aveva fatto il contadino. Poi, con i carri e i buoi andavano fino a Belluno per rifornire di merci le due cooperative che c'erano a Sappada e quando è arrivata la ferrovia, andavano fino a Calalzo.
In paese c'erano tre mulini ad acqua. [...]
Le portatrici di Sappada... visto che le colleghe di Timau erano diventate Cavalieri di Vittorio Veneto, hanno fatto domanda e ottenuto di diventarlo anch'esse. [...]
*
Perché a Sappada non volevano partire, dopo Caporetto.
I vecchi avevano fatto il militare sotto l'Austria e si parlava la loro lingua...
Noi andiamo in pellegrinaggio in Austria oltre il passo, a piedi, dieci ore: a Maria Luggau. Si passa per il passo del Sesis.
Siamo amici, con quelli là. Anche adesso si continua ad andare in processione, in 300 e anche più; anche in questi anni, sempre la terza domenica di Settembre.
Però quelli a piedi partono il sabato e dormono lavvia. I frati hanno 90 letti, brande.
Io che sono anziano andavo via ultimamente con la corriera o con l'auto, di domenica.
*
Domenica c'è una processione fenomenale, coi costumi, carnevale.
*
Ho conosciuto una ragazza di Treviso, all'ospedale, dove anche la ragazza aveva suo padre. Con questa ragazza mantengo corrispondenza...

Nastro 1996/2 - Lato B

... si chiama Michela Betteti, suo papà si chiama Domenico [...].
La ragazza: un raggio di sole ... io le do qualche consiglio.
Quella volta in ospedale avevo una bronchite e mi devo riguardare ancora dalla bronchite.
*
Gli italiani hanno rinunciato al Peralba e hanno preso il Chiadenis, che è più basso, per difendere il passo Sesis. Ma non era pericoloso il passo Sesis, come il Passo Monte Croce Carnico dove c'era una carrozzabile mentre qua non c'era.
Qua non poteva passare un esercito.

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