martedì 21 settembre 2010

Primo Martin, Rovarè di San Biagio di Callalta (TV)

Nato il 26 ottobre 1907. Residente sul Montello in località Santa Maria della Vittoria.


Nastro 1986/25 - Lato A       (Dall'inizio su nastro orig.)                           26 ottobre 1986

La nostra famiglia si è divisa nel 1921. Prima si mangiava tutti in una pignata ed eravamo in 127 persone, che abitavano però in quattro case. Si era fittavoli del barone Onesti da Paese. 
Una casa era a Rovarè di San Biagio, località Ca' Lion, un'altra lungo la strada Callalta, un'altra ancora lungo la Callalta in località Fatutto e una in comune di Breda. [...]
Si pagava l'affitto a generi al Barone Onesti di Paese... [spiega il tipo di conduzione agraria e la produzione dell'azienda].

Nastro 1986/25 - Lato B   

[...]
02:58 Nel 1917 abitavo a Rovarè lungo la Callalta in zona chiamata Fatutto. Da Treviso ad andare a Ponte di Piave è a sinistra. La terra era attraversata dalla ferrovia, la casa era di là della ferrovia e la Callalta faceva confine con la nostra terra.
Tre giorni prima de San Martin ... oramai erano venti giorni che avevano chiuso le scuole perché c'era la truppa che passava sulla Callalta e si dovevano fare tre chilometri di strada per andare a scuola; si doveva camminare lungo la Callalta fino vicino ai carabinieri di San Biagio...
Quando è venuta la disfatta io ero ragazzino. Vedevo tutti questi soldati e mi chiedevo: «Ma dove andranno, pori fioi
Tutti questi soldati che camminavano, e noi ragazzini si era entusiasti.
C'erano quelli del parco buoi che andavano a sequestrare le bestie, e sono venuti anche a casa nostra. Erano montati a cavallo delle vacche e dei buoi; camminavano lungo la Callalta venendo da Ponte di Piave e andando verso Treviso. Per tre giornate.
Dopo – tutto ad un tratto – bloccato. Marcia indietro. 
Perché, mi avevano spiegato degli ufficiali, [dapprima] Cadorna aveva intenzione di fare la linea di sbarramento sul Po, invece dopo è venuto che l'hanno fatta sul Piave. E noi saremmo stati neppure a cinquecento metri dal Piave.
Quando hanno iniziato a tornare indietro, venivano dentro per la casa nostra, dentro per la campagna, che era anche larga oltre che lunga.
Una sera è venuto dentro un plotone di carabinieri e hanno detto a mio nonno: «Nonno, dov'è che hai il pagliaio?» Il nonno gliel'ha indicato: «È laggiù», perché mio padre era soldato anche lui.
Avevamo una cucina lunga come tutta la casa e i carabinieri si sono messi la paglia lungo i muri della cucina, da una parte e dall'altra con in mezzo la tavola, e non hanno neanche disturbato. Stavano là chiacchierando, così, con un boccale di vino sulla tavola, ma un boccalone di quelli che tenevano dieci litri, quando è venuto dentro un capitano degli arditi.
Quelli non chiedevano il permesso. È venuto dentro, si è presentato là, ha guardato attorno: «Nonno, chi è che ha preparato questa paglia qui?» E il nonno: «Poveri fioi, devono dormire... ». Il capitano si è abbassato, ha preso lo stiletto che aveva sugli stivali, l'ha piantato sulla tavola e: «Voi andate a trovarvi un altro posto» ha detto «perché questo serve a me!» E anche se erano carabinieri, hanno dovuto andar via. 
Dopo neanche un quarto d'ora sono entrati gli arditi, che hanno preso il posto dei carabinieri.
Il capitano entra per ultimo e dice al nonno: «Qua non c'è più vino, dov'è che hai la botte?» E il nonno: «Vien de qua fiol, vieni di qua». Tremava di paura perché, ciò, un vecchiotto ... e ha portato il capitano di là dove, sotto una scala, c'era una botte da cinque ettolitri, una botte grande così.
Sotto, sa che hanno el spinèl [lo zipolo], le botti ... mio nonno ha preso el bocal [caraffa] ed è andato per spillargli il vino, e il capitano dietro. Quando ha visto questo spinèl, prima che si riempisse el bocal il capitano tira fuori la pistola. Tre quattro schioppettate ... ed era italiano. [Forata la botte].
Alla mattina quelli sono partiti presto. Partiti loro, e non so dove li abbiano mandati ... verso le nove e mezza-dieci vengono dentro tre ufficiali. Non ricordo che grado avessero, e io tutto contento «guarda, ho detto, ci sono qua soldati ancora».
Loro mi hanno detto: «Bocia, dov'è tuo padre?»
«Mio padre è militare», gli ho risposto.
«E chi hai a casa?»
«Mio nonno»
«Va a chiamarmi tuo nonno!»
Era in stalla. Sono andato: «Nonno, vien fuori che ci sono i soldati che vogliono parlare con te.» – «Chi sono?» – «Non lo so, sono montati a cavallo»
E mio nonno viene fuori.
«Nonno - ha detto - quel portico là, devi liberarcelo. Tira fuori i carri...» 
C'erano carri, versori [aratri], rastrelli, di tutto.
«Perché, fiol?» ha detto mio nonno.
«Perché ci occorre a noi» – «Si ma io... » – «Beh, fai quello che puoi»
Dopo un'ora, un'ora e mezzo, è entrato uno squadrone di cavalleria e hanno tirato fuori tine, tinassi, tutti quanti gli attrezzi che si adoperavano per l'agricoltura. Hanno tirato due corde metalliche da una parte all'altra ma per [legare] i cavalli non erano ancora sufficienti, allora hanno piantato una corda nel cortile, distante quattro metri da casa.
Dopo sono andati sul solaio, che il solaio era pieno di pannocchie, e hanno preso la palota [pala] di legno – che una volta si aveva quella palota di legno apposta per mischiare le pannocchie – e butta fuori pannocchie per il balcone, per dare da mangiare ai cavalli.
Questi soldati hanno detto al nonno di non andare via, perché «fra due-tre giorni i tedeschi passano e tu resti qua». Sarà stato il 7 o l'8 di novembre.
Invece, l'11, il giorno di San Martino, quando erano le tre e mezza-quattro è entrato un plotone di carabinieri, con il fucile e la baionetta innestata: «Via da qui, via da qui, via, via [...] perché c'è l'ultimo treno che parte da Spercenigo.»
Mia madre ha chiesto:«Ma dov'è che ci portate?» Stava cucinando la oca per la festa di San Martino e gli toccava lasciar là tutto sulla pignatta, tutto il pollame ... bestie, piena la stalla.
Ci hanno portati a Spercenigo e siamo saliti sul treno.
Abbiamo chiesto: «Dov'è che ci portate?» – «Eh, han detto, appena di là di Treviso, prima di Padova.» E abbiamo corso tre notti e tre giorni. Ci hanno portato a Napoli!
Era una tradotta che aveva tre macchine a vapore e deve essere stata anche lunga. Perché aveva preso su gente da tutte le parti, anche quelli del Friuli, non solo i nostri. Dopo si sono attaccate delle altre tradotte, alle altre macchine.
Una macchina è rimasta senza carbone quando si era a Ferrara, giù per quelle campagne là, che si sono quei vigneti con i pali. Hanno fermato e sono andati a levare i pali delle viti per far fuoco sulla macchina del treno.
Le ho detto che ci vorrebbe una giornata a raccontare tutto!
A Napoli, quando siamo arrivati ci hanno messo sulle case dell'Ospizio Marino. [...]
Siamo arrivati come questa sera verso le sette e domani mattina ci hanno messo a dormire su un salone. Si era cinque figli, e mia madre fa sei.
Alla mattina passava il dottore a fare la visita e ha trovato un fratello mio, quattro anni più giovane, che aveva tutti gli occhi rossi e ha detto: «Questo bisogna portarlo sull'ospedale». Mentre lo portavano via, mia madre si è messa a piangere. Il dottore le ha detto: «Signora, mettiamo un cartello sulla porta, che lei non viene disturbata. Finché suo figlio non guarisce, lei da qui non si muove.»
Dopo hanno iniziato a venire dei signori a portare caramelle e questo e quello, per questi profughi che arrivavano; anche roba da vestire. Al terzo giorno che si era là, ormai si era lusingati, quando si vedevano questi gruppetti di signori si correva per prendere qualcosa.
Un dopopranzo, verso le tre, un signore grande come mio figlio, così, più grosso un poco, mi fa: «Vieni qui, bocia, vieni qui».
Io mi sono avvicinato, credevo che mi desse qualcosa, invece mi chiede: «Dov'è il papà?»
«È militare»
«Tua mamma, dov'è?»
«È dentro in sala, in camera»
«In quanti siete»
«Siamo in cinque»
«Vammi a chiamare tua mamma», e io vado.
«Màre, vien fora che ghe xe un sior che vol parlar co ti.»
Mia madre è venuta fuori, con le lacrime agli occhi, e lui:
«Signora, guardi, se lei accetta ... io - ormai ne ho trovati degli altri qua - mi occorre [ho posto per] ancora un poca di gente.»
Questo sior era il principe Colonna di Napoli.
A Posillipo c'è l'Ospizio Marino, e loro l'avevano vuoto. Il principe ha detto: «Se lei mi dice [di sì], prepari quel po' di robe che ha e io vengo qui col tram» – che là c'erano i tram che circolavano – «e vi porto là.»
Mia madre ha detto di sì, e siamo stati là.
[Della nostra famiglia] eravamo noi soli e la mamma, perché tutti gli altri si erano sparpagliati. Non ci siamo riuniti che quando, nel '19, siamo venuti a casa, dopo la guerra.
A casa abbiamo trovato tre baracche. 
La nostra casa era sparita, invece quella del Calion e quella del Faon erano rimaste in piedi, ma era rimasto in piedi solo lo scheletro delle case. Tranne a quella del Calion – che la stalla era col solaio fatto di cemento – i militari, o per far fuoco, o per fare i ricoveri e i rifugi hanno tirato via tutti i solai, i balconi, le porte. Era tutto sparito.
E la campagna? Non si poteva neppure uscire finché non fosse passato il rastrellamento. Hanno fatto il rastrellamento prima di congedare i prigionieri tedeschi. Ma saremo stati tre mesi sotto sorveglianza, con le sentinelle dei militari che non ci lasciavano andar fuori nella campagna, perché se si andava fuori c'erano munizioni dappertutto.
Io sono scappato diverse volte, ho visto un po' di terra mossa, ho trovato una "signorina". Sa com'erano le signorine, una volta? Erano un pezzo di legno lungo così, con un bussolotto come quelli della birra. Nella punta avevano l'elica.
Avevo visto gli altri soldati come facevano ... l'elica aveva un cerchietto [na sc'ionèa]. Bisognava tirarlo via e svitarlo.Quando la si lanciava con il manico e [la signorina] cadeva, l'elica aveva un percussore che andava a battere la capsula e scoppiava.
Così, quando io ne ho trovata una, ho fatto anch'io come avevo visto fare gli altri, perché quando si è boce si imparano le malagrazie alle svelte. Ho preso di quelle pedate sul culo, quando hanno sentito questa schioppettata!
[Le signorine] erano come bombe a mano, ma diverse dalle Sipe.
Siamo arrivati a casa dopo la guerra, nel mese di settembre del 1919. Era passato quasi un anno dalla guerra. C'erano ancora i prigionieri tedeschi e la terra non era ancora bonificata.
Abbiamo dovuto [aspettare] la primavera successiva perché in tutto l'inverno non abbiamo mai potuto far niente. Neanche seminare. Perché le viti e i gelsi, per la maggior parte, erano tutti quanti falciati a questa altezza qua, perché i combattimenti erano venuti anche oltre il Piave e noi si era a cinquecento metri dall'argine.
Abbiamo iniziato a seminare nel '20, nella primavera del 1920. [...]
Nel 1921 si era ancora sulle baracche. A Faon avevamo tre baracche e gli altri ceppi della famiglia ne avevano due ciascuno. Altri si erano sistemati nelle tèze, se c'erano.
Dopo, le cooperative hanno fatto subito i solai e hanno iniziato a mettere a posto le case che erano rimaste in piedi. [Perché] una era stata annientata completamente: quella che era anche la più vicina alla linea del fuoco e si trovava sul paese che si chiama San Bortolo.
Poi è venuto che ci siamo divisi perché non c'era più posto per tutti, e ci siamo divisi nel 1921.
Mio povero padre con mio fratello più vecchio ha preso una campagna giù nella palude delle Sette Sorelle a San Stino, tra la ferrovia e la Triestina.
Là il primo anno è andata ancora il manco peggio. Dopo è venuto che Mussolini ha fatto la bonifica, che ha tirato a bonificare la palude delle Sette Sorelle, e abbiamo preso la malaria.
Noi che si veniva da un posto che non c'era la malaria siamo stati i primi a prenderla, perché quelli che erano nati là erano più resistenti. [...]

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