mercoledì 15 settembre 2010

Angelo Furlan, Stabiuzzo frazione di Cimadolmo (TV)



Nato il 23 giugno 1912, residente a San Michele di Piave (TV).

Nastro 1994/28 - Lato B 18 agosto 1994

Mi ricordo quando siamo andati profughi a Rai [di San Polo di Piave]; da Rai a Pordenone e da Pordenone a Udine. Siamo tornati dopo due anni a Rai, da Bonotto. Da là siamo ritornati a Stabiuzzo e abbiamo fatto su un "casotto" per poterci ricoverare. C'erano tutte le granate, il demonio...
Appena ritornati – avevo sette anni e mezzo, otto anni – si andava a prendere il rancio dai militari che erano ancora qua.
Io sono nativo di Stabiùss (Stabiuzzo), frazione di Cimadolmo, e là c'era un disastro.
Mio padre si chiamava anche lui come me Angelo Furlan [...], mia mamma si chiamava Amalia Vidotto. Eravamo in dieci fratelli [...] Mio padre e mio zio erano in guerra e si trovavano: mio zio a Zenson di Piave e mio padre a Treviso, sotto il Ponte della Gobba. Mio padre, siccome aveva tanti figli l'hanno lasciato nelle retrovie, ma tra militare e guerra si è fatto lo stesso nove dieci anni di guerra.
Ricordo che a dare il segnale che bisognava partire hanno suonato una tromba; veniva giù suonando una tromba avvisando di allontanarsi dal Piave.
Da Stabiuzzo siamo andati a Rai, da un certo Bonotto. Non avevamo fatto un chilometro che una granata ha colpito in pieno la nostra casa, fracassandola. Dentro avevamo delle bestie, dei tori: tutti morti. Abbiamo fatto appena in tempo di scappare. [...]
Siamo partiti che avevamo due vacche e appena arrivati da Bonotto ce ne hanno portato via una subito, i tedeschi. Perché noi eravamo stati mandati via dagli italiani e siamo andati incontro ai tedeschi.
Da Guido Bonotto siamo rimasti un paio di giorni. Abbiamo dormito due notti nel cimitero di Rai e da là ci hanno portato a Codroipo dove, con le barche, ci hanno passato oltre il Tagliamento e siamo andati a Udine, nella frazione di Santa Caterina. Là siamo stati tutto il tempo, in una famiglia ... ma abbiamo cambiato due tre volte, abbiamo dormito anche sotto un pajèr de paja [un pagliaio].
I furlani non ci trattavano troppo bene, perché noi avevamo fame e si andava in cerca di mangiare e ne avevano poco anche per loro.
[Qualche anno dopo] sono stato a casa della famiglia che ci aveva ospitati, perché ho fatto il militare a Udine e allora sono andato a trovarli, in piena amicizia, perché [durante l'occupazione] non ce n'era per noi e non ce n'era neppure per loro da mangiare. Perché dove passavano i tedeschi facevano piazza pulita, portavano via tutto, neanche la calièra [il paiolo] non gli lasciavano, niente!
A Udine, da profugo, sono andato anche ad elemosinare [in mòsina]. Andavo con i miei fratelli e mie sorelle in cerca di sale o di qualcosa per poter mangiare. Qualcosa si trovava.
Quando tagliavano frumento si andava a spighe. Se ndéa a mùssoe [scarti di pannocchie] dove c'era da prendere su la biava. Si cercava di arrangiarsi meglio che si poteva.
Fame vera e propria non ne abbiamo patito, se non all'inizio, anche perché ci siamo fatti una provvista di due quintali di frumento raccogliendo le spighe e potevamo farci il pane. Un mio zio con un bato-c [battocchio] dentro un bossolo di granata faceva farina, pestando come in un mortaio. La farina veniva utilizzata così come usciva, "integrale", con le scorze e tutto. Le donne cuocevano questi "panettoni" - grossi pani - sotto a un coperchio di lamiera, senza forno.

Nastro 1994/29 - Lato A

Noi siamo stati fortunati perché eravamo riusciti a tenerci una vacca. L'avevamo tenuta nascosta sempre sotto la paglia e così riuscivamo ad avere il latte nostro. I tedeschi andavano con quelle sciabolone a pungere dentro alla paglia e noi siamo sempre riusciti a tenerla nascosta quando si sapeva che erano in giro. Dentro a un gran pagliaio si era fatto un ripostiglio, e poi si era d'accordo con le famiglie dei dintorni.
A proposito di sciaboloni. Ricordo che alla fine della guerra quando gli inglesi avanzavano, con quegli sciaboloni si sono scontrati con i tedeschi e andavano giù, si colpivano e si tagliavano come le cipolle. Avevano di quelle sciabole lunghe un metro, un metro e mezzo e si sbregàvano come sbregàr le angurie. Erano gli inglesi con i cavalli.
Noi abbiamo anche patito la fame, ma c'era chi ne ha patita più di noi.
Andavamo a rubare per i campi e non avevano niente, neppure il coltello per ammazzarci, i furlani. Si andava a rubare quei ravi dolci e rossi e ci correvano dietro con la forca.
Un mio cognato è stato tre giorni legato ad un pino perché è andato a rubargli due susine; legato con le mani dietro al culo. Si chiamava Arturo Barbaress. Il padrone lo aveva preso e legato; era un omenon grando che gli correva dietro con la forca. Si chiamava Papanòte.
I tedeschi dove passavano portavano via tutto. Era per quello che i furlani erano cattivi, perché i tedeschi dove erano passati avevano lasciato piazza pulita ... come poi hanno fatto giù per la Grecia, e qua avevano fatto uguale: anche le caliere avevano portato via.
Siamo stati profughi circa un anno e mezzo - due.
Siamo tornati dapprima a Rai e là siamo rimasti fermi per qualche mese. Mio padre veniva a prenderci e portarci dove si abitava prima. Abbiamo fatto su un baracchino per poterci ricoverare; senza baracca vera e propria, che ce l'hanno data dopo un anno-due.
In attesa delle baracche abbiamo dovuto arrangiarci. Questo baracchino era fatto con lamiere e tavole, ed era appoggiato a un muro della casa rimasto in piedi.
La terra era tutte buche. Su sei campi avevamo seimila buche di granata.
Noi eravamo a non più di duecento-trecento metri dal Piave.
C'erano trincee e tante buche. [...]
I tedeschi avevano trovato un mucchio di vino ed erano tutti ubriachi. I nostri hanno lasciato libero il Piave [hanno chiuso le prese d'acqua di Brentella e Piavesella] e così li hanno fermati, altrimenti i tedeschi andavano giù diretti, invece così li hanno annegati.
Non solo la nostra terra, ma quella di tutti era così colpita dalle granate.
Io sono stato a lavorare per trent'anni in un'azienda delle grave [di Papadopoli], l'Ente delle Tre Venezie. Arando si trovavano ancora granate e ossi, e anche barche. E non è tanto tempo che delle persone sono morte [maneggiando] i proiettili della prima guerra.
Quante granate abbiamo seppellito e quante ne sono state portate via! Un'infinità di munizioni. Era tutti i giorni un incidente.
Il Genio aveva tolto su il più grosso e allora i nostri vecchi le hanno anche seppellite, magari in queste buche dove ci starebbe stata una casa intera. C'era "una strage" di munizioni. Di quelle granate!
La terra che lavoravamo a mezzadria apparteneva a un certo Biffis Gerolamo da Mareno: non era particolarmente ricco ma aveva due tre campagne.
La baracca, prima di darcela, ci hanno fatto aspettare di sicuro due anni, là nel baracchino coperto di lamiere, uno sopra all'altro.
Poi fu rifatta anche la casa, ma noi siamo andati dentro alla casa nuova nel 1928-29. Eravamo tutti nelle baracche. Da noi era venuta un'impresa da Verona a ricostruire il paese.
Il paese di Cimadolmo, quando noi siamo ritornati, aveva poche case in piedi. O meglio, c'era solo qualche pezzo di casa in piedi, ma qua lungo il Piave non ce n'era nessuna. Chiesa e campanile, tutto a terra. Era rimasto in piedi qualche frontàl [facciata], qualche pezzo di muro.
Oggi siamo tuti siori, ma poareti di salute. In quegli anni io pensavo solo a riuscir a mangiare, questo era il pensiero ricorrente. Sono arrivato a vent'anni senza mettere un paio di scarpe. Eravamo in tanti in casa, dieci fratelli. Io ne ho avuti tre, di figli.
Noi siamo stati fortunati con i residuati bellici. Eravamo dieci fratelli e siamo stati forse l'unica famiglia a non aver avuto incidenti.
Tanti si sono fatti male, tanti anche si sono ammazzati, con petardi, bombe, sipe. Tutte schegge (petardi e sipe): quando ne esplodeva una eri morto.
Sono stato ferito anch'io con una di quelle, giù per la Grecia [durante la Seconda guerra mondiale]. Alle mani e a una gamba. Mi sono fatto dieci anni con le stellette, mi sono arrivate tante di quelle cartoline...
Vorrei soprattutto che mi domandasse dell'ultima guerra. Sono ritornato a casa per un pelo, dalla Grecia, su in montagna. Uno ti tirava sulla schiena e un altro sulla fronte e noi eravamo in mezzo; se non arrivavano i tedeschi a liberarci non si sarebbe qua nessuno.
Noi avevamo un portico grande [interviene la moglie] e mia mamma e mio papà sono ritornati a casa a riprendersi quel poco che era rimasto.
Uno sdrapnel li ha colpiti e a mio nonno ha tagliato il tacco della scarpa. Mia mamma si è presa due pallottole, sul petto e la spalla. Mia zia invece è stata ferita da una pallottola a una gamba. Sono state caricate in una carretta bastarda e portate all'ospedale di Oderzo. Dicevano che mia madre sarebbe morta e mia zia si sarebbe salvata, invece è avvenuto il contrario. Abitavamo a San Michele del Piave.

Nastro 1994/29 - Lato A

Aggiunte e precisazioni (13 settembre 1994)

Furlan. Ricordo di aver sentito questa tromba "a farfalla" [?] che suonava per avvertirci di scappare.
Abitavamo proprio in centro a Stabiuzzo, in via Castellana.
Abbiamo dormito nel cimitero, nel recinto del cimitero. Non era un cimitero come quello di adesso, era un cimitero dei poareti, senza tettoie e colombere.
Da Bonotto, dove abbiamo dormito per due notti, ricordo che nella prima notte uno che abitava qui vicino — chiamato Jijéto dea Ghitara, (era uno che andava poi anche a strass e oss e all'inizio, appena tornati qua, vendeva anche aghi) — ha fatto una fasoràda de garnèi co i scorsi del porsèl [una padellata di "pop corn" con le cotiche del maiale]. Garnèi, cioè le s-ciòche.
Non è che noi abbiamo mangiato le s-cioche assieme, ma io le ho viste fare.
La casa dei Bonotto era una gran casa e là c'era anche un reparto di tedeschi.
Ho visto anche che hanno impiccato un soldato, perché avevano scagliato una bomba ed erano morti un pochi di soldati. Ho visto che il soldato responsabile è stato legato ad un palo con le mani dietro il culo. Io l'ho visto solo legato a un palo, e ho sentito dire che l'hanno ammazzato.
Il cimitero di Rai era lontano dalla chiesa.
Da Stabiuzzo siamo partiti con un gruppo di famiglie, aiutandoci uno con l'altro, con mezzi propri. Le altre famiglie erano: i Barbaress, Segat Giovanni, Pietro Furlan, Jijio Furlan, Antonio Furlan. Con loro siamo arrivati fino a Udine.
"In elemosina" sono andato a Pordenone. Là si mangiava la polenta di sorgo e si andava in elemosina di sale. Pordenone è stata una tappa nella fuga verso Udine.
Mussoe: sarebbero panocchie scarte, piccole, ammalate, lasciate in dietro; gli scarti.
Io ero il più vecchio di sette fratelli e andavo in elemosina con la sorella più vecchia, Elvira, del '6, e l'altra sorella più grande, Teresa.
Mio zio Luigi Furlan, era lui che macinava il grano col batocio di ferro dentro al bossolo. Batteva dentro questo vaso, dentro questo grosso bossolo di granata.
Per fare il pane sul larín [focolare] avevamo un coperchio di latta. Era una specie di pentola, di bacinella rovesciata sotto la quale mettevamo il pane a cuocere, mettendoci sopra delle braci dopo aver pulito le pietre del larin.
Moglie. Anch'io l'ho fatto così, il pane, e fino a non tanto tempo fa.
Prima si scaldavano le pietre del larin... Chi aveva la cucina economica era un conto, ma chi aveva il larín faceva così, dappertutto, nella zona.
Furlan. Gli inglesi li ho visti che punzecchiavano dentro ai covoni di canne di granoturco, per cercare se c'erano tedeschi, con gli sciaboloni.
Quando gli inglesi correvano dietro ai tedeschi erano a cavallo.
Mio cognato Arturo Barbaress è rimasto legato 2-3 giorni, da Papanòte, che era il padrone cui aveva rubato delle susine e che ci correva sempre dietro con la forca.
Le baracche, il Genio ce le ha date solo nel 1921. Prima ci siamo arrangiati noi costruendo una specie di baracca appoggiata a quello che era rimasto della casa. Ricordo che andavo a prendere il rancio con la gavetta dai soldati del Genio, che venivano a chiudere le buche.
Eravamo in cinque fratelli: io, Giovanni 1913, Rino 1915, le due sorelle più i genitori.
Non ricordo se gli abitanti hanno fatto proteste per le baracche.
Ricordo che mio padre mi portava sulle spalle, e c'erano tutte buche.
Strade non ce n'erano. C'erano munizioni dappertutto, gran cataste di munizioni, a destra a sinistra, dappertutto.
Strade non ce n'erano, c'era solo qualche tròi [viottolo] per camminare. Poi il Genio ha sistemato tutte le buche.
Era tutto sbusà.
Il Genio ha dovuto lavorare tantissimo: c'erano di quelle buche che dentro ci stava una casa. Era impossibile lavorare la terra; c'erano erbacce...

Noi da profughi si andava a spighe e siamo riusciti a mettere via, a raccogliere tre quintali di frumento, fra fratelli e sorelle. Portavamo a casa un mazzetto ciascuno di spighe e a forza di tanto sono saltati fuori tre quintali. Così ci siamo fatti un po' di riserva.

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