domenica 26 settembre 2010

Domenico Pelizzo, Faedis UD

Nato il 25 giugno 1907

Nastro 1996/24 - Lato A                           9 ottobre 1996

Io ero piccolo e i tedeschi - vi erano dei colonnelli - mi dicevano «meine kleine». Mi ricordo sempre quelle parole, che volevano dire "tu sei il mio piccolo bambino". Avevo 11 anni.
Oh mi ricordo che veniva sempre questo colonnello in casa a vedere che cosa si mangiava. Qua c'era il comando, e allora cosa succedeva? Io, ero furbacchiotto! Avevamo il pollaio, e andavo a portar via le uova. Lui si è accorto di questa cosa e ha messo la guardia. Si aveva un alveare, e per far scappare la guardia stuzzicavo l'alveare. Uhi! ahi, ahi! ahi! Mi ricordo ancora la guardia, non mi dimenticherò mai.
D. Ma era buono nel complesso o cattivo, questo colonnello?
R. No, buono.
I tedeschi sono stati qua, faccia conto ... erano qua arrivati nel mese di ottobre, si era scappati tutti, noi.
Quando siamo tornati era tutto per aria la casa.
Sono arrivati verso novembre, dicembre ... il comando; poi giugno, e poi ci fu la rivoluzione nel momento che stava per finire.
Il colonnello era austriaco.
Dopo portavano qua dei prigionieri che facevano pietà. Li mettevano là e avevano fatto un gabinetto, con un legno, così. Povera gente!
C'erano anche gli ungheresi, qua, oltre che gli austriaci, tanto è vero che quando si andava in piazza - c'era una guardia in piazza - e noi bambini in fondo alla piazza [si gridava] «gheneraleu!», generale! e si vedevano tutti quanti questi soldati muoversi, mettersi in ordine, e dopo vedevano che non era vero niente. Li prendevamo in giro. Bambini!
Per il mangiare ci si arrangiava: polenta, il mangiare friulano. Quando si faceva la polenta c'era tutto.
[...]
La casa era di nostra proprietà, ed eravamo in sessanta di noi, in quella casa, con tre donne. Mia mamma ha avuto ventidue bambini, mia zia che era sposata ventitre, l'altra zia diciotto; e un'altra zia, sorella di mio padre, venti anche lei.
Avevamo una bella stalla con le mucche, ma ce le avevano portate via ed eravamo restati con due-tre mucche su venti mucche che avevamo prima. Era piena quella stalla, piena. La stalla che si vede adesso è uguale di come era allora.
Io avevo dieci anni e dietro di me avevo ancora quattro sorelle e prima di me ce n'erano altri tre. [...] Lavoravamo una cinquantina di campi, e faccia conto ogni tre campi un ettaro. Era una famiglia che si stava bene.
Si faceva due trecento ettolitri di vino, o refosco o verduzzo oppure americana.
Poi si faceva anche granoturco, ma quella volta i campi non rendevano come adesso: quando facevano dieci quintali al campo era tanto. Di frumento si facevano cinque sei quintali.
Quella volta era così, oggi con l'evoluzione è cambiata. Oggi ne fanno trenta quintali. È cambiata, con la questione dei concimi, tutto là. [... ]

Nastro 1996/24 - Lato B

D. Prima che arrivassero i tedeschi c'erano gli italiani che scappavano, li ha visti scappare, lei, gli italiani?
R. Non posso ricordarmi quello, mi ricordo dei tedeschi perché dopo, quando si era bambini, si era anche "arruolati". Si faceva una finta guerra, sì. Ci si addestrava alla guerra. Si giocava nei boschi, si tirava. Scherzavamo: si metteva le cartucce e con un chiodo così partivano. Cartucce ce n'erano dappertutto. C'erano tante di quelle munizioni da fare spavento e chi le voleva le prendeva su, le altre restavano là.
In quell'appezzamento là, mi ricordo che hanno seppellito non so quante casse di bombe. Non so se le hanno levate, dopo, quello non lo so, ma io ho visto metterle giù, far le buche e metter le bombe sotto. S'intende dopo, finita la guerra.
C'erano tante di quelle munizioni che facevano spavento, dappertutto, di tutte le qualità. C'era la dum-dum, la pallottola dum-dum tedesca, c'era quella inglese, tutte le qualità di munizioni.
Noi bambini si andava a scuola e poi ogni domenica o sabato si andava a giocar di guerra, sulle colline, per distrarsi. No le bambine, solo bambini.
D. Nessun bambino si è fatto male giocando con queste cartucce?
R. No, no, combinazione no.
[Si giocava anche con] una ruota su questa collina quavvia, che si chiama Candè. Era fatta a salti e noi si andava sopra e si mandava giù questa ruota che ci saltava. La ruota era di ferro, quella del carro. Bambini, bambini! Nessuno si è fatto male.
Durante la guerra avevo il fucile fatto proprio con la baionetta e tutto, di legno. Ma ... mettere la cartuccia, premere e partiva. Si spingeva la capsula con una susta [molla] e partiva; soltanto crac e partiva.
Degli italiani passati scappando non ricordo.
Eh, chi l'ha visti! In quel momento è stata una valanga, la ritirata. Ognuno cercava alla più stretta di partire; via, avanti.
Perché era qua a Canebola ... non si ha saputo il nome di chi è stato quel soldato, è stato bravissimo. Tre giorni e tre notti con le metraglie continue. Aveva un tre metraglie ... tac, tac... tre giorni e tre notti continuamente a sparare. Finalmente l'hanno accerchiato i tedeschi e allora l'hanno ammazzato. Tutti dovevano dargli una pestata. L'hanno tagliato a forza di pestare, poverino, non si ha mai saputo chi era.
D. Chi ha detto che l'hanno tagliato?
R. Eh, orco can, sicuro. Quelli di Canebola non sapevano che era un italiano? Lui ha tenuto tre giorni indietro i tedeschi.
Vede lassù la vallata? Si va giù dopo, ed è una strada che arriva in ca' della Jugoslavia. Passavano su, e lui con le mitraglie li ha tenuti indietro per tre giorni.
Lui meritava la medaglia d'oro, quel soldato là; non si è saputo chi fosse.
Noi quando passavano gli italiani in fuga si correva a guardare e basta. Eh, si capisce che si vedevano. Tutti partiti, alla svelta, più che potevano.
Durante l'anno dell'invasione là era il comando, per tutto il periodo che son stati; poi han cominciato a partire: sono rimasti qua fin quando è cominciata la ritirata loro.
C'erano dei prigionieri che avevano per lavorare, e io gli dicevo: «Scappate, scappate! che la guerra è finita. Scappate, non avete paura, la guerra è finita.» Loro avevano sempre paura, sa com'è, prigionieri ... ma io gli dicevo: «Scappate, che ormai la guerra è finita, scappate.»
Non so dove andassero a lavorare. Venivano a prenderli con i birocci, con i cavalli, non c'erano tanti camion quella volta.
Qua ci sono sempre stati militari, da quando siamo ritornati dopo essere scappati fino a quando è finita.
Noialtri si era scappati e siamo ritornati dopo un otto-dieci giorni.
Siamo stati a San Daniele e siamo ritornati perché, dove si doveva andare? C'era tutto un disastro per le strade, nessuno passava. Avevamo tentato di scappare, si era andati via con le mucche, con un pieno di vestiari e tutto quanto, ma dopo, dove deve andare? Siamo arrivati fino a S. Daniele e ritornati indietro.
Fino a S. Daniele tutta una confusione. Chi andava, chi veniva. Bambini, vecchi, preti, tutti. Si aveva anche un prete che era stato insieme.
Tutti insieme, col carro e con le mucche e via, avanti.
Arrivati a San Daniele siamo andati in una famiglia, ci hanno alloggiati e siamo stati là due-tre giorni e poi ripartiti di nuovo verso casa. La famiglia si chiamava Giuliani. C'era un prete in quella famiglia che poi è stato cappellano a Racchiuso.
E là a dormire per terra, ci hanno dato un pezzo di polenta e avanti così, alla buona. Sono stati generosissimi, generosissimi sono stati.
Dopo siamo venuti qua, ritornati, e abbiamo trovato la casa nel massimo disordine. Lenzuola per terra, cavalli che hanno pestato in cucina - perché era grande la cucina - [lasciando] tutto un letamaio. Le lenzuola servivano per i cavalli, buttate sotto tipo strame.
Eh, un disastro era. Il vino ce l'hanno portato via quasi tutto.
Poi bisognava consegnare. Consegnare tanta roba ... nella stalla, oo-op! nella cantina, oo-op!
Pagavano? Sì, col fucile!
Bisognava arrangiarsi alla buona. [Hanno portato] miserie e miserie; quando non c'era non c'era. Anche noi che eravamo una famiglia che stava bene, si stentava.
Mio padre, la famiglia, aveva un qualche po' ... ma abbiamo mangiato tutto. Aveva denaro italiano, ma in tempo di guerra [l'ha speso tutto] per comprare da mangiare. Si doveva pagar caro.
D. Venivano anche profughi da fuori, dal Piave?
R. Oh, non lo so io. Si giocava, si era bambini ... ma noi non abbiamo visto profughi provenienti da altre zone, dal Piave.
Mio padre era a casa con noi, non era andato militare perché erano esonerati quelli che avevano quattro figli e mio padre ne aveva sei.
Mio padre era del 1874 e si chiamava Antonio. La mamma si chiamava Zane Maria, del 1878.
Io ho 89 anni e ho lavorato fino adesso sulle viti. Non posso star fermo, mai.
[...]
Adesso non faccio niente perché son vecchio. Guardo un po' l'orto, un po' di tutto. Prima facevo l'agricoltore, sempre lavorato la campagna. Mi piaceva avere la campagna. Avevo passione. Però è ingrata, è ingrata! Oggi con quel sistema che abbiamo del governo, abbiamo l'industria su, col concime, e i prodotti giù. Questa è la verità.
Mia figlia che lavora dodici campi ha fatto 185 quintali di frumento di grano duro. Pagate le spese non ci son rimasti che due milioni. Grano duro: 30.000 lire al quintale. 185 quintali su quattro ettari e mezzo. Ha fatto un bel prodotto, ma il concime e i "sali" ... un sessanta quintali. [!] I soldi sono andati tutti nel "sale", più le spese di diserbante. Insomma sono restati di netti circa due milioni; l'hanno scorso tre. Io gli ho detto: «non sta mettere niente». Allora si è decisa di fare bosco, con la forestale. Fanno loro, il lavoro e tutto quanto [...].
Ho una fortuna, perché non ho ancora nessun dolore.
Non fumo, ho smesso, son 22 anni che non fumo.
Vino, un bicchiere a pasto, e basta; quello che faccio si vende, si dà via. Grappa, niente: in un mese avrò bevuto mezzo bicchierino, e sì che mi piacerebbe, ma non voglio saperne dell'alcol, lo sento al fegato subito.
Mangio di tutto; a me qualunque cosa! Mangio tutto basta che sia cotto, perché non ho denti. Qualunque roba. Fagioli, patate, zucche, non formaggio perché sono allergico ai latticini.
Fin da bambino, quando mi davano formaggio o latte sempre li rimettevo.
Carne, per dire la verità, mi sono nauseato anche di carne. Mangio un po' di salame, due tre fette di salame. Adesso, per stasera, ho preparato due-tre pomidori, una gamba di radicchio, un bicchier di vino, due tre fettine di salame e stop.
D. Ritornando alla Prima guerra mondiale le viene in mente qualche altro episodio?
R. Eh! più di tanto ... quello che sapevo l'ho detto.
[...]
Perché i tedeschi [...] bisogna provarli, bisogna provare i tedeschi cosa sono. Sono duri.
Io sono stato un anno con gli americani, viva la loro faccia! E con gli inglesi, niente.
Gli americani ci hanno trattati non da vinti, da signori. Perché un maresciallo ci diceva: «State là, dentro nella cucina, mangiate e bevete e non fatevi vedere».
Il primo dell'anno del 1945, ho mangiato di colazione una gallina.
Natale del '44 il maresciallo ci ha portato una marmitta così, piena di tacchini. Eravamo a Caserta, al Palazzo Reale e dopo ci ha messo un bottiglione di cognac, perché vedeva che si lavorava bene. Si faceva pulizia, aiutare a far da mangiare, a preparare. Eravamo disarmati, si era come adesso. Ormai avevano vinto. Si era prigionieri, ma prigionieri per modo di dire, si era amici, come fratelli, si mangiava insieme. Si era là, si andava a prendere un po' di verdura e se la condiva col loro olio, e poi si portava due fiaschi di vino e loro venivano a mangiare con noi. [...]
Mia moglie è giovane ancora, ha solo 80 anni, e in 58 anni di vita coniugale ha persa una sola virtù, non per colpa sua, che è quella di non poter avere figli più. Io dico alle donne moderne: non 22 figli, come mia madre, ma neanche uno o nessuno come loro. Io ho avuto quattro figli.
Ho due medici: una è in pediatria, che è andata in pensione, e una è a Verona, anestesista a Malcesine; più un'infermiera.
Ho lavorato sempre per dare un'istruzione, perché mio padre mi mandava a scuola e ha pianto perché non sono andato a scuola.
Non mi piaceva lo studio, mi piaceva più lavorare, più bestie, avevo passione. Ma l'ingratitudine che c'è arrivata adesso non le so dire. Anche col vino, tante tasse, tante bollette. Ma cosa volete, sto governo. Lasciateci vivere, che facciamo del nostro meglio liberamente, non con questi sistemi qua. Siete voi che ostacolate il commercio. Siete voi che ostacolate tutti. È vero o non è vero? Parliamo onestamente e correttamente, che io son chiaro con le parole, non ho paura di dirle a loro!
Io se fossi capo del governo, sa cosa farei? Tutti li prendo. Tu sei avvocato, e anche il medico: la ricevuta! 

giovedì 23 settembre 2010

Mafalda Molinari e Amoreno Véníca

Nati rispettivamente nel 1911 a Casali Malina (Orsària di Premariacco, UD) e 1906 a Ipplis. Residenti a Cerneglons (UD).

Informatore Pietro Juri

Nastro 1998/17 - Lato B                           Giovedì 15 ottobre 1998

[...]
Molinari. [Dopo Caporetto, i tedeschi] ... sono venuti i tedeschi, a portar via le bestie.
Il nonno ha fatto un po' di resistenza e loro li hanno ammazzati. Tre morti in casa abbiamo avuto. Sono entrati armati, volevano portar via proprio la vacca che doveva partorire, lui si è opposto. Il nonno, visto che eravamo tanti bambini, ha detto: «Portatemi via tutte le altre, lasciatemi quella là» e loro gli hanno sparato.
Il nonno si chiamava Fabio Molinari. Dopo è morto anche suo fratello che era con lui in quell'occasione e che non era sposato. Non si è più ripreso da quella volta, è stato sempre male.
Il terzo morto sarebbe la nonna, sempre in quell'anno.
Guardi, eravamo tanti bambini, tre donne e mio padre; i fratelli erano tutti di là del Piave.
Dopo un anno che non ci si vedeva è arrivato uno zio, fratello di mio padre. Eravamo bambini e lui diceva: «Oh, come state, bambini, [ci] siete tutti?»
E noi: «Sì, noialtri ci siamo, ma i nonni non ci sono, i nonni non ci sono.»
All'epoca abitavamo di là della Malina [dove siamo passati adesso, dice Pietro Juri] in località chiamata Lippe o "Casali Malina", che sarebbe sotto Orsaria
«Ho tutto ancora davanti agli occhi», di quel periodo.
I tedeschi si sono presentati e sono entrati. Tutto quello che hanno trovato si sono messi a mangiare, e uccidere pollame, tutto.
D. Voi non potevate scappare?
R. E come? E dove si doveva scappare? Siamo rimasti dove eravamo, nella nostra casa.
[Juri, interviene e si chiede – Perché i tedeschi non sono arrivati a Padova, in tre giorni? Proprio perché la truppa, il grosso, si perse nelle campagne: ubriacati, 24 ore di ubriacatura generale e completa.]
Un anziano presente all'intervista: «Uccidevano il maiale e ne bevevano il grasso.»
Molinari. Siamo sempre stati fermi dove abitavamo, due chilometri distanti da qua. Dove scampare? Dove si doveva andare?...
Mi ricordo che gli italiani [i soldati] scappavano. Erano tutti disorganizzati, però non avevano fatto malanni nelle case, non ci avevano rubato niente.
Mio padre è andato via di là del Piave, assieme agli altri militari italiani e ai suoi fratelli. Erano quattro fratelli, tutti militari e tutti quattro sono andati di là del Piave.
La nostra famiglia, che è rimasta qua, era composta dal nonno, la nonna e due cognate, mia mamma e la zia e in più noi bambini che eravamo in cinque, due bambine e tre maschi. Dell'altro ceppo, quello della zia, erano in altri tre bambini.
Lavoravamo la terra del conte Puppi di Moimacco. Non so se il conte sia rimasto, ma credo sia scappato.
Durante l'anno dei tedeschi ... da mangiare poco, non si aveva mai niente, perché a casa nostra ogni due tre giorni nettavano tutto. Ed eravamo due famiglie. Cosa si poteva nascondere?
Per fortuna c'erano due famiglie qua in paese che ogni tanto ci portavano qualcosa e si poteva andare avanti, perché a noialtri ci portavano via tutto, nella casa nostra.
Un giorno sono venute le guardie con un mazzettino di paglia, poca. «Non lasciatevi portare via neanche così» hanno detto le guardie «quando vengono vicino gridate "Gendarmi, gendarmi!"».
D. Quindi, secondo i capi non avrebbero dovuto rubare. Perché rubavano lo stesso, allora?
R. Per mangiare! È sempre stata così. Uno mangia tanto e l'altro non mangia niente...
Nessuno comunque è morto proprio di fame, di noialtri, no.
D. E' vero che qualche donna è stata violentata, che sono nati figli di questi soldati tedeschi.
R. Sì, sì, sono nati, sì.
D. Magari le ragazze erano d'accordo?
R. No, non credo. Che sappia io non posso dire.
Juri. Personalmente ne ha conosciuto qualcuno o è una diceria?
Un familiare. È compromettente. Ci sarà stata qualche violenza, ma matrimoni misti fra tedeschi e ragazze locali, qua, non risulta, mentre nella seconda guerra ci sono stati dei matrimoni...
Pavan. Venivano da voi a chiederle l'elemosina da altri paesi ancora più poveri, dalle montagne?
Molinari. Saranno venuti, ma io non ricordo.
D. Quando sono arrivati gli italiani, nel 1918, cosa ricorda?
R. Non mi ricordo bene quando sono arrivati.
Mi ricordo che è arrivato mio zio Davide e noialtri bambini si lavorava, quello che si poteva. 
«Ehilà bambini, siete tutti!?» 
«Sì, noialtri ci siamo, ma i nonni non ci sono», abbiamo detto. 
«Purtroppo, l'ho saputo a Udine.»
Era arrivato a Udine ed era andato da un tabacchino che era uno del paese e si chiamava Gildo Barazzutti. Lui sapeva cosa era successo e aveva informato lo zio che i tedeschi avevano ucciso suo padre e sua mamma.
Barazzuti aveva la tabaccheria appena si entra a Udine da qua, passando il Torre, in via Buttrio, la prima casa. Questo Barazzutti era un tipo un po' particolare, una specie di macchietta, però tutti quelli che passavano di là - perché non andavano in centro a bere un bicchiere di vino, andavano in periferia - tutti si fermavano da Barazzuti, sia che venissero sia che andassero a Udine. La tappa da Barazzutti era d'obbligo, quindi da lui si sapeva tutto. [...]
D. Come si sono comportati gli italiani quando sono arrivati?
R. Non ho ricordi particolari.
Juri. Anche perché loro abitavano un po' fuori del paese.
Un familiare. [Abitavano] là dove c'è il guado, duecento metri prima ... non l'ultima casa che si vede nel basso vicino alla roggia, la Cividina. Il guado si chiamava Malina e il luogo nel complesso si chiamava Casali Malina.
*
Amoreno Venica. Ricordo che abbiamo attaccato quattro bestie al carro e siamo scappati. Arrivati sul ponte di Premariacco ci siamo fermati e appena abbiamo girato il carro il ponte è saltato. 
C'erano due ponti: quello vecchio era rotto un poco e quell'altro è andato tutto dentro al Natisone.
Non ho visto saltare il ponte, perché le guardie ci hanno fermati prima, un duecento metri prima. Erano soldati italiani.
Appena abbiamo girato il carro abbiamo sentito lo scoppio. Allora siamo andati giù a Oleis, Manzano fino a Pavia [di Udine]. A Pavia abbiamo saputo che i tedeschi erano sul Tagliamento. Ci siamo fermati in una casa dove i padroni erano scappati. Siamo rimasti là per tre giorni. Per mangiare: un po' di pane fatto in casa, un po' di polenta, insomma ci siamo arrangiati. Sul carro eravamo otto fratelli, papà e mamma. [...]
A Pavia non abbiamo visto nessun tedesco. Soldati italiani sì, tanti, tutta una colonna (che poi sono stati fatti prigionieri). Noi eravamo in mezzo a una colonna. Una colonna che sarà stata da Pradamano fino a Pavia, coi carri, coi muli. Ci siamo trovati in mezzo col nostro carro trainato da quattro vacche, due davanti e due dietro.[Per portarle con noi ... per dare il cambio, eventualmente, nel viaggio].
A guidare il carro c'era mio papà che si chiamava Domenico. La mamma e noi bambini eravamo sul carro; pioveva.
Sul carro avevamo messo un po' di tutto, anche vino, una botte di vino, tacchini, oche. Su, tutto.
Spiega il figlio. Era un carro grande, a quattro ruote, come i caratteristici carri del luogo. Al centro aveva un pianale che poteva essere largo, non so, un metro e ottanta, e lungo dai tre ai 4 metri.
Venica. Era una botte da due ettolitri ... tacchini, oche. Io ero seduto sul carro, e pioveva. Fermi là in colonna ... siamo tornati a casa.

Nastro 1998/18 - Lato A

Discussione sull'origine (slavo antico? Selva-nera?) del nome Cerneglons, nel cui territorio ora abita la famiglia dell'intervistato.
*
Venica. Ritornati da Pavia, a casa non abbiamo più trovato niente. Avevamo due giovenche e quelle ce le aveva prese un vicino, che poi ce l'ha restituite. Ma la maiala con dodici maialini, due dei quali erano pronti per essere ammazzati, era sparita. Dentro in casa invece i mobili c'erano ancora, ma i mobili una volta, sa com'era, mica come adesso: un tavolo, un po' di sedie.
A Ipplis nessuno era riuscito a scappare, che sappia io, nessuno. Gli unici che abbiamo tentato di scappare siamo stati noi.
D. Com'è stata la vita durante l'anno dell'occupazione austriaca?
R. Come polenta, si mangiava. Si andava al molino col carretto e il molino era a Leproso. [...]. Il padrone dell'epoca era Bergolini.
I tedeschi venivano spesso, tanto che a mia madre - che voleva salvare un tacchino - le hanno sparato. Erano in due soldati austriaci. Non l'hanno presa perché uno dei due ha spostato la canna del fucile che il compagno aveva puntato su mia mamma. Ha vinto mia mamma e loro due sono andati via senza tacchino. 
Eh in quei momenti là! 
Mia mamma si chiamava Caterina Gasparini.
Si andava al molino e si trovava fucili dentro tutti i fossi, abbandonati. Noi si prendeva il fucile e si sparava sui gelsi, come tiro a segno! 
Ma tanti ragazzi sono morti raccogliendo le bombe per terra. Vedevano le bombe, le prendevano su e tiravano. Bombe a mano lasciate dagli italiani prima di scappare. Nei primi giorni c'erano armi dappertutto. [...]
Quando sono ritornati gli italiani noi eravamo fuori in campagna e non abbiamo visto niente. [...] Per noi era una giornata qualsiasi, di lavoro, a raccogliere quel poco che era rimasto.
Mi ricordo dei russi, povera gente, prigionieri. Arrivavano sulla porta e: «Mama, cucurussa, cucurussa», che vuol dire granoturco, pannocchie. Si accontentavano anche di un pugno di cucurussa. Avevamo fatto i covoni con le canne del granoturco e i russi li hanno rovesciati tutti per cercare qualche pezzettino così di pannocchia. 
Eh povera gente, i russi. Non facevano niente; erano prigionieri dei germanici, sempre a Ipplis, in località Le Baronesse. Era un castello, una villa.
Quando sono arrivati gli italiani non hanno suonato le campane, perché non c'erano campane, le avevano portate via.
Molinari. Neanch'io ricordo che ci sia stata qualche festa al ritorno degli italiani. Le campane erano state tutte portate via.
Venica. Mi ricordo che per salvare una vacca abbiamo dovuto portarla nel bosco ai confini con le Baronesse, perché a Ipplis ci sono delle colline; era un bosco di acacie. E stare attenti, sempre uno di guardia, che la bestia non muggisse, perché da sola nel bosco la bestia avrebbe muggito. Questo è avvenuto durante la ritirata dei tedeschi ... e due maiali sotto un tino in mezzo ai campi di granoturco.
Dopo un po' di tempo che sono arrivati gli italiani abbiamo ricevuto un cavallo, ma non ricordo se l'abbiamo pagato o se l'abbiamo ricevuto gratis.
L'ha ricevuto ogni contadino, un cavallo, per lavorare. Era un cavallo dei militari, un buon cavallo, non ne so la razza. Lo si attaccava davanti alle vacche, e via! Sarebbero state quattro o sei mucche più un cavallo, per arare. Ovviamente chi l'aveva, altrimenti si arava anche solo con le mucche.
Il rimborso dei danni di guerra l'abbiamo ricevuto quando io ero soldato, nel '26. L'hanno tirata a lungo finché la giuria ha detto che non avevamo avuto tanti danni [...] ma quelli che avevano minori danni hanno tirato di più!
I tedeschi lasciavano una vacca per famiglia e chi non ne aveva nessuna magari si è trovato con tre-quattro vacche "di danni di guerra" e chi ne aveva due si è ritrovato con una.
[Una volta] i tedeschi ci hanno fatto un buono per il vino che si erano presi. Mio papà è andato dai gendarmi in paese e [gli hanno detto che] sopra era scritto: «I gatti vecchi bevono il vino senza pagare.» Era un proverbio, una presa in giro scritta in tedesco.
Eh, sarebbero tante cose, ma chi si ricorda!
In quell'anno dei tedeschi non si andava a scuola, ma a lavorare.
Io il primo lavoro che ho fatto è stato sul casello di Ipplis. Occorrevano 12 anni per andare in quel posto, e io ne avevo 11. Ma mia madre con un paio di polli al capostazione mi ha fatto mettere là, sulla "Crosada". Ma era ancora prima che partissero gli italiani, quando c'era un treno che partiva da Moimacco e andava quasi fino a Gorizia.
Era un binario solo, a scartamento ridotto. Io ero sul casello con la bandiera rossa a fermare se vedevo un carro di là o una macchina sulla strada. Prendevo 90 lire al mese. Erano tanti ... e per mangiare e bere, dai soldati.
Mio padre non era in guerra, aveva più di quattro figli e lavorava i campi. Mia madre lavorava in casa.
Le riserve del fronte [dell'Isonzo], quando li mandavano a riposo, erano a Spessa di Cividale, sulla strada che va a Corno di Rosazzo. Là c'era un grande campo. Là arrivavano le compagnie ... i quattro - cinque che erano rimasti.
Restavano là 15-20 giorni finché riformavano le compagnie e su un'altra volta al fronte.
Io li ho visti, sì. Il posto era a circa tre chilometri da casa nostra. Mi ricordo che un tenente dei bersaglieri l'ho trovato a Bologna, dopo. Io ero carabiniere e lui comandava la mia tenenza. Mi ha chiesto se conoscevo la zona di Villa Rubini di Spessa dove c'era il campo.
Mi ricordo che poi questi soldati venivano da noi e mangiavano la colza e la condivano con un grasso qualsiasi, pur di sfamarsi, o meglio, pur di sentire qualcosa di diverso, come per una golosità.
Quando ero con la bandierina rossa mangiavo dove era il comando e alla sera mi portavo a casa una bella porzione di pastasciutta. Ogni giorno pastasciutta. Facevano di quegli spaghetti larghi così, me lo ricordo ancora, conditi con tanto di quel formaggio che non si staccavano neppure.
La colza l'adoperavamo al posto del broccolo, lessata e condita con sale olio e aceto. I soldati la condivano con grasso che prendevano dalla cucina. Era una golosità per loro, un po' di verdura. [...]
La ferrovia in cui lavoravo andava da Moimacco a Mossa, fin sotto il fronte, quasi. Portava armi, bombe.
A Moimacco c'era anche il tribunale militare e, dove era il conte De Puppi, là era tutto campo.
Scaricavano dal treno che da Udine andava a Cividale, alla stazione di Moimacco, e da là partiva il trenino.

martedì 21 settembre 2010

Primo Martin, Rovarè di San Biagio di Callalta (TV)

Nato il 26 ottobre 1907. Residente sul Montello in località Santa Maria della Vittoria.


Nastro 1986/25 - Lato A       (Dall'inizio su nastro orig.)                           26 ottobre 1986

La nostra famiglia si è divisa nel 1921. Prima si mangiava tutti in una pignata ed eravamo in 127 persone, che abitavano però in quattro case. Si era fittavoli del barone Onesti da Paese. 
Una casa era a Rovarè di San Biagio, località Ca' Lion, un'altra lungo la strada Callalta, un'altra ancora lungo la Callalta in località Fatutto e una in comune di Breda. [...]
Si pagava l'affitto a generi al Barone Onesti di Paese... [spiega il tipo di conduzione agraria e la produzione dell'azienda].

Nastro 1986/25 - Lato B   

[...]
02:58 Nel 1917 abitavo a Rovarè lungo la Callalta in zona chiamata Fatutto. Da Treviso ad andare a Ponte di Piave è a sinistra. La terra era attraversata dalla ferrovia, la casa era di là della ferrovia e la Callalta faceva confine con la nostra terra.
Tre giorni prima de San Martin ... oramai erano venti giorni che avevano chiuso le scuole perché c'era la truppa che passava sulla Callalta e si dovevano fare tre chilometri di strada per andare a scuola; si doveva camminare lungo la Callalta fino vicino ai carabinieri di San Biagio...
Quando è venuta la disfatta io ero ragazzino. Vedevo tutti questi soldati e mi chiedevo: «Ma dove andranno, pori fioi
Tutti questi soldati che camminavano, e noi ragazzini si era entusiasti.
C'erano quelli del parco buoi che andavano a sequestrare le bestie, e sono venuti anche a casa nostra. Erano montati a cavallo delle vacche e dei buoi; camminavano lungo la Callalta venendo da Ponte di Piave e andando verso Treviso. Per tre giornate.
Dopo – tutto ad un tratto – bloccato. Marcia indietro. 
Perché, mi avevano spiegato degli ufficiali, [dapprima] Cadorna aveva intenzione di fare la linea di sbarramento sul Po, invece dopo è venuto che l'hanno fatta sul Piave. E noi saremmo stati neppure a cinquecento metri dal Piave.
Quando hanno iniziato a tornare indietro, venivano dentro per la casa nostra, dentro per la campagna, che era anche larga oltre che lunga.
Una sera è venuto dentro un plotone di carabinieri e hanno detto a mio nonno: «Nonno, dov'è che hai il pagliaio?» Il nonno gliel'ha indicato: «È laggiù», perché mio padre era soldato anche lui.
Avevamo una cucina lunga come tutta la casa e i carabinieri si sono messi la paglia lungo i muri della cucina, da una parte e dall'altra con in mezzo la tavola, e non hanno neanche disturbato. Stavano là chiacchierando, così, con un boccale di vino sulla tavola, ma un boccalone di quelli che tenevano dieci litri, quando è venuto dentro un capitano degli arditi.
Quelli non chiedevano il permesso. È venuto dentro, si è presentato là, ha guardato attorno: «Nonno, chi è che ha preparato questa paglia qui?» E il nonno: «Poveri fioi, devono dormire... ». Il capitano si è abbassato, ha preso lo stiletto che aveva sugli stivali, l'ha piantato sulla tavola e: «Voi andate a trovarvi un altro posto» ha detto «perché questo serve a me!» E anche se erano carabinieri, hanno dovuto andar via. 
Dopo neanche un quarto d'ora sono entrati gli arditi, che hanno preso il posto dei carabinieri.
Il capitano entra per ultimo e dice al nonno: «Qua non c'è più vino, dov'è che hai la botte?» E il nonno: «Vien de qua fiol, vieni di qua». Tremava di paura perché, ciò, un vecchiotto ... e ha portato il capitano di là dove, sotto una scala, c'era una botte da cinque ettolitri, una botte grande così.
Sotto, sa che hanno el spinèl [lo zipolo], le botti ... mio nonno ha preso el bocal [caraffa] ed è andato per spillargli il vino, e il capitano dietro. Quando ha visto questo spinèl, prima che si riempisse el bocal il capitano tira fuori la pistola. Tre quattro schioppettate ... ed era italiano. [Forata la botte].
Alla mattina quelli sono partiti presto. Partiti loro, e non so dove li abbiano mandati ... verso le nove e mezza-dieci vengono dentro tre ufficiali. Non ricordo che grado avessero, e io tutto contento «guarda, ho detto, ci sono qua soldati ancora».
Loro mi hanno detto: «Bocia, dov'è tuo padre?»
«Mio padre è militare», gli ho risposto.
«E chi hai a casa?»
«Mio nonno»
«Va a chiamarmi tuo nonno!»
Era in stalla. Sono andato: «Nonno, vien fuori che ci sono i soldati che vogliono parlare con te.» – «Chi sono?» – «Non lo so, sono montati a cavallo»
E mio nonno viene fuori.
«Nonno - ha detto - quel portico là, devi liberarcelo. Tira fuori i carri...» 
C'erano carri, versori [aratri], rastrelli, di tutto.
«Perché, fiol?» ha detto mio nonno.
«Perché ci occorre a noi» – «Si ma io... » – «Beh, fai quello che puoi»
Dopo un'ora, un'ora e mezzo, è entrato uno squadrone di cavalleria e hanno tirato fuori tine, tinassi, tutti quanti gli attrezzi che si adoperavano per l'agricoltura. Hanno tirato due corde metalliche da una parte all'altra ma per [legare] i cavalli non erano ancora sufficienti, allora hanno piantato una corda nel cortile, distante quattro metri da casa.
Dopo sono andati sul solaio, che il solaio era pieno di pannocchie, e hanno preso la palota [pala] di legno – che una volta si aveva quella palota di legno apposta per mischiare le pannocchie – e butta fuori pannocchie per il balcone, per dare da mangiare ai cavalli.
Questi soldati hanno detto al nonno di non andare via, perché «fra due-tre giorni i tedeschi passano e tu resti qua». Sarà stato il 7 o l'8 di novembre.
Invece, l'11, il giorno di San Martino, quando erano le tre e mezza-quattro è entrato un plotone di carabinieri, con il fucile e la baionetta innestata: «Via da qui, via da qui, via, via [...] perché c'è l'ultimo treno che parte da Spercenigo.»
Mia madre ha chiesto:«Ma dov'è che ci portate?» Stava cucinando la oca per la festa di San Martino e gli toccava lasciar là tutto sulla pignatta, tutto il pollame ... bestie, piena la stalla.
Ci hanno portati a Spercenigo e siamo saliti sul treno.
Abbiamo chiesto: «Dov'è che ci portate?» – «Eh, han detto, appena di là di Treviso, prima di Padova.» E abbiamo corso tre notti e tre giorni. Ci hanno portato a Napoli!
Era una tradotta che aveva tre macchine a vapore e deve essere stata anche lunga. Perché aveva preso su gente da tutte le parti, anche quelli del Friuli, non solo i nostri. Dopo si sono attaccate delle altre tradotte, alle altre macchine.
Una macchina è rimasta senza carbone quando si era a Ferrara, giù per quelle campagne là, che si sono quei vigneti con i pali. Hanno fermato e sono andati a levare i pali delle viti per far fuoco sulla macchina del treno.
Le ho detto che ci vorrebbe una giornata a raccontare tutto!
A Napoli, quando siamo arrivati ci hanno messo sulle case dell'Ospizio Marino. [...]
Siamo arrivati come questa sera verso le sette e domani mattina ci hanno messo a dormire su un salone. Si era cinque figli, e mia madre fa sei.
Alla mattina passava il dottore a fare la visita e ha trovato un fratello mio, quattro anni più giovane, che aveva tutti gli occhi rossi e ha detto: «Questo bisogna portarlo sull'ospedale». Mentre lo portavano via, mia madre si è messa a piangere. Il dottore le ha detto: «Signora, mettiamo un cartello sulla porta, che lei non viene disturbata. Finché suo figlio non guarisce, lei da qui non si muove.»
Dopo hanno iniziato a venire dei signori a portare caramelle e questo e quello, per questi profughi che arrivavano; anche roba da vestire. Al terzo giorno che si era là, ormai si era lusingati, quando si vedevano questi gruppetti di signori si correva per prendere qualcosa.
Un dopopranzo, verso le tre, un signore grande come mio figlio, così, più grosso un poco, mi fa: «Vieni qui, bocia, vieni qui».
Io mi sono avvicinato, credevo che mi desse qualcosa, invece mi chiede: «Dov'è il papà?»
«È militare»
«Tua mamma, dov'è?»
«È dentro in sala, in camera»
«In quanti siete»
«Siamo in cinque»
«Vammi a chiamare tua mamma», e io vado.
«Màre, vien fora che ghe xe un sior che vol parlar co ti.»
Mia madre è venuta fuori, con le lacrime agli occhi, e lui:
«Signora, guardi, se lei accetta ... io - ormai ne ho trovati degli altri qua - mi occorre [ho posto per] ancora un poca di gente.»
Questo sior era il principe Colonna di Napoli.
A Posillipo c'è l'Ospizio Marino, e loro l'avevano vuoto. Il principe ha detto: «Se lei mi dice [di sì], prepari quel po' di robe che ha e io vengo qui col tram» – che là c'erano i tram che circolavano – «e vi porto là.»
Mia madre ha detto di sì, e siamo stati là.
[Della nostra famiglia] eravamo noi soli e la mamma, perché tutti gli altri si erano sparpagliati. Non ci siamo riuniti che quando, nel '19, siamo venuti a casa, dopo la guerra.
A casa abbiamo trovato tre baracche. 
La nostra casa era sparita, invece quella del Calion e quella del Faon erano rimaste in piedi, ma era rimasto in piedi solo lo scheletro delle case. Tranne a quella del Calion – che la stalla era col solaio fatto di cemento – i militari, o per far fuoco, o per fare i ricoveri e i rifugi hanno tirato via tutti i solai, i balconi, le porte. Era tutto sparito.
E la campagna? Non si poteva neppure uscire finché non fosse passato il rastrellamento. Hanno fatto il rastrellamento prima di congedare i prigionieri tedeschi. Ma saremo stati tre mesi sotto sorveglianza, con le sentinelle dei militari che non ci lasciavano andar fuori nella campagna, perché se si andava fuori c'erano munizioni dappertutto.
Io sono scappato diverse volte, ho visto un po' di terra mossa, ho trovato una "signorina". Sa com'erano le signorine, una volta? Erano un pezzo di legno lungo così, con un bussolotto come quelli della birra. Nella punta avevano l'elica.
Avevo visto gli altri soldati come facevano ... l'elica aveva un cerchietto [na sc'ionèa]. Bisognava tirarlo via e svitarlo.Quando la si lanciava con il manico e [la signorina] cadeva, l'elica aveva un percussore che andava a battere la capsula e scoppiava.
Così, quando io ne ho trovata una, ho fatto anch'io come avevo visto fare gli altri, perché quando si è boce si imparano le malagrazie alle svelte. Ho preso di quelle pedate sul culo, quando hanno sentito questa schioppettata!
[Le signorine] erano come bombe a mano, ma diverse dalle Sipe.
Siamo arrivati a casa dopo la guerra, nel mese di settembre del 1919. Era passato quasi un anno dalla guerra. C'erano ancora i prigionieri tedeschi e la terra non era ancora bonificata.
Abbiamo dovuto [aspettare] la primavera successiva perché in tutto l'inverno non abbiamo mai potuto far niente. Neanche seminare. Perché le viti e i gelsi, per la maggior parte, erano tutti quanti falciati a questa altezza qua, perché i combattimenti erano venuti anche oltre il Piave e noi si era a cinquecento metri dall'argine.
Abbiamo iniziato a seminare nel '20, nella primavera del 1920. [...]
Nel 1921 si era ancora sulle baracche. A Faon avevamo tre baracche e gli altri ceppi della famiglia ne avevano due ciascuno. Altri si erano sistemati nelle tèze, se c'erano.
Dopo, le cooperative hanno fatto subito i solai e hanno iniziato a mettere a posto le case che erano rimaste in piedi. [Perché] una era stata annientata completamente: quella che era anche la più vicina alla linea del fuoco e si trovava sul paese che si chiama San Bortolo.
Poi è venuto che ci siamo divisi perché non c'era più posto per tutti, e ci siamo divisi nel 1921.
Mio povero padre con mio fratello più vecchio ha preso una campagna giù nella palude delle Sette Sorelle a San Stino, tra la ferrovia e la Triestina.
Là il primo anno è andata ancora il manco peggio. Dopo è venuto che Mussolini ha fatto la bonifica, che ha tirato a bonificare la palude delle Sette Sorelle, e abbiamo preso la malaria.
Noi che si veniva da un posto che non c'era la malaria siamo stati i primi a prenderla, perché quelli che erano nati là erano più resistenti. [...]

domenica 19 settembre 2010

Giovanni Geronazzo detto Fasól, Funer di Valdobbiadene (TV)

Nato il 28 aprile 1911, residente a Funer.

All'intervista sono presenti (e intervengono) anche la moglie Giuseppina Vanzin, nata nel 1915 a San Vito di Valdobbiadene e la cugina Caterina Geronazzo, nata a Funer il 6 maggio 1907.

Nastro 1994/31 - Lato B                                       23 agosto 1994

Giovanni. Siamo stati costretti ad andare in Carnia a Interneppo, vicino al lago di Cavazzo, sotto il monte Festa.
Qua, proprio davanti alla porta di casa nostra a un certo punto è arrivata una granata. Erano i nostri italiani che dal Monfenera tiravano di qua.
Nel borgo di Funer è arrivata una bomba incendiaria giusto su una casa che aveva anche il fienile, che si è incendiato, [ce l'ho ancora] giusto davanti ai miei occhi. E proprio qua, sulla nostra zona c'erano le batterie dell'artiglieria [austro-ungarica]: sette-otto pezzi che tiravano di là.
Moglie. Noi siamo andati profughi col nostro parroco Don Giovanni Tura. Abbiamo scavalcato tutte quelle montagne [...] che vede là, siamo andati fuori "sotto Fontana" e siamo stati a Pordenone. Il ricordo che ho è che andavano "a carità" per le porte, a farina. Mi hanno portato in braccio, perché avevo due anni.
E dietro al parroco tutto il paese, o meglio tutti quelli che volevano partire, perché molti sono anche rimasti qua.
Sulla nostra casa avevamo il comando tedesco e dal Grappa sparavano direttamente sul paese e sulla nostra casa, vicino alle scuole di San Vito, la casa grande che c'è sulla strada. Era proprio dal Grappa che sparavano, non dal Monfenera. Oltre al comando c'era anche la Croce Rossa. 
Dal Grappa col cannocchiale ci vedevano ogni passo che facevamo; sembra un po' come a Sarajevo che si vede alla televisione, anche se non è che a noi ci facessero proprio un massacro così.
Ora abito in via Col de Roer [lungo la strada che inizia dalla casa vinicola Mionetto].
Vicino c'è il santuario della Madonna del Caravaggio, con feste il 26 maggio e l'8 settembre.
La casa dei Geronazzo è grande, una volta c'era latteria. È un'importante famiglia agricola patriarcale.
Cugina. Ci hanno portati nel Friuli ad Alesso, sul lago di Cavazzo. Era un paese in mezzo alle montagne, niente campagna. Era difficile trovare da mangiare, ci toccava venir giù per Udine "a carità".
Sono partita [per la profuganza] assieme a Giovanni e ci hanno divisi una volta giunti a Gemona. Ci siamo decisi a partire dopo che è arrivata una granata che ha fatto quattro morti e cinque feriti. Perché le varie famigliole che stavano su per le rive sono venute tutte qua, perché gli sembrava di essere più sicure. Avevamo tutto il portico della casa pieno [di gente]. Si aveva messo un poco di fieno e si dormiva là mentre gli italiani già tiravano, finché un bel giorno è arrivata la granata, proprio qua.
Ci sono stati dei morti, e quelli sono restati qui; noi siamo andati profughi.
Le famiglie che erano venute a rifugiarsi da noi erano quelle di Franco Mattiazzo [...]. La nostra casa era, sembrava, un po' più fuori tiro.
Dopo quella granata i tedeschi ci hanno portato fino in piazza nella casa grande di Piva e da là ci hanno trasferito nei paesini su nel Friuli. Con dei camion ci hanno portato dapprima a Santa Maria di Lago dove siano rimasti per 15 giorni, dalle parti di Follina, oltre Follina. Dopo ci hanno trasportato sul Furlan e là abbiamo passato un anno rabioso.
Eravamo in venti nella nostra famiglia, prima della guerra, e di venti siamo rimasti in tredici. Due-tre morti qua, due-tre morti là; un pochi con la guerra, un pochi sotto la bomba.
Da profughi c'era tanta fame. Dei nostri nessuno è morto di fame, ma una famiglia che era là vicino ha avuto qualcuno che è morto per fame. Era la famiglia Reboli.
Gli abitanti del posto non "potevano vedere" i profughi, perché andavano a carità e loro non ne avevano che per loro. Perché erano paesetti di montagna, nascosti su di là. Allora i profughi più grandi, le donne più anziane - io ero bambina - venivano giù per Udine a carità e qualcosa portavano a casa.
Giovanni. Era ancora vivo il nonno Carlo Geronazzo, che aveva circa 80 anni. 
Sul nostro terreno i tedeschi avevano piazzato sette tiri d'artiglieria. 
Quando sono ritornato da profugo ho avuto subito voglia di andar a veder dove si erano sistemati i tedeschi. C'erano ancora le cataste di proiettili non utilizzate, quattro cinque cataste; dopo è venuto il Genio a ripulire.
Prima di farci andar via, i tedeschi ci hanno fatto andare sul Col de Roer, una montagnetta che è qua di dietro. Oltre a noi Geronazzo c'erano gli Agostinetto, i Franco e i Vettoretti. Ormai non si sapeva più che santo chiamare.
Erano stati mandati via tutti e noi eravamo fra i pochissimi ancora rimasti qua.
Io avevo tre fratelli sotto le armi, fra cui un volontario. Erano Floriano - in artiglieria - Luigi e Carlo, il volontario. Uno era sul Salarol, faceva parte del fronte del Grappa. Tutti e tre sono ritornati.
La sera prima di essere trasferiti è arrivato un bombardamento dal Grappa, e ha preso di mira proprio il Col de Roer. Là si erano sistemate, in una cantina, 15 persone circa e altre erano sistemate in edifici attorno.
Una bomba è arrivata quattro-cinque metri davanti a noi sul cortile, che era in terra nuda, e anziché scoppiare è andata sotto, facendo tutti crepi nel terreno.

Nastro 1994/32 - Lato A

Ricapitolando. Dalla nostra casa, dove abitiamo anche adesso, siamo stati obbligati dai tedeschi a trasferirci sul Col de Roer, e là siamo stati bombardati.
Mio nonno non voleva andare via a tutti i costi.
Il giorno del bombardamento era pomeriggio. Inizialmente le bombe non ci colpivano, poi è arrivata la bomba che non è esplosa e poi hanno aggiustato il tiro e io ne sentito una [partire e] arrivare. Mi dicevo "ormai mi prende", invece è andata qualche metro più avanti in modo da colpire proprio la cantina dove era ammassata la maggior parte delle persone. È andata giù per la cantina: sette morti sul colpo e vari feriti.
A quel punto i tedeschi ci hanno portato via tutti con i carretti. Anche io e mia mamma siamo saliti. Assieme a me c'erano altri due fratelli più giovani di me, due mie sorelle (Giustina e Resi) [...] in tutto compresi mio papà e mia mamma eravamo in nove.
Quando eravamo verso Follina, era un tempo incerto e a un certo punto è iniziato a nevicare. Abbiamo fatto la strada in queste condizioni senza niente, perché nella fretta non avevamo potuto prenderci su niente. 
Eravamo come quei poveri disgraziati che sono profughi là nella Jugoslavia, un fac-simile, c'è poca differenza.
Poi siamo stati portati a Gemona e da là mandati nei vari paesi. Noi a Internèppo, un paese di montagna, circondato da tre montagne grandi, con scogli di roccia e alla base c'era il lago di Cavazzo. Poco lontano, sulla punta di questo lago c'era un paese che si chiamava Sampiago [Somplago].
In primo tempo mio nonno ... per merito suo siamo riusciti a superare la crisi della guerra, perché su di là non c'era più niente. Mio nonno era riuscito a portarsi via qualcosa di soldi e con i soldi ha aiutato tutta la famiglia, sia la nostra che i cugini. In questo modo siamo riusciti a superare la crisi.
Mia madre Teresa Carraro era il centro, quella che più si dava da fare per portar fuori la fame. Lei davanti, e altri più giovani assieme a lei, si dirigeva per i paesi in cerca di qualcosa da mangiare, "a carità". Un po' di latte, un po' di farina, col sacchetto, con le dàlmede [calzature, zoccoli di legno] ai piedi. E qualche volta cercavo anch'io di andare con mia mamma.
Non è che gli abitanti del posto fossero cattivi, ma avevano poco o niente anche loro.
Quando siamo partiti da Valdobbiadene, la prima tappa dopo Follina è stata Vittorio.
Mia mamma è riuscita a tirar su un poca di legna e ha cercato di fare "un foghetto" per la polenta, ma non aveva neppure la calièra [il paiolo]. Ha chiesto agli abitanti della zona e le hanno prestato una caliera di ferro grande. Supplicando abbiamo trovato anche la farina e l'acqua ... e sul più bello che già stavamo pregustando la polenta, arriva un tedesco armato che ci ha fatto spegnere il fuoco e ci ha buttato via tutto. Si pensi come siamo rimasti noi, con la fame che avevamo.
Il viaggio da Col de Roer a Gemona, con i tedeschi, è durato giorni, in queste condizioni.
A Interneppo si è interessato il prete del paese per ricoverarci nelle varie famiglie e noi ci siamo sistemati in una casetta che dietro aveva anche un po' di orto.
Ce la siamo cavata per merito di mio nonno che si era portato via qualcosa. Non mi risulta che sia morto nessuno dei paesani, da profugo.
E quando vedo alla televisione la Jugoslavia e quell'altra guerra che c'è laggiù, in Ruanda, e mostrano questa povera gente che si trasferisce perché c'è la guerra, e li vede con qualcosa sulle spalle, ecco, un fac-simile si era noi.
Quando siamo poi ritornati a casa, era tutto sottosopra. Fortunatamente la nostra casa era un po' nascosta ai tiri del Grappa, ma non così quelle sul Col de Roer. Varie buche le abbiamo trovate anche noi, ma non tante come sul Col De Roer.
La nostra casa era stata comunque colpita, in particolare, da una grossa bomba. Inoltre erano spariti balconi e travature, ma nel complesso le murature erano ancora in piedi; una delle poche.
Al ritorno mio papà e mio zio si sono dati da fare per ripristinare la casa. Nel nostro terreno c'erano dei ricoveri dei tedeschi e in questi ricoveri c'erano molte travature di cui si sono serviti per riparare un po' alla volta le case. 
In particolare dietro la nostra casa c'era un ricovero grande, più degli altri, una vera galleria sotto la collina. Ma altre gallerie c'erano anche lungo la strada che va giù verso la campagna, per salvarsi dalle artiglierie. Si trattava di ricoveri lunghi 20-30 metri nella collina e i nostri vecchi un po' alla volta li hanno smontati recuperando le travature e il legname. Ma oltre a un certo punto non sono andati e hanno lasciato là tutto, che si chiudesse da solo all'interno. 
La nostra famiglia era grossa, aveva una distilleria di grappa. Dopo la guerra l'ha rimessa in funzione ma è durata poco, due tre anni solo, ricomprando le attrezzature.
Però più anticamente, prima ancora della guerra, sotto il bisnonno c'era anche la latteria che poi è stata chiusa. Mio nonno poi teneva le vacche in montagna d'estate, sulla Barberia, Colteron e Tendanela [?], Mariech (che adesso l'ha presa l'Ispettorato). Eravamo sempre proprietari.
Da profughi, ce la siamo cavati per merito di mio nonno che aveva dei soldi e di mia madre che ha buttato via ogni riguardo ed è andata a carità.
[...]
L'unico acquedotto che funzionava dopo la guerra era in piazza a Valdobbiadene dove c'è la banca. Là c'era l'unica fontana che ancora funzionava e tutti si andava là con le carriole, con qualsiasi mezzo, una processione a prendersi l'acqua.
Sul Col De Roer hanno fatto una tabula rasa, una specie di Montecassino.

Nastro 1994/34 - Lato A

Aggiunte e precisazioni, 15 settembre 1994

Sono sposato con Giuseppina Vanzin dal 1946. Ho avuto due figli, un maschio e una femmina.
Sono figlio di Giuseppe Geronazzo e Teresa Carraro.
Il fatto di Revine. Quando il nostro gruppo di profughi già stava pregustando la polenta ... non gli sembrava neppure vero, sul più bello arrivano due soldati tedeschi che hanno buttato tutto per terra, senza mangiarlo. Ci veniva da ammazzarli (per dire).
A Interneppo con fatica mio nonno aiutava tutti, perché per grazia di Dio si era portato via i risparmi che aveva, e quella è stata la nostra salvezza.
Fra gli abitanti di Interneppo c'erano di quelli a cui facevamo compassione e, per quello che potevano, aiutavano. Ma, poricani, avevano poco anche loro e quel poco che avevano se lo tenevano. Per fortuna avevamo il nonno: era po' come nell'ultima guerra, chi aveva soldi riusciva a trovare la roba al mercato nero.
Poi era mia mamma che aveva più coraggio ad affrontare la situazione. Partiva alla mattina per andare a carità con un sacchettino a tracolla, assieme ai figli.
Eravamo nove figli. Tre erano in guerra; profughi eravamo in tre maschi e tre femmine di cui una è morta poco dopo la guerra.
A Gemona c'era il comando dei tedeschi e là, poco lontano, aveva trovato alloggio una mia zia, Gigia: due stanzette per lei e la figlia. Io e i due fratelli una volta eravamo passati di là andando a carità e questa zia Gigetta, cugina di mia nonna, ha avuto compassione vedendoci. Ci ha detto di andare dentro e ci ha preparato, spalmandole con il coltellino, due fette di pane con la marmellata di mele che aveva in un vasetto di latta. Ci pareva di aver fatto un pranzo.
Mia zia aveva una figlia giovane e bella, non so se sia magari per quello che riusciva ad avere la marmellata dai tedeschi.
A Interneppo c'era una chiesetta e il parroco veniva una volta alla domenica a far messa e qualche volta a mio nonno ha portato farina, latte e pane.
Di fronte a Interneppo c'era il monte Festa.
Era una montagna con bosco ma anche tanti punti rocciosi e nella roccia c'era una caverna. Ogni tanto i tedeschi facevano delle perquisizioni, con i loro sibili [fischietti?] ... delle perlustrazioni, specie negli ultimi tempi prima che arrivassero gli italiani, ma non sono mai riusciti a trovare la caverna.
Mi raccontava mia mamma che nella caverna c'erano parecchi disertori italiani e le donne del posto a mezzanotte gli portavano da mangiare. I tedeschi venivano in perlustrazione anche nelle nostre stanze, ma non li hanno trovati mai.
[...]