giovedì 7 ottobre 2010

Maria Saccon (Maria dea Barca), San Polo di Piave TV

Nata il 22 marzo 1907 e al momento dell'intervista abitante a Roncadelle presso l'ex traghetto/passo a barca sul Piave.

Nastro 1994/28 - Lato A                             18 agosto 1994

Abitavo a San Polo, verso la Caminada, e sono andata profuga a Fontanelle. Dapprima i tedeschi ci avevano portati a San Cassiano di Livenza (PN).
Mia mamma doveva comperare un figlio ed è partita prima; aveva paura perché ormai c'erano i tedeschi.
Noi siamo venuti a stare qua su un baracchino, perché mio marito – Gaiotto Ugo, classe 1903, detto Piccino perché era piccoletto – lavorava con il Genio Civile e gli hanno permesso di metter su questa baracca.
Sono già stati anche quelli della barca [i Belumat] ... mi hanno tirato giù [intervistato] tante di quelle volte!
Una volta si bruciava legna, non c'era il gas. Quando veniva giù il Piave si andava a trovar le legne pa a Piave, e a volte si faceva baruffa anche par 'na soca [una ceppaia].
[...]
Quando mio marito non aveva lavoro si lavorava di cesti e nel frattempo ci si era fatto un casonetto. Si avevano due figli e bisognava arrangiarsi.
A volte passava qualcuno e chiedeva: «Me fatu un piasser passarme oltra?» 
Con quella un po' alla volta è venuto il traghetto, perché prima non c'era, in questo posto. 
Non eravamo d'accordo né col comune né con nessuno, eravamo provvisori. Una volta non era come adesso che non si può più andar raccogliere neppure un bacchetto. Non c'era una tariffa, gli si diceva: «Dème, quel che voé ... sinque schèi, dièse schèi, vinti schei.»
Mio marito nel contempo andava sempre a lavorare sulle crode lungo gli argini del fiume, con il Genio Civile. Perché non era come adesso che vanno con le macchine e mettono là. Una volta portavano la roccia, la accatastavano bene, la misuravano. C'erano tante imprese, sul Montegàn [Monticano], su a Livenza, sul Sil, dappertutto.
Quando non c'era il marito e c'era poca acqua mi arrangiavo io.
La barca veniva mandata avanti con una stanga di legno di càssia [acacia], sotto alla quale si era messo un pìc [rivestimento in ferro] che pesava più di un chilo, in modo che quando si buttava la stanga sull'acqua andava in fondo facilmente e si poteva spingere sul fondo [se sé frontéa]
Dopo la guerra questi pìc li si faceva anche con i bossoli. A volte si perdeva anche la stanga sull'acqua e non la si trovava più.
Noi siamo venuti qua nel '34 e si è iniziato il traghetto in questo posto solo da quegli anni. 
Prima dell'altra guerra il traghetto era là in fondo, di là del vigneto, sotto il Comune di Cimadolmo in località Stabiuzzo. Era una zattera mandata avanti da una zia di mio povero marito, che era mezza orba. Là passavano anche con i carretti perché prima dell'altra guerra c'era sempre il Piave alto e «Venezia passava tutta per qua». Dopo l'altra guerra hanno iniziato a prelevare acqua per il canale della Vittoria e tutti i canali, per questo ora acqua sul Piave non ce n'è più. 
Noi siamo andati avanti finché hanno fatto il ponte di Cimadolmo. E con quello è finita, ci ha tolto tutto il lavoro.
Quando sono venuti grandi ci hanno aiutato anche i figli. Alcuni sono andati in Svizzera. Poi si lavorava di cesti, si andava a vénchi. Abbiamo fatto tanti di quei lavori! Non bastava certo il traghetto ... ci davano dièse franchi.
Mi sono sposata nel 1931 e ho avuto sette figli. Tre figlie sono andate in Svizzera.
Si aveva una baracca con due stanze e mio marito se in'ségnéa a far de tut [si ingegnava a far di tutto]. Avevamo una baracca ancora dell'altra guerra, ma fatta bene. Per ripararsi dal freddo mio marito ed io andavamo a canéoni. Una volta c'erano di quelle cannelle lunghe in mezzo al Piave, e abbiamo fatto una specie di s-ciorín come quello in cui si mettevano i cavalieri [i bachi da seta], con le cannelle fisse [fitte, ravvicinate]. Dopo le si appendeva al muro e mio marito faceva la malta e gliela applicava in modo che la baracca sembrava una casetta.
Questo è successo nel 1934, qualche anno dopo che mi ero sposata.
La baracca l'avevamo comperata dal proprietario del mulino di San Polo.
Andavamo a raccoglier vénchi [vimini] qua vicino [...] dentro al Piave. Li si tagliava ogni anno e li si scusséa [sbucciava, toglieva la scorza] con la giòa: venivano tutti belli bianchi. Tagliandolo, l'arbusto rigettava germogli utilizzabili di anno in anno. Erano chiamati vimini de farinati. Ma si lavorava anche con el talpon [pioppo] e con le rame de morèr [gelso]. 
Si facevano soprattutto ceste per le damigiane, che una volta erano tutte rivestite di vimini e legno.
Anche i rami del gelso dovevano essere di un anno. Ogni ramo veniva diviso in tre parti [aiutandosi] con un pezzetto di legno preparato allo scopo e che aveva tre sporgenze (questo attrezzo non ce l'ho più).
Lavoravamo anche el talpon in questa maniera e anche le càssie [acacie] mate.
Si lavorava soprattutto con le damigiane. 
Quando mi sono sposata si facevano anche di quei cestini rotondi (e un po' oblunghi) – 20x30 – che servivano per le spedizioni. Vi si mettevano dentro patate, téghe [baccelli di fagioli] e roba così. Avevano anche il manico; si aveva la misura ed erano più alti che larghi. Li portavamo qua a Cimadolmo.
Nelle famiglie un po' tutti lavoravano i vimini. [...] 
Quanto ho lavorato!
Sono andata a scuola fino alla terza, a San Polo. Sono nata a Fontanelle e poi sono andata a stare a San Polo. 
Durante la guerra siamo ritornati a Fontanelle, di là della chiesa e del Montegan...
Quando sono arrivati i tedeschi abitavo a San Polo. 
Da S. Polo i tedeschi ci hanno portato a San Cassiano di Livenza. Eravamo io, mia sorella Rosina (che ha un anno più di me) e una mia zia, Luigia Saccon. Eravamo solo noi tre a San Cassan, perché eravamo rimasti [ci eravamo attardati] a casa. Invece mia madre con gli altri figli: cinque, più uno che l'aveva dentro e che è nato durante la guerra; un altro figlio che fa nove è nato dopo la guerra...
Mia madre dunque si era già allontanata ed era andata a Rai da una famiglia di suoi parenti. Era "in condizion", doveva avere un figlio e aveva paura di questi bombardamenti. Ma a Rai non c'era posto per tutti, allora ha trovato un posto a Fontanelle mentre noi eravamo ancora a San Polo.
Poi tedeschi ci hanno portato a San Cassan con i cavalli e i carri. Della nostra famiglia eravamo noi tre soli, ma insieme a noi c'erano tanti altri. Ci hanno sistemato dentro a una scuola.
I primi ad arrivare a San Polo sono stati i germanici. Quando sono arrivati hanno trovato tutto il ben di dio. C'era vino, c'erano pannocchie, c'era di tutto sul solèr [solaio].
Hanno iniziato a lasciar correre fuori dalle botti il vino, ciocàrse [ubriacarsi], far e brigar. Per quello si sono fermati un anno qua. Perché se avessero proseguito di là de a Piave non c'era ancora niente di pronto per fermarli. Così si sono fermati e gli italiani hanno fatto in tempo a prepararsi.
A noi non hanno fatto del male.
Tante donne hanno avuto anche dei figli e li hanno tenuti.
Dove ero io, una cognata di una mia zia ha avuto un figlio [da un "tedesco"]. Se l'è tenuto e poi sono andati a stare in Francia. Gli ha messo nome Guerrino, figlio della guerra. [...] Malgrado ciò si è sposata.
Queste ragazze andavano a lavorare per i tedeschi e mia zia che era grande si portava a casa una ciopa de pan che era fatto di polenta gialla. Non so poi con i tedeschi, con tutta questa compagnia cosa succedesse.
I tedeschi ci davano 14 chili di farina di frumento ogni otto giorni, in 14 che si era.
Eravamo a Fontanelle, nella casa di una famiglia che lavorava la terra del conte Marcello.
Mia nonna e mio nonno hanno camminato una giornata in cerca del posto dove i tedeschi ci avevano portato. Cammina e domanda, e alla fine ci hanno trovato a San Cassan di Livenza, dove siamo rimasti poco, perché siamo ritornati a Fontanelle con la nostra famiglia.
C'erano anche di quelli che sono rimasti in paese [a San Polo].
Non sono mica scappati tutti. Quelli che sono rimasti qua hanno fatto man salva dappertutto, nel senso che andavano dentro nelle case e portavano via quello che c'era dentro. Perché quando siamo partiti abbiamo lasciato tutto, non abbiamo portato via niente. Siamo andati via con le mani in mano, con quel poco che eravamo vestiti. Perso tutto.
Mio padre si chiamava Saccon Luigi, e mia madre Angela Bernardi di Oderzo. Mio padre si era diviso dalla famiglia che era composta di 40 persone, con tre cugini, una famiglia grande. La divisione era stata fatta prima della guerra e quando sono venuti i tedeschi abitavamo già a San Polo, ed eravamo in quattordici.
Quando si metteva un po' di polenta a scaldare sulla graela, sul larin ... se si voltava la testa stava poco a sparire perché i tedeschi, o dentro per il balcone o dentro per non so dove, la facevano sparire. Avevano fame anche loro!
Sono scappati perché avevano fame, altrimenti sarebbe rimasti qua ancora. Sa che hanno mangiato tutto il cinquantino, e anche i botoi [tutoli]. Non c'era più niente, per quello sono scappati, altrimenti non andavano via.
Noi in qualche maniera si riusciva a mangiare perché mio nonno e mia nonna camminavano da una casa all'altra e portavano a casa qualcosa.
Ci è capitato di mangiare anche polenta di sorgo, quello rosso con cui si fanno i scoàt [scopini]. Era quasi immangiabile, e quando lo si era mangiato non si riusciva più ad andare di corpo, si poteva fare quello che si voleva; ma se non c'era altro bisognava mangiare anche quello, senza sale né niente.
È stato un anno tremendo per noi che eravamo rimasti di qua, ma non per quelli che sono rimasti in casa, perché quelli si sono nascosti la roba che trovavano. Noi a San Polo abbiamo avuto la casa buttata giù e molti di San Polo erano rimasti a casa. Tanti andavano e tornavano e così andavano a prendersi la roba per le case.
A San Polo la nostra casa era per terra e ci hanno dato una baracca.
Noi bambini da profughi si andava par i fòss, si andava a prendere rane e pesce. C'erano tutti questi fossi e c'erano le rane: le si vedeva quando erano drio riva che saltavano dentro e allora si andava a palpéta
I pesci erano tutti pessetti piccoli, da fosso.
A scuola sono andata fino in terza.
Mi ricordo che durante la ritirata dei tedeschi, a Fontanelle – siccome nel palazzo del conte Marcello c'era il comando – mia zia che aveva sui diciotto anni gli ha detto una parola in tedesco, zurück, e loro si sono talmente arrabbiati che se non stava presto a scappare l'avrebbero ammazzata (era come una presa in giro).
Mia zia Luigia era ricoverata all'ospedale ed aveva il tifo. Mia nonna era andata a trovarla e tornando indietro ha trovato i tedeschi che non la lasciavano più passare perché ormai c'erano gli italiani ... che erano passati di qua del Piave, che erano arrivati con i cavalli.
[Gli italiani] ci hanno trovato che stavamo grattando le pannocchie per far farina per la polenta; con un chiodo e una gratariola, si grattava.
Mi ricordo quando sono arrivati gli italiani.
Sono arrivati con i cavalli e ci hanno dato una ciòpa de pan ciascuno e noi siamo stati tutti contenti, perché non se ne aveva.
Mia nonna ha indicato agli italiani dove, là in fondo, c'erano i tedeschi che non l'avevano lasciata passare. Perché i tedeschi si erano messi sopra gli alberi per fermare gli italiani che avanzavano.
Paura tanta.
Quella volta dell'offensiva [giugno 1918] ... che si sentiva tutto questo bum bum bum e si vedeva tuto un fogo, stando a Fontanelle.
Quando siamo arrivati qua c'erano tutte buche di granate, morti, di tutto.
Da San Polo siamo venuti lungo il Piave. Si andava a prender su le coperte, i teli, la roba che ci serviva per casa perché non avevamo più niente. 
Granate ce n'erano un'infinità, cassette piene; di grandi e di piccole e di tutte le sorti.
Erano sopratutto i nostri vecchi che venivano a prendere roba sul Piave, dalle parti dell'osteria della Isetta a Cimadolmo, dopo Stabiuzzo. Là c'era la possibilità di andare in Piave. Trincee ce n'erano anche qua dove poi siamo venuti a stare.
*
Trincee sull'argine ne sono state fatte anche durante l'ultima guerra: i tedeschi si erano preparati. Quante legne e quanti travi e quanta roba che ci mettevano dentro là, nei camminamenti!
Durante l'ultima guerra noi eravamo in questo posto, sul Piave, e io avevo una paura...
I partigiani venivano tutta la notte a chiamare che andassi a passarli "oltra", ma mio marito non veniva fuori, gli gridava che andassero a chiamare gli uomini addetti. Poi c'era da passare i tedeschi che andavano a fare trincee di là, sull'argine destro, a Candelù. Ma mio marito andava a lavorare e non voleva passare nessuno.
E i partigiani ... mio marito aveva paura perché qua c'era il lavoro dei tedeschi.
È successo che un maresciallo di Oderzo è stato ammazzato qua più avanti dove finisce questo argine e c'è un frantoio di ghiaia.
Hanno preso questo maresciallo e l'hanno messo in macchina. Noi eravamo nella baracca e l'abbiamo visto passare due tre volte, bendato gli occhi, dentro alla macchina. Poi non contenti sono andati in osteria e gli hanno dato da bere e l'hanno ubriacato. Quando era verso notte sono tornati a passare e abbiamo sentito il colpo quando l'hanno ucciso. Dopo cosa hanno fatto? Hanno fatto un buco là e l'hanno messo sotto due crode, con i piedi fuori. [...] Noi eravamo pieni di paura che ci ammazzassero se vedevano questo morto, ma di tutta notte i partigiani se lo sono venuti a riprendere e l'hanno seppellito in mezzo a quella grava laggiù. L'hanno scoperto anche là, sono venuti a prenderlo e l'hanno seppellito a Oderzo.
*
Vengono sempre a trovarmi i ragazzi delle scuole, ogni anno, soprattutto il maestro Fausto Pozzobon.
*
[Durante l'occupazione tedesca] i miei vecchi andavano "a carità". Una volta sono venuti a casa con un poco di sorgo; per la strada i tedeschi li hanno trovati e volevano portargli via anche quello.
Se riuscivano a raccogliere un po' di biava, di tutta notte si recavano a Campomolino a macinarla in quel molino, sempre di nascosto, perché se li trovavano gliela prendevano.
Noi 14 eravamo riusciti a nascondere una vacca, o forse ce ne avevano lasciata una... perché ci avevano requisito tutto. Non i tedeschi, ma i poliziotti nostri: si erano messi la fascia sul braccio e ne hanno fatte anche loro sì, finché bastava. Andavano dentro per le case a requisire, portavano via le calière, portavano via tutto. Trovavano una branca di biava e la portavano via. Portavano via tutto anche loro, i poliziotti, ed erano della zona.
Nella casa di Fontanelle eravamo profughi insieme a una famiglia di Santa Lucia. C'era una stalletta là dietro e noi vi avevamo nascosto la vacca.
La famiglia di Fontanelle dove eravamo profughi si chiamava Chin. Non c'erano uomini: sia il capofamiglia che i suoi due figli erano in guerra. C'era solo la signora Luigia, proveniente da Treviso, che era anche zoppa e lavorava la campagna del conte Marcello.
Dapprima ci ha sistemato in due stanze e poi ci ha dato il solaio. Mia madre all'inizio dormiva nella stanza dabbasso, ma poi sono venuti gli ufficiali tedeschi e l'hanno costretta ad andare di sopra perché la stanza al pianoterra la volevano loro. Allora noi le abbiamo ceduto la nostra camera e siamo andati di sopra, nel solaio.
Anche la famiglia di Santa Lucia, famiglia Sanco – che poi ha tenuto a cresima anche una mia sorella – aveva una sua camera. Erano in sei e una delle figlie si chiamava Armida.
C'era il lampione a petrolio vicino alla porta d'ingresso della stanza di quelli da Santa Lucia, e una volta ha preso fuoco. Urlavano, e la casa era chiusa. Mia zia ha preso una brocca d'acqua e l'ha buttata sulle fiamme, e ha fatto peggio. Per fortuna comunque – alla fine – sono riusciti a spegnere le fiamme, altrimenti restavamo tutti bruciati perché non si poteva uscire dato che il fuoco era sulla porta.
I padroni Chin non è che ci trattassero male solo che, lei in particolare, la signora Luigia, era più furba di noi. Mia madre con questa vacca a volte riusciva a farsi un po' di formaggio. Lo metteva nella sua camera dabbasso e la signora Chin, di nascosto, andava a rubarglielo; di notte poi entrava in caneva e andava a prendersi del vino. Noi eravamo riusciti a portarci da casa un caretèl di vino per mia madre che era "in stato". Di notte lei andava dentro e se lo andava a prendere e poi usciva camminando con questo pentolino (quello del caffè) sopra la testa, sotegàndo, sotegàndo (zoppicando, zoppicando). «Eh, son 'ndata a ciòrme un poca de aqua in tel secièr», diceva se qualcuno la vedeva, invece andava a prendersi il vino in cantina, e alla fine ci siamo trovati col caretel vodo.
Mia madre era riuscita a portarsi via il vino perché era partita prima. Noi invece avevamo aspettato perché si sperava di restare.
Quando siamo partiti noi avevano già iniziato a sparare. Non si voleva andar via, ma alla fine siamo stati costretti ad allontanarci, con quello che si aveva.
Mia madre con il latte riusciva a farsi anche un pochino di burro e lo portava al comando.

Nastro 1994/28 - Lato B

Al comando faceva scambio con un po' di zucchero e la mamma ce ne dava un po' per ciascuno. Noi lo si tociàva con la polenta, polenta e zucchero: era il dolce, la carne e tutto.
Si andava a rubare zucche per i campi. Mia sorella aveva tre-quattro anni  – si chiama Rita e adesso è in America – una volta è andata a confessarsi e il prete le ha chiesto quale peccato avesse commesso. Lei ha risposto: «Son data robar na zuca» e il prete le ha detto che non era peccato, no.
E le radicèe, quelle che fanno il fiore giallo, i fratò-c (il tarassaco); ma anche altre erbe.
Mia zia Catìna (Saccon, sorella di mio padre), che aveva due gemelli, mangiava le radici delle erbe fratò-c perché non c'era niente da mangiare.
Anche lei era profuga dalle parti di Fontanelle, e in tanti si sono fermati da quelle parti.
A Fontanelle eravamo troppo vicini ai tedeschi; quello che si aveva lo portavano via tutto loro. Poareti, erano morti da fame anche loro. È per quello che hanno abbandonato l'Italia, che hanno perso la guerra!
Di San Cassiano di Livenza ricordo che eravamo tutti su uno stanzone, distesi per terra sulla paglia. Per quello i miei hanno voluto tornare indietro, riunire la famiglia.
Fra le erbe, buoni anche i bruscandoli e i s-ciopét.
Subito dopo la guerra ci siamo sistemati dentro una caneva bassa, sotto una casa. Tutti dentro là finché non ci hanno portato una baracca. La caneva era nel borgo in cui abitavamo prima, il borgo dei Cadorini che era vicino a quello dei Facchini, sopra la località Caminada di San Polo, per andar verso San Michele.
Subito dopo la guerra due ragazzi che andavano a scuola assieme ad alcune ragazze si sono messi a battere una granata poco distante da dove noi abitavamo. La granata è scoppiata e di quelli che battevano uno ha perso le dita, una ragazza si è presa in pieno petto il cul della granata che l'ha scaraventata nella siepe e là è rimasta morta; poverina era anche senza mamma. Un'altra ragazza ha avuto tutto il viso pestato ed è morta da poco [...] La ragazza uccisa dalla granata era una Sessolo.
Nella casa dove ora c'è mia figlia, a duecento metri dall'argine, là c'era una gran buca di granata e mio suocero ha buttato dentro tutte le bombe, granate e residuati vari che aveva trovato nella campagna. Poi le ha coperte e adesso sono ancora là sotto, ben profonde e non sono state ritrovate neppure con il "ferro" con cui andavano a cercarle. Sono là sotto e non scoppiano più, ormai.
Anche a San Polo, in campagna, quando siamo arrivati noi era pieno di munizioni.
Non abbiamo visto morti, ma ci siamo presi le coperte dei militari e le abbiamo utilizzate per farci dei vestiti, braghe, cotole, di tutto.
Quella guerra là è stata molto più dura dell'ultima. Parlo per noi che non abbiamo fatto in tempo ad andare di là del Piave. Quelli invece che sono andati di là se la sono passata meglio. Anche i miei suoceri sono andati di là e sono andati negli Abruzzi con tutte le famiglie che erano nella zona lungo il Piave, perché gli italiani avevano fatto un ponte proprio dove poi noi abbiamo messo il traghetto.
Gli italiani avevano buttato giù anche il campanile di San Polo, prima di partire.
Quelli che sono andati di là non hanno patito la fame.
Quelli di qua invece ... anche i tedeschi l'hanno patita. Perché la strassavano appena arrivati, la biava la davano ai cavalli, il vino lo lasciavano andare per le caneve perché erano ormai ciochi, ubriachi. Per quello si sono fermati qua, altrimenti sarebbero andati avanti, perché di là del Piave non c'era nessuno degli italiani.
Poi gli italiani hanno lasciato andar giù tutta l'acqua dei laghi, come quella volta che hanno annegato tutti i tedeschi. Dove noi un tempo avevamo il vigneto, avevano fatto il ponte e ci sono ancora - sotto le crode - i barconi. Ce ne sono tre quattro, di ferro. Uno lo hanno tirato su quelli di San Polo alcuni anni fa. Quanto hanno lavorato sotto acqua per tirarlo su, quei ragazzi!
Quando i tedeschi hanno fatto il ponte per andar di là, gli italiani hanno mollato l'acqua. Così si è rotto il ponte e tutti i tedeschi si sono annegati. Non è stata la pioggia: hanno lasciato andare l'acqua apposta.
*
Alluvione del 1966. Qella volta l'acqua si è alzata fino a sopra là, ha lambito la casa. Faceva paura; poi ha rotto a Saletto e allora l'acqua ha iniziato ad abbassarsi. È andata fuori di là. Noi siamo andati [con la barca] a portare da mangiare all'Ospedale di Motta; ce lo sono venuti a chiedere.
*
Una volta c'era uno qua a Cimadolmo che faceva barche, era un certo Bassetto; mi pare che abitasse in mezzo alle grave.
La barca è in abete, perché pesa meno. Dentro vi stavano dieci uomini e dieci biciclette.
È lunga 4 metri e larga crca 1,80 - 2 metri.
Era fatica ... e tante volte siamo andati prenderla a Ponte di Piave. Magari ce la slegavano, se la prendevano e andavano in giù, invece di chiamarci; ma l'abbiamo ritrovata sempre intatta.
Una volta qualcuno l'ha nascosta dietro un bàro (cespuglio).
L'osteria una volta non c'era; c'era solo la nostra baracca- abitazione; l'osteria l'ha messa mio figlio una decina d'anni fa.
Il tetto della baracca era con tegole, ho ancora la fotografia.
Dalla famiglia grande – quaranta persone – che si trovava tra Tempio e Fontanellette, sotto Fontanelle in Borgo Dalla Torre, siamo venuti via quando io avevo sette anni. Siamo andati a San Polo e me lo ricordo ancora.
Poi io sono stata a servire a Venezia da dei signori: era la moglie di un capitano della Marina. L' avevo conosciuto tramite uno di Cimadolmo che l'aveva avuto come suo capitano. Si chiamava Marcuzzo, al Lido, vicino a dove arrivavano i vaporetti.
*
Maria Saccon è la protagonista del libro della Alessandra Jesi Soligoni "Ines del traghetto".
La Soligoni veniva qua alla mattina "a prendere le arie" ancora prima di scrivere il libro. 
Qua alla mattina presto era sempre pieno. Una volta non andavano a Jesolo, il dottore li mandava qua. C'era sempre acqua e loro camminavano lungo l'acqua. Alle cinque erano qua, camminavano e poi andavano a casa.
C'era anche il "campo solare". Andavano a buttarsi giù in quel murazzo là. 
Là c'era anche una baracca dove facevano da mangiare per i ragazzi. Erano gli alunni delle scuole della zona: prendevano il sole come in spiaggia. C'era anche un areoplano che faceva il giro ogni giorno...
La Soligoni è di Ormelle e sua madre è morta da poco. Ora abita a Treviso e veniva a prendere le arie al mattino anche lei.
Pavan. Ormai lei è famosa. Quando mandava avanti il traghetto non avrebbe pensato che un giorno tutti l'avrebbero cercata...
Saccon. Quanta acqua ho preso! Se dovessi tener conto di tutta l'acqua che mi sono presa, a tutte le ore, non dovrei neppure più camminare.
Freddo o caldo. A volte c'era il ghiaccio. D'inverno ce n'era sempre, una volta; la stanga era sempre piena di ghiaccio.
A volte la barca era di là, e stivali non ce n'erano. Mi toccava andare dentro scalza e mi toccava poi massaggiarmi le gambe. Tanti mi dicevano òcio, te va dentro in tel'acqua, ocio che te ciapa qua, te ciapa là. Invece ringrazio il Signore ma sto bene.
E sempre scalza. D'inverno avevo gli zoccoli, ma sempre acqua era.
Nuotare non sapevo nuotare: se cascavo dentro mi sarei annegata. In questo posto davanti al traghetto c'erano sei metri di acqua normalmente e i ragazzi andavano sempre a nuotare, si tuffavano.
Una volta una guardiacaccia di nome Orso che era di là del Piave, ha chiamato mia figlia che andasse a prenderlo. Lei è andata, era quasi mezzogiorno. Ha poggiato la stanga su una croda ed è scivolata, cadendo dentro in acqua. La barca è scesa da sola lungo la corrente. Mio marito ed altri ragazzi vedendo la barca scender vuota si chiedevano coma mai, cosa era successo; oltretutto non c'era neppure la stanga su. Nel frattempo mia figlia andava su e giù nell'acqua perché era caduta proprio in un tòrcol, un mulinello. Per fortuna dopo tanto ha trovato sul fondo un rialzo di sabbia. È riuscita a poggiare i piedi e a uscire dall'acqua, spaventatissima: «momenti me negàa». Era mia figlia Gaiotto Luciana, la mia ultima figlia. Avrà avuto 18-19 anni.
Qua davanti alla casa – all'ex baracca – ci sono tante crode sotto; il Piave si è ristretto più di una decina di metri, sempre con queste crode. In questa maniera non c'è pericolo che la terra venga erosa e l'acqua "mangi la casa".
Mio marito sapeva nuotare.
Acacie, càssie mate. Sono buone «fin che e mena», cioè finché non finiscono di crescere, d'estate. Solo in quel periodo si riusciva a scussàrle, dopo non più. Il periodo buono è da maggio finché iniziano a chiudersi, cioè quando non "camminano più", non corre più la linfa. Lo si vede dalla cima della pianta, che "si chiude".
La fornace di Roncadelle, vicino al traghetto è di Bortotto Isaia. Ha funzionato fino a poco dopo l'alluvione. Ora pare che vi debbano fare una pizzeria, una gelateria.
La fornace funzionava con sassi del Piave, oppure con quelli del Cellina. Servivano per ottenere calsìna [calce], che una volta era molto utilizzata.
La baracca della guerra, dove abitavo prima, aveva due stanze. Poi un po' alla volta abbiamo allargato la baracca e anche la nuova casa.
Anche qua sul Piave ci sono le zanzare...

Aggiunte e precisazioni, 13 settembre 1994

Il pìc della pertica era fatto da un artigiano del posto, di Roncadelle.
Le tre figlie emigrate in Svizzera erano Elide, Maria Pia e Edda. Un'altra figlia, Luciana, era in Germania. In tutto ho cinque figlie. La più vecchia, Dilva, è rimasta invece in casa.
Giunchi: Vénchi farinati e vénchi di un'altra specie. Li raccoglievo a Cimadolmo. C'erano delle fabbrichette a Cimadolmo. Noi li portavamo da Barbaress. A Stabiuzzo ce n'erano tanti che li raccoglievano; a Stabiuzzo, più che a Cimadolmo.
Quella volta che a Cimadolmo dovevano aprire la fabbrica di vetro. Non l'hanno voluta perché in paese temevano che si perdesse il lavoro dei cesti a causa di questa fabbrica. Così l'hanno fatta a Ormelle e a Cimadolmo sono rimasti con un pugno di mosche, visto che comunque i cesti poi non li hanno fatti più. Non c'era più futuro per loro, c'era la plastica.
[...] Noi siamo in dieci fratelli, una è nata da profuga a Fontanelle nel '18, si chiama Celestina [...] Dei dieci fratelli, ancora otto sono vivi, la più vecchia è del '6 (Rosina) e il più giovane è del '20. Dieci figli in quattordici anni. Una volta era così.
Io ne ho avuti sette: cinque femmine e due maschi.
Da profuga: rane e pesci nei fossi. Mia madre li arrostiva magari con un po' di burro. 
Quando di pesci se ne prendeva pochi, mia madre li metteva dentro a delle scatole vuote di conserva che i tedeschi buttavano via. Li metteva dentro finché le riempiva, coprendoli col sale. Così si conservavano finché ce n'erano a sufficienza per mangiare. Barattoli di latta avanzati dai tedeschi. 
Il problema però era il sale: ce n'era sempre poco. Bisognava andare dai tedeschi al comando e in cambio di un po' di burro ci davano il sale e lo zucchero.
Noi profughi eravamo sprovvisti di tutto. Chi era rimasto a casa sua qualcosa era invece riuscito a nascondere. A noi tutto quello che avevamo lasciato a casa ce l'hanno portato via o ce l'hanno mangiato i cavalli germanici.
Mia zia Luigia e mia sorella Rosina alla fine della guerra si sono prese il tifo e sono state portate in un ospedale militare dalle parti di Oderzo.
Lo zucchero, per tociarlo con la polenta, lo stendevamo su un piatto.
Dopo la guerra sono andata a servire dalla signora Marcuzzo al Lido, che era sola e aveva due figli: uno era capitano di marina e faceva la spola coi piroscafi da Venezia a Trieste. La loro casa era proprio in vista della laguna, si vedeva San Marco.
[...]
Maria racconta il suo modo di «far l'amor»: i fidanzati seduti sotto il portico, dove c'era un'immagine della madonna ... e quando un vecchio accendeva il lume voleva dire che era ora di smettere e di andare a casa. 
Seduti, davanti a tutti...
Una volta «c'era più allegria», rispetto ad ora. C'era più unione, invece adesso tutti hanno la macchina e tutti sono per conto suo. Una volta biciclette non ne avevano, macchine non ne avevano, gli toccava andare a piedi e allora si univano.
Ora sul Piave non c'è più acqua. Ce n'è d'ora in avanti [in autunno], quando non ne serve, ma d'estate la prendono tutta per le campagne.

martedì 5 ottobre 2010

Silvio Rosa Teo e Teresa Colussi Oliva

Coniugi. Nati rispettivamente il 20 marzo 1910 a Borgo Cudili, località Colvere, frazione di Frisanco (PN) e il 24 novembre 1907 a Poffabro (PN). Residenti in Borgo Cudili.

Nastro 1998/12 - Lato B                             19 maggio 1998

Abitano in una caratteristica antica casa, dove una colonna riporta anche una scritta, da decifrare. Casa con i "paói", ballatoi in legno che servivano per mettere il fieno ad asciugare e conservare. Un borgo ormai spopolato.

SRT (= Silvio Rosa Teo). [...] Quando sono venuti i tedeschi posso dire una cosa: che la mia mamma mi ha dato sei sette galline che avevamo noi e mi ha detto vai su un buco qua dietro la casa, perché vengono e mangiano tutto.
Difatti ne erano rimaste ancora due-tre galline, nel pollaio, sono arrivati due militari, le hanno prese e le hanno messe nella "caldaia" e uno con la gavetta beveva il brodo, mentre bollivano. 
Fame!
Però le sei galline che ho nascosto non sono riusciti a trovarle. Erano dentro ad un fossato, alto. Le ho portate con una gerla e le ho tenute finché i soldati sono stati là poi, quando loro sono andati via verso Maniago, io sono ritornato e le ho rimesse nel pollaio.
Quando hanno perso la guerra i tedeschi sono ritornati indietro. Con un asino, una mitragliatrice e 25-30 uomini sono passati per questa strada.
Mia mamma ha detto andiamo a veder che adesso arrivano i militari nostri, gli italiani. Allora non c'era la galleria, e su quell'ultimo ponte ("il terzo ponte") abbiamo trovato un soldato italiano che veniva avanti con una motocicletta e ci ha chiesto:
- Avete visto i tedeschi?
- Eh, sì, sono andati.
- Beh, han perso la guerra!
I tedeschi, mentre scappavano con l'asino non ci hanno fatto niente.
Quando invece venivano a portare la posta - perché c'era anche a Poffabro un po' di comando - mangiavano i córnoi [frutti del corniolo - cornolàr, Cornus Mas]. È una pianta selvatica che fa dei "bromboletti" rossi, che li si può mangiare. È una pianta del bosco e con quei frutticini si può fare anche il vino: si mettevano su una bottiglia, faccia conto mezzo kilo di questi cornoletti, con due litri d'acqua e veniva fuori un vino speciale, una bevanda non alcolica di colore rosso.
I tedeschi, quando venivano su a piedi da Maniago e trovavano questa pianta, prendevano i frutti - che hanno un ossetto dentro - e li mangiavano. C'è ancora una pianta di quel tipo, di là del torrente. Adesso i frutti ci sono, ma sono ancora verdi, vengono rossi più tardi.
I tedeschi venivano solo a controllare. A Poffabro c'era il comando e anche a Frisanco. Venivano solo a guardare se potevano trovare qualche cosa da mangiare.
Poi qua c'era uno della Bassa Italia. Siccome nella ritirata certi militari che dovevano andare in Bassa Italia sono rimasti nelle case, non so se mi spiego, hanno fatto confidenza e gli si dava da mangiare, anche se ce n'era poco anche per noi. Ma loro non stavano senza far niente, facevano un gerlo, dei rastrelli per tirare il foraggio, quello che sapevano fare.
Quando venivano i militari tedeschi, gli si diceva: «Guarda che ci sono i tedeschi» e loro andavano nel bosco.
Non erano come i partigiani, non erano armati: stavano solo nascosti.
Non li si chiamava proprio disertori, perché erano rimasti indietro quando c'era stata la ritirata, e hanno dovuto nascondersi qui.
Noi non si diceva niente, era come fosse un morto. Non sapeva nessuno che ce n'era uno qua, uno nel borgo Polazzi, uno nel borgo [...]. Nessuno sapeva che c'era. Noi lo sapevamo tutti che c'erano questi soldati italiani, ma i tedeschi non lo sapevano.
Qua nel borgo di Cólvere saranno stati un 5-6. A Poffabro ce n'erano di più, anche se c'era il comando tedesco. Stavano su sulla montagna, avevano fatto come una trincea e quando si accorgevano che venivano i tedeschi, allora andavano su e si nascondevano.
Alcuni erano proprio da Poffabro «erano rimasti indietro», non hanno fatto apposta, non hanno fatto in tempo. [I testimoni lo dicono con convinzione].
Per non farsi prendere dai tedeschi e andare in guerra sono rimasti nascosti nel bosco. Hanno buttato via tutte le divise italiane e si sono vestiti da borghesi: vestiti, camicie, quello che capitava. Sono stati alla macchia, non disertori: non hanno fatto in tempo a passare.
TCO (= Teresa Colussi Oliva). Invece a casa mia erano passati in 4-5, durante la ritirata e ci avevano lasciato due tre bei pezzi di carne che avevano con loro e che non avrebbero potuto portarsi avanti. Poi hanno proseguito nella ritirata. Sono arrivati i tedeschi il giorno dopo e hanno portato via tutto.
SRT. Il fratello mio, classe 1999, ha fatto in tempo verso Maniago Libero, durante la ritirata, ad incontrare dei parenti che erano di laggiù e a dir loro di avvertire la famiglia che stava per ritirarsi.
TCO. "Classe 1999", c'era una canzone che faceva: «General Cadorna, capo degli assassini, chiama il '99 che sono ancor bambini.» 
SRT. Mio fratello era alpino ed era stato prima sul fronte ad Osoppo. Invece di venire qua e fermarsi, quando era a Maniago ha continuato per la sua strada verso il Piave. Aveva sullo zaino una forma di formaggio che gli aveva dato sua mamma due giorni prima. Per fortuna aveva quella, perché una pallottola ha forato la forma di formaggio e così non lo ha preso. Questo è successo dopo Maniago Libero, verso Montereale. [...]
È passato per Poffabro – sulla strada che va a Pala Barzana – lo Stato maggiore italiano. Siamo andati a contare le macchine e abbiamo contato 110 macchine, automobili come erano quella volta, piene di ufficiali dello Stato Maggiore. A Pala Barzana non c'era la strada bella come è adesso.
A Pala Barzana è morto anche un italiano, comunque poca roba, poca resistenza.
TCO. Ricordo solo che sono venuti avanti [i tedeschi, a Poffabro]. Siamo venuti tutti in piazza.
Noialtri avevamo una stalla, fuori, e vi avevamo portate le bestie perché un tedesco aveva detto a un mio zio che sapeva parlare il tedesco – perché era stato a Vienna tanti anni: «Portale via le mucche, perché sono pieni di fame e ve le ammazzano e ve le mangiano tutte».
Tutto uno squadrone di tedeschi ... a casa mia hanno cucinato una mucca e un maiale e l'hanno mangiati là in casa. Poi sono andati in camera, hanno tirato giù le lenzuola dal letto, nel comò sono andati a prendere le lenzuola pulite e ci hanno detto: «Questa sera qui dorme il comando.» E noi siamo andati a dormire nel fienile.
Però non hanno rubato niente. Avevano fame loro, pensavano solo al mangiare. Il giorno dopo se ne sono andati.
C'era l'albergo a Poffabro – l'albergo di Pièri – e là vi hanno messo il comando. Dopo si aveva sempre paura perché venivano sempre per le case a veder se trovavano qualche cosa.
Ah, io ho patito la fame in quella guerra; in questa, l'ultima, no.
SRT. Anch'io ho patito la fame, ma anche adesso in questa guerra l'ho patita.
Quando è finita la prima guerra è venuto un medico americano a Maniago in via Roma dove c'è un barbiere. C'era questo medico americano e mia mamma ha detto a mio papà: «Lo portiamo giù» ... per vedere se poteva farmi qualcosa, perché si mangiavano peteràti, cioè un'erba che cresce sul campo, come il radicchio e se non c'era altro la si tagliava e la si mangiava. Inoltre si mangiava la cùca un'altra erba più garba. Si trovano anche adesso: dopo gliele faccio vedere.
Non c'era niente da mangiare. Prima si era nascosta un po' di roba, ma dopo è finito tutto. [...] Si andava Alla Bassa, a Pordenone, Grions, Portogruaro e là si trovava un po' di biava, un po' di frumento, quel che si trovava. Si stava via due tre giorni e si dormiva per i fienili, per le stalle. Si chiedeva al padrone se ci lasciava dormire per la notte. Sempre chiedere.
Si riusciva sempre a portare a casa qualcosa, a volte pagando ma volevano solo soldi italiani, non corone. Noi avevamo un po' di soldi frutto dei risparmi, come si fa nelle famiglie. Quella volta noialtri i soldi li avevamo nascosti e quando si andava Alla Bassa se ne portavano un pochi. [...] Andavano Alla Bassa i nostri genitori, papà e mamma.
Mio papà non era in guerra, mio zio sì (quello del '99).
TCO. Quando ci hanno liberato dai tedeschi mia mamma è andata a Maniago, come tutti.
C'erano di quelli che scrivevano su un tavolino per conto di chi non sapeva scrivere e mia mamma ha mandato una cartolina in America ... perché tutti i paesani che erano in America volevano sapere se erano ancora vivi quelli del Friuli. E quando la cartolina arrivava in America si riunivano tutti i paesani per sentire le ultime novità dal Friuli, dopo un anno sotto i tedeschi.
Come morti, durante l'occupazione, non ne hanno fatti, i tedeschi, ma come prendere roba da mangiare hanno portato via tutto!
D. Si sente dire che sono nati tanti bambini illegittimi, da questi tedeschi?
R. Qua no, non posso dire in altri posti.
Loro badavano al mangiare. Venivano dentro e portavano via tutto.
Quelli della posta - che le ho detto prima ­- venivano da Maniago a portare la posta ai suoi soldati e si fermavano a mangiare i frutti di questo corniolo. Poi proseguivano. Erano in due quelli della posta e venivano su a piedi.
SRT. Quando gli italiani sono tornati a liberarci, sono passati di qua un asino con sopra la mitragliatrice e con una ventina di tedeschi dietro; senza parlare e senza dire niente.
Io e mia mamma abbiamo visto questo asino con la mitragliatrice e i militari che vanno verso l'Austria. Ho detto a mia mamma: «Ma allora siamo liberati, andiamo a vedere a Maniago». Siamo scesi verso Maniago, e quando siamo stati là in mezzo alle gallerie, che c'è il ponte, è arrivato un italiano con la motocicletta e ci ha chiesto:
«I tedeschi sono andati?»
«Sì, sì sono andati.»
Era l'unico italiano, dopo non ne abbiamo trovati altri fino a Maniago.
A Maniago era come una festa anche se non c'era niente. Non c'erano bandiere, soldi non ce n'erano. Niente non c'era, patito la fame; allora era poca festa, non so se mi spiego.
TCO. Quando sono arrivati gli italiani, mia mamma è andata giù a Maniago.
Dappertutto è stata fame. Beh, forse Alla Bassa, laggiù, nei paesi più bassi dove avevano terra, producevano qualcosa nella loro terra. Ma invece qua no.
SRT. Qua era rimasto solo un po' di formaggio perché mio papà aveva 5-6 mucche. Avevamo una stazione di monta che abbiamo tenuto per 37 anni...
TCO. Non so se allora vi siano rimaste le mucche, perché da noi lassù a Poffabro, no.
SRT. Sì, infatti poi hanno fatto piazza pulita anche delle nostre.
TCO. Le galline le nascondevamo. A Poffabro noialtri andavamo su verso quella montagna là (sul Monte Raut) o meglio in località Ai Larcs, dove avevamo una stalla e un fienile. Là avevamo nascosto anche qualche forma di formaggio dentro al fieno.
Un giorno mentre io e mia mamma andavamo lassù a vedere, perché vi si andava tutti i giorni, abbiamo visto i tedeschi che scendevano con le forme di formaggio nel sacco!
SRT. Si nascondeva qualcosa da mangiare anche nei prati, si facevano delle cataste di fascine e dentro vi si nascondeva qualcosa da mangiare; con i topi o senza topi.
In quell'anno niente scuola...
D. Quando sono arrivati gli italiani, dicevate già allora "ci hanno liberato gli italiani" oppure lo dicevate dopo, finita la guerra?
R. No, lo dicevamo in quei giorni "ci hanno liberato gli italiani".
Ci siamo accorti che i tedeschi se ne sono andati, e gli italiani ci hanno liberato. Non c'erano più militari tedeschi.
Alla sera, alle quattro e mezza cinque, venivano sempre su due militari, venivano non per la strada, ma per un sentiero. Se c'era qualcosa da prendere lo prendevano e andavano avanti.
D. E gli sbandati italiani, nascosti, anche loro andavano in cerca di mangiare...
TCO. Sì, ma avevano la loro famiglia. Quelli che erano a Poffabro erano tutti del paese.
SRT. In casa nostra invece c'era uno napoletano e quando si vedevano questi tedeschi nei paraggi lo si avvertiva ... e se non poteva ormai uscire più per la porta, usciva dalla finestra e andava sulla stalla qua in alto, dove di solito si recava anche alla notte per dormire.
*
Era miseria. Oggi c'è abbondanza, diciamo, ma quella volta c'era miseria.
Nella nostra famiglia eravamo in dieci persone. Mia sorella Romana è andata in America, sposata con un Giacomelli ed è ancora là vicino a Filadelfia negli Stati Uniti. Poi avevo altre tre sorelle e un fratello maschio che era andato in guerra. [...]
TCO. In casa nostra invece eravamo sole io e mia mamma. Mio papà era in America e non è tornato per la guerra...

Nastro 1998/13 - Lato A

... perché in America la classe di mio papà (che era del 1881) non è stata chiamata. Invece quelli dell'80 sono dovuti andare.
Da Poffabro in tanti, all'inizio del secolo erano emigrati in America.
SRT. Mio papà era in Istria con mio nonno a fare il boscaiolo.
TCO. Mio papà era nelle "mine" del carbone. È tornato dopo la guerra con un po' di soldi e si è stabilito qua. Poi ha cercato di ritornare via, ma gli mancava una carta, allora è andato in Argentina, dove è rimasto cinque anni e dopo è ritornato a casa per sempre.
D. Poffabro, quanti abitanti ha?
­­– Eh, ce n'è pochi, adesso. Quattro gatti a Poffabro, sotto il comune di Frisanco. Qua erano tutti emigranti.
Mio papà è andato a Graz di 14 anni a pestar grava di stéli in stéli nella strada [a spaccar sassi per la strada, dalle stelle alle stelle, cioè tutto il giorno].
Partivano con un gruppo di paesani di Poffabro. [Andavano nelle cave di ghiaia, a rompere i sassi per stenderli nelle strade].
SRT. La nostra casa è stata fatta nel '700. L'hanno fatta i miei antenati che, dopo aver lavorato quello che serviva per vivere, si aiutavano l'un l'altro a costruire.
Interviene il figlio. Andavano nel torrente a prendere i sassi, poi preparavano la calce, poi andavano nel bosco a prendere la legna. C'era fratellanza. Tutte le case di questi borghi sono di sassi. Sassi e legno.
Mi mostra l'interno della casa.
Il focolare, che adesso usiamo solo per far le castagne. Il camino ha un buon tiraggio e una volta veniva regolarmente pulito dallo spazzacamino: appoggiava la scala all'imboccatura e poi vi si arrampicava fino in cima con "schiena e gambe", per poi ridiscendere, tutto nero. Non è che lo spazzacamino scendesse giù dall'alto, ma vi saliva dal basso.
SRT. Io sono ritornato dalla Germania ammalato, dopo la Seconda guerra. [...]
Mi mostra la ferita che ha sul petto, "ricordo" della Germania.
Tre anni e mezzo di pus. In prigionia, un tedesco mi ha colpito col calcio del fucile. Quando sono arrivato a casa sono andato dal medico e gli ho detto di incidermi, di tagliare. Ho stretto i denti...
In Germania facevano 18 cose con il materiale che noi scavavamo in miniera. L'ultima era la ghiaia, la prima il carbone.
Eravamo nei pressi di dove c'erano i forni crematori. Di mille soldati italiani prigionieri siamo rimasti in 90.
Quando ero in Grecia, avevo un amico che poi è diventato primario pediatra dell'ospedale di Vicenza, ed è ancora vivo. [...]
I tedeschi ci hanno preso in Grecia e ci hanno portato in Germania, anche questo medico, un colonnello. Gli ufficiali li hanno messi su un carro e noi ci hanno portato su una miniera. Io ho lavorato sempre in questa miniera.
Quando sono ritornato dalla Germania, un parente - uno zio - mi ha rintracciato il medico vicentino con cui ero insieme in Grecia. Siamo andati a Monte Berico, e per la strada ho dovuto fermarmi due tre volte, perché lo stomaco mi faceva male: avevo lo stomaco piccolo.[...]
Il mio stomaco è rovinato, e dopo la prigionia devo mangiare come le mucche. A volte, dopo essere stato nello stomaco, il mangiare mi ritorna in bocca e lo devo rimasticare. [...]

giovedì 30 settembre 2010

Giovanni Puicher Soravia, Sappada BL

Nato il 18 ottobre 1903

Nastro 1996/1 - Lato A                                        1 febbraio 1996

D. Ricorda quando siete dovuti andare via da Sappada?
R. Sì, io ho diversi articoli, vediamo, vediamo. [Non lo lascio guardarli]
... Dunque il 28 ottobre del 1917.
Ho scritto diversi articoli e poi sono interessato a Timau, le portatrici...

Nastro 1996/1 - Lato B

Il 28 abbiamo saputo che c'è stata la rottura, là verso Caporetto.
Abbiamo saputo, ma noi non c'interessava, io ho scritto un articolo anche.
Non c'interessava [perché] eravamo così lontani...
Però nei due giorni seguenti vengono dei soldati: «Dovete andare via da qui, c'è stata la rotta, i tedeschi sono penetrati verso Caporetto».
Ma siamo pur qua! Come a dire: siamo distanti da Caporetto.
«No, no» c'han intimato.
Dunque, sa cosa facevano questi soldati sotto le borgate – io stavo a metà paese, tutte case di legno, erano. Stavo nella borgata Fontana, quella volta – gettavano delle bombe a mano, i militari nostri, per farci impaurire, per farci scappare.
Buttavano delle bombe come a dire: «C'è la guerra qui, dovete andar via sennò bruciamo le case».
Sì, gli italiani, perché andassimo via.
A noi non c'interessava andar via. Pensavo, sarà una cosa provvisoria, chissà.
Avevamo dieci capi di bestiame, noi: mio papà Valentino, poi c'era ancora il nonno Giovanni.
Valentino era come militarizzato, aveva l'esonero ma con [l'obbligo] di accorrere in qualunque momento l'avessero chiamato. Era qua in casa, con otto figli. Aveva appena avuto l'esonero in maggio. Richiamato nel 1916, con otto figli, finalmente ha avuto l'esonero.
Sì, sì, c'han minacciati [con le bombe a mano, per mandarci via]. C'han detto: «Andate via, sennò bruciamo le case.»
Allora abbiam preso questo bestiame, avevamo due carri, un paio di buoi piccoli - avevano tre anni, diciamo - e un paio di mucche. C'era mio zio Ludovico anche, e la zia Maria (sua moglie).
Io e il nonno con un carro, con sopra dei maialini e la scrofa. Sull'altro carro avevamo trentatre colli, perché quelli della borgata Fontana ci han dato ognuno un collo. Ma noi si pensava di andare a Santo Stefano, forse in Cadore, appena. Sarà un momento...
Per fortuna avevamo venduto un paio di buoi di quelli da dodici anni, un mese prima. Li avevamo venduti a un privato: un barone, il commendator Protti di Longarone. Per fortuna che avevamo quei pochi soldi in casa. Avevamo preso bene di quel paio di buoi, mi pare ottomila, che era una somma. Ma eran buoi forti, grandi!
Avevamo una bella campagna eravamo una famiglia bacàna, come si diceva una volta. Vuol dire: bacani erano quelli che possedevano almeno dieci - dodici capi di bestiame.
Poi si avevano di solito anche due maiali e la scrofa. Si vendevano i maialini qua e là per la Carnia. No, mai nei mercati, venivano a prenderli.
*
Allora giù per questa Acquatóna, si chiama questa strada, e Santo Stefano. A S. Stefano volevano comprare i maialini al nonno, per cinque lire [l'uno]. Ma lui arrabbiato: «Come cinque lire, vale di più un maialino!» Anche quella volta valeva dieci.
Magari li avessimo dati via!
Beh, siamo andati giù. Abbiamo dormito a Santo Stefano vicino alla chiesa, non c'è più quella casa.
Era proprio il primo novembre, il secondo novembre, che laggiù c'è il mercato bestiame e merci, da tanti anni, da cento anni, diciamo.
Il mercato, ma dico: «Che bel mercato quest'anno, eh. Che bel mercato dei Santi!»
Siamo qua, e pioveva a dirotto. Siamo qua, ma dove andiamo, cosa fanno di noi?
«Dovete andare avanti.»
Abbiamo conseganto il bestiame a Santo Stefano, che c'era un parco. Avevamo anche un toro, due mucche, tre quattro vitelle. Abbiamo consegnato. C'era un comando, un piazzale di là del fiume. Ci han consegnato un buono, abbiam messo in tasca il buono. E poi...
«Ma qui non dovete stare, dovete andare avanti!» ci dicevano i soldati.
Noi con i carri, io e la zia, una mantellina ci han dato. Pioveva a dirotto.
Nella valle che va fuori a Cima Gogna, la strada antica non la galleria, pioveva a dirotto, tutte le truppe in ritirata, pensi che casino!
Dunque, io e la zia con i buoi piccoli, lo zio con le mucche e con un altro carro, siamo arrivati a Lozzo. E cosa fare?
D. Gli altri abitanti di Sappada, sono venuti via con voi?
R. Sì, siamo tutti venuti via...
A Santo Stefano avevamo venduto il bestiame in più; ci siamo tenuti quello per tirare i due carri.
Siamo arrivati a Lozzo. Cosa fare?
Nostro padre ha detto: «La prima casa di Domegge no, la seconda andando in giù, che conosco la famiglia, lasciate là tutta la merce.»
Siamo andati giù. Le bestie le abbiamo lasciate a Lozzo, da uno che mio zio conosceva, osteria La Luna si chiamava. Abbiamo lasciato là queste bestie con il carro [...]
Il maiale con i maialini li abbiamo lasciati là, a quella donna dove abbiamo dormito a S. Stefano. Li abbiamo lasciati là, senza soldi. Cosa potevamo fare a quei maialini, ci voleva la cura, no? Meglio era se li avessimo dati prima, a cinque lire all'uno.
Beh, mio zio dice: «Lasciamo qua - che conosco quest'oste - le mucche e questi manzetti.» Ha preso su un cavallo e siamo andati giù a Domegge, in questa seconda casa, aspettando gli altri, tutta la famiglia, che c'era quattro bambini della zia più nonno e nonna che son rimasti a S. Stefano.
Nel frattempo li avevano caricati e portati a Calalzo con i camion, la massa di Sappadini, forse seicento.
D. Solo a Sappada gli abitanti son stati costretti ad andar via o anche a S. Pietro di Cadore, non so... ?
R. Anche qua, ma non tanto. Era soprattutto Sappada che è stata costretta ad andar via...
D. Perché?
R. Noi siamo più obbedienti!
D. Ho visto nei registri del Comune che trecento persone non sono andate via...
R. Sono rimaste, sa perché? Erano un po' fuori strada, erano nei paesi piccoli. Sono rimasti alcuni a Cima Sappada, e poi quei paesetti su, due-tre paesetti.
Poi abbiamo scaricato a Domegge tutta la roba [...] Tornando indietro verso Lozzo, con lo zio e la zia, con la mantellina, a piedi sempre a piedi, tutta quella maledetta valle a piedi... Pioveva a dirotto, i militari in rotta, ognuno per suo conto, sbandati. Erano tutti come sbandati, "si salvi chi può".
D. Anche qui, nel Cadore? Mi sembrava di aver letto diverso.
R. Sì...
Allora, tornando indietro verso Lozzo pensavamo di andare dormire a Lozzo dove avevamo le bestie. Vediamo una colonna di militari, di camion. E da uno [di questi camion si sporge] una ragazza che si conosceva. «Ehi – dice - sono qua i vostri, sono qua dentro!».
No! Oh, porca miseria ... invece di andare a Lozzo [ritorniamo]verso Calalzo.
[...] C'era un sergente nostro paesano, che era là di servizio a Calalzo – si chiamava Piller Onder Augusto, una brava persona. È morto alla vigilia dell'armistizio, brava persona – e dice: «Mezz'ora fa ho accompagnato in treno la nonna che stava male. Son partiti mezz'ora fa».
Noi rimaniamo a Calalzo, avevamo questa catasta di 33 colli, ognuno ci aveva dato un fascio dentro ad un lenzuolo, per vestirsi. 
Per noi avevamo portato due sacchi pieni di forme di formaggio, e in più avevamo un sacco di fagioli.
A Calalzo ci siam trovati ancora in 150, in attesa. Erano quelli che sono venuti dopo, sempre di Sappada. Là non abbiamo visto nessuno di altri paesi.
Dopo tre giorni di attesa ci han caricato sul treno e abbiamo viaggiato tutta la notte. La mattina dopo eravamo a Fano. Là ci han fatto scendere e siamo saliti in città, una città cinta di mura. Sa dove ci han messo prima, perché non ci sparpagliassimo? Nel cimitero! 
L'ho scritto, nel cimitero di Fano, perché erano impreparati.
Finalmente ci han messo su una grande aula del patronato scolastico, su in soffitta, un grande stanzone, e là siamo rimasti un mese.
Un giorno, guardando fuori, abbiamo sentito dei colpi di cannone. Sa che c'erano sei navi austriache, là davanti a Fano? Cercavano di colpire la stazione e il ponte sul Metauro. Tutto un fuggi fuggi generale, per andar dietro le mura, dall'altra parte di Fano. Tutti scappavano.
Beh ... dopo, da un giornale, abbiamo saputo che i nostri paesani erano ad Arezzo. Così dopo un mese ci siamo ricongiunti. Siamo stati là ad Arezzo su una villa, "villa Subbiani", appena fuori di Arezzo. L'ho scritta tutta questa storia.
Quelli che sono rimasti a Sappada sono stati niente male, perché erano tutti contadini. Vivevano, vivevano e poi forse han "preso su".
Noi avevamo in cantina settanta gerli di patate, settanta. Mai come in quell'anno. Dunque, se son stati furbi li han presi. Molti, mi pare, li han portati via i soldati austriaci, perché quando siamo ritornati dopo 17 mesi non abbiamo trovato più niente.
La casa era sana, il paese non era stato colpito.
È che mio nonno non voleva andar via. Diceva a mia nonna: «Lasciami qua, lasciami qua... ti do l'ultimo soldo, lasciami qua, non voglio andar via. Lasciami qua, per amor di Dio». Difatti è morto laggiù, profugo, dal dispiacere, dal crepacuore. [...]
Siamo rimasti giù diciassette mesi, sparpagliati.
I primi che sono andati giù - con i seicento - son arrivati fino a Firenze e li han messi dentro a dormire a Santa Maria Novella, nella chiesa. E dove metterli, all'aperto? Poi li han portati a Arezzo nel teatro, come si chiamava quel teatro... "Politeama Aretino", e dopo li han smistati.
La nostra borgata, borgata Fontana, è andata a finir tutta nella villa Subbiani, una cinquantina di persone. Era una villa proprio, di un possidente che aveva mezza collina poco fuori di Arezzo, mezz'ora; di sotto c'era la chiesa dei cappuccini, il convento. La località non aveva un nome, era proprio sopra la villa Redi, quel famoso umanista.
*
Io ho fatto il pastorello quando ero piccolo. Non avevamo pecore ma vitellini, torelli, al pascolo: quelli che non si poteva portare in montagna perché erano troppo piccoli. Sennò ci son le malghe, c'erano pascoli su in alto, in Val Sésis. C'era anche la casera, dove si faceva il formaggio.
*
Laggiù, prima ho fatto lavori nella vigna di questo signore. Si faceva dei muretti pieni, ci faceva lavorare e si prendeva qualcosa, due lire al giorno [...] una lira e 25 al giorno, dal governo. E i nonni, che figuravano separati, prendevano due lire per ciascuno.
Di pane ce n'era abbastanza, e allora cosa si faceva? Zuppa! Non v'era verso di far la polenta come si usava noi. C'erano quei fornelli come usano loro, a carbone; come si fa a far la polenta? Sempre zuppa!
Era zuppa di farina bianca abbrustolita di frumento, farina bianca, non di mais; ma quanta zuppa abbiam mangiato! Pane ce n'era abbastanza, lo [mettevamo] dentro il pane, in questa zuppa.
La zuppa si faceva con l'acqua. Il latte lo davano solo ai malati. Acqua e sale, e farina abbrustolita, farina di frumento.
Noi la si chiamava brhenzuppen – qua abbiamo un dialetto tedesco – che vorrebbe dire un po' bruciata, perché prima bisognava abbrustolirla, la farina, fin che diventava scuretta e poi l'acqua sopra. Io la mangiavo volentieri.
D. La mangiavate anche qua in paese?
R. Sì, sì, sempre, ma molta polenta. La mattina era polentina, diciamo; quella si faceva in pochi minuti [...]
A villa Subbiani, dopo aver lavorato in questi filari di uva, il nostro cappellano mi ha trovato un posto come garzone in un negozio di ferramenta in città di Arezzo, da "Ricci e Pellizzari".
Il cappellano era Don Emilio Troiero. Mi ha trovato il posto come commesso e son stato là parecchio. Non ricordo neanche la paga che prendevo. Il negozio vendeva ferramenta, misticherìa ... misticherìa vuol dire stucco, oli, così.
*
Fra le due guerre ho fatto l'impiegato ad Asmara. Son stato undici anni in Africa. Sapesse che vite che ho fatto io. Quattordici stagioni in Svizzera, carpentiere. Ho scritto tutto.
*
Ferdinando Polentarutti. Sono andati "questi fetenti" [di soldati] anche da lui a dire che se ne vada via. E lui ha detto: «Io faccio quello che fa il mio popolo». Ma, non so cosa, bastava una parola quella volta... È stato in prigione, poi l'hanno rilasciato, più tardi. Lui ha detto: «Faccio quello che fa il popolo.» Loro volevano dire: «Predica che vadino via!» E dice: «Io faccio quello che vuole il popolo, sono il loro parroco, non so cosa fanno.»
Non si sono comportati bene, i soldati, no, no. Sebben che era prete, forse li ha maledetti, anche. Qualche ufficialetto, di quelli stupidi ... sa come sono quegli ufficialetti!
Le faccio un esempio. Qua giù a Rigolat[o] c'era un albergo. Ora non c'è più, l'albergo del cavalier Zanier. Questi ufficialetti appena usciti dall'accademia, erano là in questo albergo, dietro il focolare...

Nastro 1996/2 - Lato A

... Sono là, attorno al focolare, e discutono: «Ah, questi austriaci, in 14 giorni li buttiamo giù di là». Il cavaliere, che aveva un'età, dice: «No, ragazzi, no, non è così facile, l'Austria è un osso duro». L'han preso e l'han portato via, si chiamava Amedeo Zànier. L'han portato via e per fortuna aveva un avvocato della Carnia che si è interessato. In fin dei conti non aveva detto niente di male e l'hanno lasciato andare.
Ma quegli ufficialetti, poi, ha visto dove son andati a finire, quei maledetti? [...] Che l'han fatto finire in prigione. Questo avveniva all'inizio della guerra e lui diceva: «No ragazzi, non è così facile buttarli giù, l'Austria è un osso duro...». Ehi, ma dove siamo? Ma là, dietro al focolare. Ma dopo li avranno messi in prima linea!
Dopo Caporetto la gente diceva: «Noi siamo distanti da laggiù, da Caporetto. Cosa c'interessa a noi?» Eppure c'han fatto andar via.
D. Perché, vi hanno fatto andar via, per quale motivo?
R. Perché? Perchè adesso vengono i tedeschi... Mah! noi stavamo sotto, sapevamo la lingua, anche. Forse era proprio per quello, perché sapevamo la lingua. Disgraziati, quelli là, farci fare quella vita da cani.
D. Non siete andati via spontaneamente...
R. No, no, per l'amor di Dio. Ci han costretti, sennò bruciavano le case con le bombe a mano. Era tutto un legno, stalle, fienili, tutto legno. Borgata Fontana, vada a vedere: tutto legno.
Anche le altre borgate ... Granvilla, era tutta in legno - bruciata nel Ventiotto [1928]; borgata Bach - l'ha vista adesso passando - quella era tutta in legno, bruciata nel 1908.
D. Quando siete ritornati a casa, come avete ritrovato il paese?
R. Il paese era ben intero, ma stalle ... era tutto vuoto. Per fortuna che ci avevano lasciato i letti, cosa facevano dei letti? Almeno i letti c'erano.
D. Ma avevano patito la fame, gli abitanti?
R. No, qua no, ma in certi posti sì.
D. Avevo sentito che anche qui a Sappada avevano patito la fame.
R. No, no, non era così grave.
Per esempio di sotto casa mia in Borgata Fontana è rimasta una donna con il figlio, e il marito era via, non so come... Forse ha detto: «Vado a vedere» e l'han portato via!
La madre con il figlio – si chiamava Fontana Carolina e il figlio era Luigi – son rimasti qua e il marito, Giovanni Fontana, sarà andato a informarsi sulla strada, e l'han portato via, dritto.
C'han sparpagliato un po' dappertutto.
A villa Agazzi erano cento paesani, villa Agazzi era di là di Arezzo. Poi ce n'era 200 a Cortona, un po' sulla villa del Vescovo in buona parte tutti ammucchiati, una branda dietro l'altra.
Noi a Arezzo avevamo anche le camere.
Nessuno ha visto a Camucìa che erano in fila, dentro a un grande salone! Erano in duecento là a Cortona.
Poi ce n'era a San Giovanni Valdarno, a Quarata, a Stia, Poppi, a Ràssina nel Casentino.
Uno, che aveva la moglie incinta, nella confusione sa dov'è arrivato? Una bella mattina, che eravamo là alla villa - c'era un viale – arriva ... «Ma chi è quello?» Non è Giorgio Benedetti! Il contadino, lo si chiamava noi - paur - vuol dir contadino. «Ma quello lì è il paur, il contadino.»
«Cari ragazzi, qui siete a casa!» ha detto «sapete dove sono stato io?»
«Dove?»
«A Caltanissetta.»
«Ma perché non siete sceso prima? Perché non siete sceso prima, Madonna? Scendete...» Più in là di Caltanissetta non poteva andare.
Arriva un altro che aveva famiglia là alla villa, Egidio Kratter si chiamava. Quello era stato in Puglia!
Poi son venuti quasi tutti là, ad Arezzo.
D. Come vi trattavano gli abitanti del posto?
R. Eh! l'ho scritto qua... Sa cosa dicevano queste donne, queste donnette, ai bambini cattivi: «Se non state zitti vi faccio mangiar da un profugo!»
Oppure dicevano: «Accidenti a li profughi e chi ce l'ha portati!»
Noi si andava a mendicare un po' di farina da polenta e siccome noi si parlava in tedesco – ma il mio nonno sapeva bene l'italiano – pensavano che fossimo tedeschi.
Ma dopo nel '44, quando c'era la Linea Gotica avran pensato ai profughi di Sappada. «Ma guarda, succede anche a noi... ».
D. Però non è che vi trattassero male. Dicevano così...
R. No, no... Una mia cuginetta (Angela) l'aveva presa su dei benestanti proprio là sotto, come in famiglia. Poi l'altra mia sorella, che aveva 12 anni circa (Margherita), faceva baby sitter a un bambino di due anni, la baby sitter in città.
D. Ma si chiamava baby sitter anche allora?
R. Ma no! Custodiva questo fanciullo! Baby sitter è venuto dopo. Guardava questo bambino; è stata là tutto il tempo. Un'altra cugina, che era del 'Sei, era presso una famiglia di due sposi giovani.
D. Restando alle autorità: il parroco l'hanno messo dentro...
R. Sì, ma dopo un quattro cinque mesi l'hanno rilasciato. È venuto con noi ad Arezzo.
Il cappellano don Remigio [?] Troiero e la maestra, che si chiamava Kratter Maria erano presso i padri Serviti di Arezzo, e il parroco poi è venuto anche lui.
Sotto di noi c'era la chiesa dei Cappuccini, di Santa Croce. Ma era basso, Santa Croce.
D. Dunque eravate in contatto, fra voi abitanti di Sappada.
R. Sì, sì. Anzi una volta io e la nonna da Arezzo siamo andati a Cortona. Il 22 febbraio era Santa Margherita a Cortona, mia nonna si chiamava Margherita e siamo andati là per Santa Margherita a trovare i paesani. «Quando finisce questa guerra? Quando andiamo a casa?», dicevano. Ma eravamo appena a febbraio.
D. La guerra è finita il 4 novembre 1918, perché siete stati diciassette mesi profughi?
R. Invece siamo arrivati qua appena agli ultimi di marzo [del '19]. Prima hanno mandato su gli uomini a vedere se era tutto a posto, a mettere un po' in ordine. Avran pensato: «Non possiamo mandarli giù in pieno inverno.»
*
Quando è scoppiata la prima guerra era maggio. Quel giorno c'è stato un ferito, da noi. Forse l'unico, a Sappada.
Erano due finanzieri che andavano su come al solito verso il confine. Andavano su per i contrabbandieri – quella volta c'era i contrabbandieri, qua, contrabbandavano il tabacco e anche zucchero – e su in cima c'erano già gli austriaci che han visto questi due finanzieri salire. Han sparato un colpo, han ferito uno che poi è stato trasportato in casa nostra, che il sindaco stava in casa nostra quella volta. Ma poi la ferita non era tanto grave, l'han portato a Belluno, questo finanziere.
Il sindaco si chiamava Leonardo Fontana.
Non c'era ancora la sanità, che è venuta più tardi. Ma il nostro fronte era calmo, molto calmo. Non vi son stati grandi fatti d'arme.
Volevano conquistare il Peralba una volta, e c'è stato un morto: un Monti di Auronzo. Son saliti sul lato sud, sopra le sorgenti del Peralba, con una guida di qua, Obertaller Giuseppe, si chiamava. Attraversato il Peralba, sono scesi di là per il passo, che c'è il passo Sesis, ma son venuti i rinforzi e li hanno cacciati. È rimasto morto questo Monti, che c'è un segno là sulla roccia.
Del resto molti morti non ci son stati. Quassù c'era poca battaglia. La battaglia era più sulla Carnia: sul fronte di Passo Monte Croce Carnico era battaglia forte.
Pavan. Per quello è stata una sorpresa quando vi hanno detto di andar via. Voi non capivate...
R. Noo... ma perché andar via? Ma se non ci buttavano quelle maledette [bombe a mano], se non ci dicevano venite, noi non ci si accorgeva neanche. Invece, maledetti!
Noi avevamo venti quintali di granoturco. Comperato, naturalmente, perché mio padre e mio zio smerciavano sempre, perché per l'inverno non si sa...
L'inverno prima c'erano nove metri di neve. 
Nel 1916-17 c'erano nove metri di neve, qua in paese! Allora si ha paura. Noi eravamo famiglia numerosa, eravamo in diciotto. Otto figli più papà, mamma, nonno e nonna, poi c'erano zio e zia, con quattro figli. Si mangiava tutti sullo stesso tavolo, come una volta: una famiglia patriarcale. Al ritorno non abbiamo più trovato niente.
D. Le portatrici, cosa andavano a portare?
R. Andavano a portare viveri e munizioni, specialmente quelle della Carnia. Anche qua avevamo una squadra. Ce n'erano quindici - venti che portavano su ai Laghi d'Olbe viveri. Poi dal 1916 al '17 han fatto la teleferica, che non occorreva più andar su. Funzionava quella teleferica. 
C'erano queste donne: portavano perfin sabbia e cemento per fare le postazioni per l'artiglieria, che magari sull'ultimo non han sparato un colpo.
Erano ragazze, forse qualcuna sposata - mi pare una sola - e prendevano qualcosa; non facevano mica per niente. I giovani (maschi) ce n'è uno solo che era come portatore, si chiamava Virgilio Eccher. Era del '900, non doveva ancora far militare.
Preferivano le donne che erano più "buone" col gerlo.
Ehi, gli uomini ... chi ha mai visto un uomo col gerlo?
Le donne sono abituate, specialmente quelle carniche. Quelle carniche "nascono col gerlo".
*
[Per controllare alcuni nomi di Arezzo, leggo dalle sue memorie scritte].
Cav. Subbiani (proprietario della villa in cui era alloggiato Puicher). Mesticheria: il capocommesso era Attilio Serrini; il negozio si trovava in corso Vittorio Emanuele di fronte alla chiesa di S. Spirito; proprietario era il professore Ricci, insegnante di disegno, sotto le armi. 
Alla barriera del Dazio, in fianco a destra c'era un caffè bar dove con una palanca mangiava la minestra alla trattoria del Corso. [...]
*
A Sappada, fronte tranquillo. Quelli della Croce Rossa erano sei soldati, han avuto poco da fare: qualche congelato.
Il peggio è stato lassù verso il fronte. 
Uno stradino borghese gli aveva detto: «Ma cosa fate qua?»
Han fabbricato delle baracche, i finanzieri, a fianco di un bosco. C'era una scia che scendeva dal monte Lastroni e lo stradino gli ha detto:
«Ma no... là se viene la neve forte vien giù la valanga.»
Guai a parlare così, poi ti portavano via!
Non è venuta giù - quella volta del 1916-17 che c'erano qua 9 metri di neve - una massa di neve... 70 finanzieri sono andati sotto la valanga, morti. Gli unici, forse, con pochi altri.
Lo stradino si chiamava Eder Antonio. Le baracche erano in località Sésis dove c'erano delle capanne di legno dei nostri contadini. Li han seppelliti là e poi li han portati a Redipuglia. Gli è venuta giù una massa di neve che dopo due tre anni li han tirati fuori dal Piave. Son andati giù nel Piave con la catasta di neve. Uno si è salvato. Dice: «Mi son salvato perché avevo una medaglia della Madonna», perché l'ha buttato fuori, è andato a finir sopra e si è trovato sul prato di là, sull'altro versante.
Il fronte era sul confine. Noi avevamo un confine molto breve dal Peralba al Chiadenis, passo Sésis. Questo è il nostro comune. Dopo c'era la Val Visdende, che era vasto, era grande, quel fronte.
Laggiù c'era poco da fare sopra Forni Avoltri; la battaglia era sul Monte Croce Carnico.
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[Leggo dalle sue memorie]. Mio padre era stato in Baviera come capo muratore, emigrante e poi aveva fatto il contadino. Poi, con i carri e i buoi andavano fino a Belluno per rifornire di merci le due cooperative che c'erano a Sappada e quando è arrivata la ferrovia, andavano fino a Calalzo.
In paese c'erano tre mulini ad acqua. [...]
Le portatrici di Sappada... visto che le colleghe di Timau erano diventate Cavalieri di Vittorio Veneto, hanno fatto domanda e ottenuto di diventarlo anch'esse. [...]
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Perché a Sappada non volevano partire, dopo Caporetto.
I vecchi avevano fatto il militare sotto l'Austria e si parlava la loro lingua...
Noi andiamo in pellegrinaggio in Austria oltre il passo, a piedi, dieci ore: a Maria Luggau. Si passa per il passo del Sesis.
Siamo amici, con quelli là. Anche adesso si continua ad andare in processione, in 300 e anche più; anche in questi anni, sempre la terza domenica di Settembre.
Però quelli a piedi partono il sabato e dormono lavvia. I frati hanno 90 letti, brande.
Io che sono anziano andavo via ultimamente con la corriera o con l'auto, di domenica.
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Domenica c'è una processione fenomenale, coi costumi, carnevale.
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Ho conosciuto una ragazza di Treviso, all'ospedale, dove anche la ragazza aveva suo padre. Con questa ragazza mantengo corrispondenza...

Nastro 1996/2 - Lato B

... si chiama Michela Betteti, suo papà si chiama Domenico [...].
La ragazza: un raggio di sole ... io le do qualche consiglio.
Quella volta in ospedale avevo una bronchite e mi devo riguardare ancora dalla bronchite.
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Gli italiani hanno rinunciato al Peralba e hanno preso il Chiadenis, che è più basso, per difendere il passo Sesis. Ma non era pericoloso il passo Sesis, come il Passo Monte Croce Carnico dove c'era una carrozzabile mentre qua non c'era.
Qua non poteva passare un esercito.