martedì 17 agosto 2010

Angelo Dalla Palma, presa 10 Montello

Nato il 2 febbraio 1912 a Coldarco frazione di Enego (VI). 
All'intervista è presente (e partecipa) anche la moglie Teresa Francescato, nata nel 1913 a Coldarco frazione di Enego (VI).
I coniugi Dalla Palma sono residenti a Santa Mama del Montello (TV).

Nastro 1994/12 - Lato A                   9 maggio 1994    

Siamo in via "Nord Montello" (Panoramica), vicino alla chiesetta di Santa Mama, al confine fra il confine di Volpago e quello di Crocetta, a poca distanza dal Cippo degli Arditi.

Marito. Prima abitavo sulla presa 14, ma sono nato sulla 10, e sono rimasto sulla 14 dal 1936 al 1962.
Pensavo di non arrivare neppure ai 50 anni, perché non sono mai stato un uomo molto forte, invece ... comunque ora sento che a machinéta non va tanto bene e non posso neppure aiutare la moglie.
*
La sera che siamo andati profughi, a casa mia c'erano 18 ettolitri di vino, e li abbiamo lasciati là. Ma io non pensavo a quelle cose, ero un bambino e pensavo a una cassa di pere che avevamo e volevo prenderne un pochine.
Siamo partiti con una famiglia che abitava là vicino e aveva le bestie da lavoro, abituate al giogo. Le hanno attaccate alla carretta e davanti ci hanno messo una mussa. Noi bambini siamo saliti sulla carretta e siamo andati su per la presa 10 - la nostra casa era sul versante nord del Montello - e ci siamo diretti verso Volpago. Poi siamo andati profughi verso Camposampiero, a Villa del Conte.
*
Moglie. Abito in questo posto fin da piccolissima. Sono del 1913 [...]
Marito. Sono stufo di vedere gli zingari che vogliono entrare in casa mia, e una volta ho preso la forca e li ho fatti correre.
*
Quando sono andato profugo avevamo una cassa di pere e non pensavo ad altro, non certo alle vacche, o al vino o a tutto il capitale che rimaneva là. Mio padre si è portato dietro una vacca e l'ha mantenuta poi in una stalla.
Le pere erano in una cassa grande, di circa un quintale, e prima dell'inverno le avremmo mangiate. Erano pere grosse così, e quelle che non mangiavamo noi le regalavamo. Non avevano un nome preciso ... mi pare ancora di vederle. Erano buone e avevamo un solo pero.
Abitavamo sulla presa 10, sopra il tronco che va a Santi Angeli, a circa un km dalla chiesa. Case comunque ce n'erano anche allora sparse un po' dovunque sul Montello. [....]
Moglie. [...] Mi ricordo che qua, dopo la prima guerra, era tutto differente. Sul confine fra Volpago e Crocetta, c'erano tutte morerine [gelsi selvatici], piantate da una e dall'altra parte del confine. Senza viti.

Nastro 1994/12 - Lato B

Era tutto differente. La strada c'era anche prima, ma non era asfaltata e parte per parte c'erano due file di moreri che la fiancheggiavano.
Da bambina sono venuta sul Montello in casa dei miei zii che non avevano figli. Vi sono rimasta finché mi sono sposata.
Gli zii si chiamavano Pietro Dalla Palma e la zia (sorella di mia mamma) Cappello Giustina. Avevano comprato sul Montello ancora prima della guerra.
Marito. Tutti quelli della montagna sono venuti giù nel Montello. La gran parte degli abitanti del Montello sono originari dalla montagna! [...] 
*
Finita la guerra del '18 abbiamo trovato la nostra casa senza coperto e senza solai, solo con i muri. Vi abbiamo messo sopra dei teli di tenda per ripararci dalla pioggia, e un po' di paglia per terra per dormire. 
Alla notte ci voleva uno che restasse sveglio a far la guardia perché i topi mangiavano le orecchie! I topi erano arrivati in tempo di guerra: il fieno non era  stato mai tagliato e sul prato i passaggi dei topi avevano formato come delle gallerie fitte fitte. Non regnavano altro che i topi. 
La causa della loro presenza erano anche i rifiuti che i militari avevano lasciato e in più l'erba non era stata tagliata. 
I topi che «me magnava e recie», non è un modo di dire: di notte bisognava far la guardia.
*
A Villa del Conte, dove eravamo profughi, abitavamo in casa di Stellin Pietro. Ricordo che i contadini piantavano nell'orto un po' di tutto e io andavo negli orti a rubare gli zucchini e le zucche per darle alla vacca che ci eravamo portati dietro, perché facesse latte ... e i proprietari mi correvano dietro col bastone.
Siamo venuti via da Villa del Conte appena finita la guerra. Ma anche durante la guerra mio padre ritornava a volte a casa, "su al Diese" (su, sulla presa 10) a prendere il fieno con un cavallo che noleggiava.
Sul Montello sentiva i tedeschi di là del Piave che tiravano col cannone, perché sopra il Montello gli italiani avevano fatto una trincea profonda e larga due metri. Là era il fronte. 
Il padrone del cavallo diceva a mio padre: «Scappiamo perché i tedeschi ci ammazzano».
«No, no, diceva mio padre, stanno bombardando più in su, e noi siamo sotto», cioè più in basso della linea che dovevano colpire i tedeschi. La nostra casa infatti era sul versante nord del Montello e malgrado le linee di difesa italiane e le granate tedesche mio padre riusciva a portare a casa il fieno, in piena guerra.
Al ritorno sul Montello abbiamo trovato degli austriaci che erano prigionieri. Erano pieni di fame. Ce n'era una compagnia su una buca. Io sono andato a portargli un po' di pane e loro mi hanno dato 'na spineta [un'armonica a bocca] lunga così: più contento di me non c'era nessuno, suonava proprio bene.
I prigionieri erano sulla presa 10, proprio sopra casa nostra. Erano là, dentro a una buca, pieni di fame.
*
Io sono andato a scuola "alla Peschiera", che si trova in cima alla 12, vicino all'osteria di Sbeghen. La Peschiera era un laghetto "fermo". Da dove abitavo ai Santi Angeli per arrivare a scuola dovevo camminare un'ora. Ma allora eravamo boce e si camminava forte...
*
Mi ricordo che quando siamo tornati da profughi qua a S. Mama c'era lungo la strada una fila di granate alta un metro e lunga venti metri, che poi le hanno portate via. Per terra c'erano petardi, "signorine", bombe.
Le chiamavano signorine perché avevano il manico di legno e una sottanina sottile e dentro c'era l'esplosivo. I petardi erano come una scatoletta, facili da esplodere e ancora carichi.
Ricordo un caporale che andava a trovare una ragazza vicino a casa mia e "per farsi vedere" ha colpito con una fucilata (1 colpo del fucile '91) un petardo che era a una ventina di metri, giù in fondo a una buca, e gli è arrivata una scheggia proprio in mezzo alla fronte; per fortuna era superficiale.
Ricordo inoltre che sul nostro confine mi è capitato di piantare il vanghetto per terra e ho colpito esattamente il teschio di un austriaco. Gli ho spezzato giusto la mandibola, con tutti i suoi denti. L'ho presa in mano e l'ho portata a casa. Qualche giorno dopo è venuta a trovarci una donna di Camposampiero che avevamo conosciuta da profughi e io le ho messo la mandibola dentro la sporta. Quando se n'è accorta per poco sveniva. 
I boce no capisce gnente! Robe che non si dovrebbero fare.
Poi il morto l'hanno portato via. Non ricordo chi l'abbia portato via e dove l'abbia portato. Ricordo solo l'episodio di questa ganascia intera che si è staccata con tutti i suoi denti.
*
Quando siamo scappati dal Montello c'era la nostra famiglia assieme a quella che abitava sotto di noi e che aveva il carro e le bestie che erano in grado di lavorare. Sul carro siamo saliti solo io e un altro bocia di quella famiglia che era un anno più giovane di me. 
Siamo rimasti al coperto di questo telo che avevano tirato sopra al carro in qualche maniera, perché era sera e piovigginava. Ci siamo diretti su per la Dieci e c'erano tutti camion che andavano su e giù per le strade. Siamo arrivati a Volpago [...]
L'altra famiglia si chiamava Forlin (il marito) e aveva sposato Rosina Malacarne. Ricordo che era lei che conduceva le bestie. Era di sera e stava per venir notte, buio.
Della nostra famiglia eravamo il papà, la mamma e quattro fratelli di cui la più vecchia era Giacoma (1901). Davanti al carro c'erano due bestie e una mussa. Noi avevamo in stalla tre bestie e purtroppo due abbiamo dovuto lasciarle in stalla perché non sapevano lavorare. Ne abbiamo portato con noi solo una, legata dietro il carro.
Moglie. Anche i miei zii avevano le bestie ma non le facevano lavorare perché perdevano il latte. Questa era l'idea.
Marito. Abbiamo portato via poca roba per vestire, anche perché l'altra famiglia aveva caricato più roba. Il carro era carico e ci hanno fatto salire solo noi due bambini più piccoli. Tutti gli altri camminavano a piedi.
L'altra famiglia non ricordo più di quante persone fosse composta.
Delle mie pere, che erano in una cassa appena su della scala, sono riuscito a portarne via solo un poche.
Moglie. Anche mia mamma ha dovuto andar via dal paesino della montagna, da Coldarco ... e piangeva per aver dovuto lasciare a casa le pere: aveva quell' albero e altro non aveva!
Marito. Quando siamo ritornati da Villa del Conte mio padre si diede da far per ricostruire la casa, anche perché lui si arrangiava a far tutto, capomastro ma anche balconi, finestre e tutto.
Moglie. Mio zio ha ricostruito la casa con i sassi del Piave.
Marito. Mio padre ha utilizzato la roccia di una buca che avevamo nei campi. Per far saltare la roccia si comprava la polvere. Era una roccia viva, che mio padre sapeva anche ritagliare nella misura richiesta.
Per far saltare la roccia si faceva un buco con dei ferri lunghi un metro e mezzo-due metri (circa) che si chiamavano "barramine". Con questi ferri si faceva un buco battendo la roccia fino alla profondità richiesta. Dentro al buco si versava la polvere e poi le si dava fuoco con una miccia.
Sulla presa 14 avevamo un'altra cava ancora più grande e uno del posto con quella roccia si è costruito una gran casa. E io (all'epoca dell'ultima guerra) ho avuto bisogno di chiedergli due secchi di calce, che in tempo di guerra non si trovava, e loro - che ne avevano una buca piena - non volevano darcela, eppure continuavano a cavar crode lo stesso. Solo dopo molte insistenze ci hanno dato questa poca di calce.
Su per la Dieci c'erano dei ricoveri fatti dai soldati italiani. Uno in particolare, là dal tronco di strada fatta per andare ai SS. Angeli, si inoltrava nel monte per più di dieci metri. In quel ricovero c'era acqua nascente e dopo la guerra andavamo a prenderla là. Ma un anno, nel 1922, acqua non ce n'era sul Montello e per trovarne abbiamo dovuto andare dalle parti di Sernaglia. 
[...]
Marito. Ricoveri ce n'erano dappertutto. Erano come delle caverne, dei buchi; penso che ci siano ancora, anche se l'ingresso è ormai ostruito con un po' di terra davanti. Questi buchi erano stati aperti dai soldati, ma erano al naturale, senza armature, senza niente.
[...]

Nastro 1994/13 - Lato A

Moglie. [...] E la falce? (el faldìn). Quando avevo 10-12 anni mi hanno dato el faldìn per segare l'erba. Cosa crede, non provavano mica pietà per questi bambini, li facevano lavorare.
La famiglia dei miei zii era composta di 12 figli di cui due sono morti da piccoli: uno si è annegato in un mastello d'acqua e una è morta appena nata.
Quando mia zia da bambina mi mandava ad acqua, mi dava dei recipienti piccoli adatti all'età.
Scendendo verso il Piave a fianco della chiesetta di Santa Mama, fiancheggiata da tutte acacie, un boschetto fitto - poi quando hanno fatto il canale è cambiato tutto - passavo e vedevo che c'erano queste bombe. 
Ce n'erano di quelle tonde e di quelle col bastoncino che avevano una cordicella con una "forchetta" che la teneva ferma. 
Mia zia mi diceva: «No sta mia tocar!»
Ricordo che una volta ho appoggiato per terra questi secchielli e mi sono detta: «Ma guarda che belle cordicelle che hanno queste cose qua». Era appena finita la guerra e mi faceva voglia di prenderle queste cordèle. Sono andata proprio vicino a questa bomba, me lo ricordo come fosse adesso, e l'ho presa in mano. 
Volevo strappare la forchetta perché allora avevo i capelli lunghi e mi sarebbe andata bene per trattenerli. Stavo per farlo, ma poi mi sono detta: «Mi hanno detto di non toccare, è meglio che lasci là». Così l'ho messa giù, ma ce n'erano dappertutto di queste bombe e sono rimaste là per molto tempo, anche dopo che erano passati i soldati a prenderle.
Nel terreno erano sparsi picconi, badili e i miei zii si sono tenuti un pochi di questi attrezzi perché andavano bene per il lavoro, gli altri li hanno messi da una parte per venderli.
[...]
Altre bombe erano lunghe una trentina di centimetri, quelle che avevano il manico. Molti sono morti o feriti maneggiandole. 
Uno qua vicino, ad esempio, Antonio Dalla Costa, è rimasto ucciso dallo scoppio di una di queste bombe. Avrà avuto 18-19 anni ed era parente di mio zio. La bomba è scoppiata mentre cercava di svuotarla ... e mio zio è stato chiamato appena avvenuto lo scoppio. Arrivato sul posto ha visto questo giovane che aveva appena mangiato [...] e ha detto mio zio che aveva ancora la pastasciutta che gli usciva di bocca. Gli era scoppiata la bomba in mano e gli si era aperto tutto il canale davanti.
Anche cartucce c'erano per terra, numerosissime e si raccoglievano per vendere. E ce ne sono ancora anche adesso: sono andata a zappare proprio prima qua dietro sui fagioli e ne ho viste due, ma non le raccolgo neanche più. Una volta però si vendevano. C'era gente che passava a prenderle su. 
C'era in particolare una vecchia che passava con l'asino e vendeva forchette cordelle aghi... [?]
I miei genitori non si sono mossi mai da Coldarco o meglio mia madre non si è mossa mai. È nata ed è morta a Coldarco; invece mio padre andava emigrante.
Mia madre si è mossa solo quando l'hanno portata a Bassano perché le è venuto un infarto ed è morta (aveva 75 anni). 
Per la verità ha dovuto andarsene via anche durante la guerra. È andata profuga ma non mi ricordo dove. Quando è partita piangeva perché non aveva potuto portarsi via niente, neppure le pere. [...]
MaritoIl caporale che si è preso la scheggia in fronte, poi non è andato più a trovare la ragazza del Montello, e la gente (i ragazzi) del posto lo prendevano in giro e gli cantavano una canzone: «El caporale, dà un colpo e poi va via, e la Maria lo piangerà», sull'aria della Biondina capricciosa garibaldina trulla là
Poi questa Maria ha sposato uno di Sernaglia. Quando è morto il padre di Maria, suo marito - che si chiamava Jijo - è venuto in chiesa col cappello senza levarselo dalla testa (forse era ubriaco) mentre tutti in chiesa avevano il cappello in mano. Da allora tutti l'hanno chiamato Jijio cavete el capel. Per dire l'ignoranza del tipo.

MoglieMi chiamo Francescato Teresa e sono figlia di Giuseppe e di Cappello Margherita. Ho abitato con gli zii fino a quando mi sono sposata con Angelo, nel 1935.
Dopo sposati siamo andati ad abitare a SS. Angeli nella casa della famiglia di Angelo, sulla 10, dove i Dalla Palma erano proprietari di 8 campi di terra e dove ho anche avuto la prima figlia.  In tutto abbiamo avuto quattro figli, tre femmine e un maschio che ora abita a Ciano e fa il carpentiere, mentre le tre figlie si sono sposate e sono casalinghe.
Marito. Dopo un po' siamo andati a stare sulla 14, su una campagna di 8 campi di terra comprati da mio padre e là siamo rimasti fino agli anni '60, quando sono morti gli zii di mia moglie - che non avevano figli - e siamo venuti ad abitare qua.
Ma sulla 14 andava male. La terra non rendeva niente. Vi siamo rimasti trent'anni ma non abbiamo risparmiato neppure i soldi per riparare un balcon (erano tutti rotti). Poi per fortuna sono cresciuti i figli. 
Il ragazzo ha imparato a fare il carpentiere qua a Ciano e due delle ragazze sono andate in Svizzera e si sono messe da parte i soldi per il corredo, perché noi non si aveva neanche sinque schèi
[...] La figlia più giovane è riuscita a fare le scuole medie a Montebbeluna - è stato un gran sacrificio - e poi è stata assunta come collaboratrice in una farmacia a Crocetta, dove è rimasta per quattro anni.
Qua sul Montello erano condizioni di vita tremende. D'inverno le prese diventavano quasi impraticabili. 
Una sera uno che abitava su per il Montello, Tommaso Cavalli, si è presentato a casa mia e mi ha chiesto il favore di andar a cercare qualcuno che gli prestasse calesse e cavallo per poter accompagnare il dottore a visitare sua moglie (Savarise Carmela) che stava male. 
Il dottore si chiamava Giuseppe Calderino, era zoppo e aveva la moto, ma su quelle strade la moto non riusciva a correre. 
Allora abbiamo chiesto a uno là vicino che aveva cavallo e calesse se ce li prestava. Ma quello ha detto che ci avrebbe dato solo la barachina (il calesse, el sarét) e che dovevamo arrangiarsi a trovare il cavallo da un'altra parte. 
Abbiamo trovato il cavallo da un tipo piuttosto strano - De Faveri Giuseppe detto Nini Zacaria - che ha accettato subito di venire. Con lui ci siamo recati da chi aveva promesso di prestarci il calesse, ma quello intanto ci aveva ripensato e si è rifiutato di darci il calesse. 
Allora Nini Zacaria prende la coperta che c'era sopra el sarét e la mette sopra il cavallo. 
Siamo andati a prendere il dottore; era sera e stava quasi per diventare notte. 
Il dottore non era mai stato sopra un cavallo e così - dopo averlo messo in groppa - io e Tommaso lo tenevamo in equilibrio uno da una parte e uno dall'altra, mentre Nini camminava davanti. E il dottore scherzava: «Adesso facciamo la fuga in Egitto, come nostro Signore». 
Ma alla fine siamo arrivati a destinazione.
Sulle stradine del Montello, non asfaltate, c'era un pantano alto così.
[...]
Era dura per i dottori, ma neanche il postino ce la faceva a venire su quando era brutto tempo. Allora lasciava la posta giù, alla bottega-osteria da Martinel, e quando si andava a bottega ci si prendeva la posta...

Tabacco nel Canale del Brenta e nel Montello


Testimonianza di Angelo Dalla Palma, nato nel 1912 a Coldarco, frazione di Enego (VI) e residente a Santa Mama del Montello (TV). All'intervista è presente anche la moglie Teresa Francescato, nata nel 1913 a Coldarco di Enego.
Questo brano fa parte di una più ampia intervista effettuata da Camillo Pavan nel corso delle sue ricerche sull'ultimo anno della prima guerra mondiale.

Nastro 1994/12 - Lato A                    9 maggio 1994

Ci troviamo in via Nord Montello ("Panoramica"), vicino alla chiesetta di Santa Mama, al confine fra il confine di Volpago e quello di Crocetta, a poca distanza dal Cippo degli Arditi.

Mio padre si chiamava Pietro e el xe vegnùo do da a montagna. È morto a 79 anni, nel 1952.
Mia madre si chiamava Dalla Palma Caterina e proveniva anche lei dalla provincia di Vicenza, comune di Enego, località Coldarco di Sotto.
I miei sono venuti sul Montello perché dove abitavano prima era una montagna ripidissima, tanto che mio suocero (anche mia moglie è nata a Coldarco) aveva la casa con un cortile che sarà stato largo due metri e sul limitare del cortile aveva messo delle tavole perché altrimenti c'era il pericolo che i bambini cadessero nel vuoto, fin giù a Primolano sul Canale del Brenta.
A Coldarco gli uomini andavano tutti a lavorare fuori, in Svizzera. Facevano le stagioni, e ogni volta che tornavano a casa si trovavano un figlio in più che era stato concepito prima della partenza
Il padre di mia moglie faceva il muratore ed era bravo.
Là in paese avevano poi un po' di bosco e per l'orto avevano spostato un po' di sassi. [Imperdibile, al riguardo, il documentario di Giuseppe Taffarel "Fazzoletti di terra", 1963, recentemente restaurato a cura del comune di Valstagna e visibile presso il museo etnografico "Canal di Brenta", sempre a Valstagna VI]
Con difficoltà, erano riusciti a recuperare qualche metro di terra per mettere un po' di radicchi, di vérde [verze], fasói, patate, ecc.
Avevano fatto tutti campetti di due metri di larghezza, con i sassi, per metter il tabacco.
El tabaco del canal del Brenta el iera el meio che ghi n'era in tuta Italia...
Il contrabbando di tabacco era la prima cosa! 
Consisteva nel vendere di nascosto dalla finanza un po' di tabacco. Cioè, se la finanza aveva contato cento foglie, cento foglie bisognava consegnarle ... ma i nostri riuscivano a consegnare quelle piccole e a tenersi quelle grandi e venderle.
Moglie. Ho visto anch'io come si faceva: il tabacco sotto, le prime foglie che hanno toccato terra e non servono più per vendere ... quando dovevano consegnare alla finanza - che seguiva le operazioni - rompevano sì tutte le foglie, ma quelle che pensavano di tenersi per sé le rompevano il meno possibile.
Marito. Anche sul Montello mettevamo il tabacco. A Santi Angeli noi piantavamo ben 12.000 piante di tabacco e si ottenevano 75.000 foglie di tabacco: ogni pianta faceva 7-8 foglie.
Veniva uno della finanza a contarle prima del raccolto. Ogni dieci file contava una fila e vedeva quante foglie c'erano per pianta e quante piante c'erano per fila.
E par ciapàr un franco, io che ero il più piccolo, mi facevano andare sotto la baracca (allora c'erano le baracche, parliamo di dopo la guerra del '18) e dovevo nascondere il tabacco sotto la baracca e lasciarlo là finché maturava. Quando la foglia diventava gialla la si appendeva e poi la si sarebbe pestata, per fare tabacco da presa.
Un anno abbiamo fatto un quintale e dieci di tabacco da naso, de sfrusa [di contrabbando]. Era venuta la tempesta e abbiamo dovuto pestarlo tutto, non si poteva portare al magazzino. Sono venuti a controllare che si facesse un gran solco nel campo e vi abbiamo buttato dentro le foglie di tabacco coprendole con la terra in modo si marcisse.
Dopo otto giorni - per fortuna il tempo era andato bene e non aveva piovuto - abbiamo dissotterrato il tabacco ed era proprio giusto, tutto giallo. Lo abbiamo messo a bójar, a masarìr [a macerare] in un angolo all'ombra, accatastato, in un mucchio. Poi lo abbiamo messo al sole e pestato. È venuto fuori un quintale e dieci di tabacco da naso e abbiamo guadagnato dei bei soldi.
Lo abbiamo portato giù alla latteria ed è passato uno con un cavallo a prenderlo, un contrabbandiere. Se ci pescavano ci avrebbero mangiata tutta la terra! Abbiamo fatto il trasporto a mezzogiorno in punto.
Ci è capitato una volta di vendere venti chili di tabacco di contrabbando e ... quello a cui lo abbiamo venduto ci ha mandato in casa la finanza. Era una spia e abitava a Bigolino.
All'una del pomeriggio di un giorno di maggio, quando doveva arrivare il compratore, al suo posto è arrivata la finanza.
Era il tabacco dell'anno prima, perché il tabacco si pianta a maggio-giugno e lo si raccoglie in settembre.
Ci è capitato anche di nascondere venti chili di tabacco nel bosco e ce l'hanno portato via. 
Dopo che noi lo avevamo nascosto nel bosco è venuta la finanza in casa a controllare, perché quello che doveva comprarlo aveva fatto la spia. Prima ci aveva mandato in casa una sua figlia per dirci che suo padre non poteva venire a prendere il tabacco perché a casa loro c'erano quelli della finanza. Dopo dieci minuti che lei era andata via sono arrivati sette finanzieri, con brigadiere e appuntato. Ma noi nella notte precedente, io e mio fratello, avevamo tirato su il tabacco - che avevamo nascosto sotto terra nella greppia delle mucche - lo avevamo dissotterrato e nascosto nel barco del fieno, mettendolo però in un sacco, in modo da essere svelti a consegnarlo al compratore, fuori della casa.
I finanzieri per prima cosa hanno guardato in stalla e giunti alla greppia hanno detto: «Qua c'era il tabacco e lo avete nascosto questa notte».
Dunque vuol dire che in quella notte c'era stata la spia che ci aveva tendùo. Era uno del paese; c'erano tante spie.
I finanzieri sono andati direttamente verso il barco del fieno e là con gli aghi di ferro lunghi un metro e mezzo che avevano un piccolo arpionetto sulla punta (a forcèa) per poter prelevare un eventuale campione, si sono messi a pungere il fieno. Ma il tabacco era nel sacco, assieme al fieno ed evidentemente non sono riusciti a sentirne l'odore.
Sotto la greppia il tabacco era stato sotterrato dentro a vasi di metallo - una specie di quelli del latte - fatti fare apposta da un favaro, in modo che sotto terra il tabacco non si marcisse. Era un fabbro che girava per le case a raccogliere ordini, e poi li faceva, come faceva anche altri lavori. Durante il giro dormiva nelle stalle.
Quella volta, i finanzieri, visto che non riuscivano a trovare il tabacco nel fieno e che dovevano andare anche in altre due case, se ne ne sono andati.
Il tabacco lo avevamo nascosto in cinque posti fuori di casa e avevamo lavorato dalla mattina fino a mezzogiorno a pestare tabacco in una radura del bosco, tanto che alla fine c'erano le foglie di acacia tutte piene di polvere di tabacco; per fortuna è arrivato un temporale che ha lavato tutte le foglie. E intanto che le finanze erano andate via da casa nostra per andare dalle altre due famiglie io e mia sorella abbiamo caricato i due sacchi di tabacco, uno per ciascuno, e lo abbiamo portato oltre la presa 10, là in un bosco e lo abbiamo nascosto dentro un ricovero della prima guerra.
Dopo, quando le finanze sono tornate ancora, si sono messe con la forca a descuèrsar [scoprire e sparpagliare] tutto il fieno del barco, ma il tabacco non sono riuscite a trovarlo perché noi lo avevamo portato via prima, e così se ne sono andati via.
Alla fine siamo andati per riprenderci questo benedetto tabacco nel ricovero ma non lo abbiamo trovato più ... ma più di tanto non ce la siamo presa: l'importante era che non ci avesse trovato la finanza.
Per pestare il tabacco avevamo una apposita "pila", un grosso mortaio in pietra (alto circa 40 e largo 50 cm) che ci era stato prestato.
*
Quella volta della grandine, io e mio padre avevamo lavorato dalla mattina fino a mezzogiorno a pestare tabacco, e ne abbiamo fatto un quintale e dieci.


sabato 14 agosto 2010

Marghera 1944, bombardamento

Testimonianza di Luigi Disastri, nato nel 1900 a Saletto di Piave, TV
Questo brano fa parte di una più ampia intervista effettuata da Camillo Pavan nel corso delle sue ricerche sull'ultimo anno della prima guerra mondiale.


Nastro 1993/5 - lato A                        3 settembre 1993


I nostri amici alleati, che da quella volta non li ho più tollerati perché hanno fatto dei bombardamenti a tappeto, bombardato e mitragliato: hanno ucciso il 28% della popolazione in due bombardamenti, ma non hanno colpito neppure un'industria, colpendo invece solo dove abitava la classe operaia. [...]
Ritornato dalla Francia mi ero recato a Marghera per trovare un lavoro. 
Sono riuscito a trovare un locale per impiantarvi il mio laboratorio da mobiliere per merito di un romagnolo (Magrotti) che poi fu colpito da un aereo americano che lo rincorse, colpendolo con una pallottola sotto un tombino, nei campi. Gli americani sono dei selvaggi, sono dei cacciatori di pellerossa. Non parlatemi degli americani: vanno via tutt'oggi con la pistola addosso.
A Marghera hanno bombardato varie volte. 
Abitavo in piazza Mezzacapo e in un bombardamento furono ammazzati quasi tutti quelli che si trovavano in quel rifugio di piazza Mezzacapo. Ne hanno uccisi 132 ... tranne me, i miei figli e altre quattro persone. Mia moglie per fortuna era stata già accompagnata a Saletto, da un certo Orlando, con il cavallo e un carro piatto su cui aveva anche sistemato un materasso.
Il rifugio fu colpito in pieno e dapprima si aprì nel centro e poi si richiuse, ma non si richiuse perfettamente bensì con una metà della volta sotto l'altra metà. Così ci fu chi rimase con le gambe fuori, chi con la testa fuori.
Quando sono riuscito ad uscire dal rifugio mi sono ritrovato con la schiena 'intorcolata', tanto che ho dovuto camminare per un pezzo con due bastoni.
In un'altra occasione stavo andando in un altro rifugio. Era un rifugio costruito con le mezze pietre, immaginarsi cosa poteva servire: bastava che scoppiasse una bomba a trenta metri perché il rifugio saltasse in aria. 
Qualcuno passa e mi dice: «Guarda Disastri che hanno colpito il tuo laboratorio, ci sono tutti gli attrezzi e le macchine fuori». 
In quei casi là non si bada più al fatto che bombardino o che non bombardino, si corre verso quel piccolo capitale che si è accumulato e che ti serve per vivere. Così mi avviai verso il mio laboratorio e passando davanti alla farmacia di via Rizzardi - in quella via c'era anche il mio laboratorio - correndo perché stavano bombardando, ho sentito un lamento.
Sono ritornato sui miei passi, ho camminato lentamente finché ho individuato il punto dove c'era questa creatura rimasta sotto a dei travetti. Quando la individuai, cercai di estrarla, ma aveva un mucchio di travetti sopra di lei e fra tanti travetti c'era questa testa fuori, insanguinata, bionda.
Ho provato a tirare un travetto e non veniva. Ho provato a tirarne un altro e non veniva neppure. Continuavano a bombardare.
In quello viene giù dal cavalcavia della stazione (di via Rizzardi) un caporalmaggiore della crocerossa e io l'ho chiamato: «Vieni, vieni qua che c'è qualcuno sotto...» e nel frattempo stavano bombardando un po' più avanti, verso la stazione. Il caporalmaggiore si è fermato e si è messo anche lui a tirare un travetto, ma niente da fare.
Nel frattempo arriva giù di corsa - sempre dal cavalcavia - un pezzo di fratone, giovane, bello, fresco, con una enorme croce che penzolava sul lato destro. Ho chiamato anche il frate.
Quando in tutti e tre ci siamo messi a tirare questo travetto si faceva pressione sul corpo della persona che era sotto, perché la testa non lasciava capire in quale direzione fosse il corpo, che era tutto ricoperto da calcinacci ... quindi la persona sotto ha fatto un lamento che sembrava quasi stesse per morire e il frate ha impugnato la croce, per benedirla. 
Allora mi sono arrabbiato col frate e gli ho urlato: o te tiri o te copo co un pugno. (Qualche giorno dopo ho incontrato quel frate e mi ha rimproverato per come era stato trattato). 
Così tutti e tre abbiamo ripreso a tirare, ma in quello un grappolo di bombe caduto  là vicino ci ha scaraventati tutti con le gambe all'aria.
Quando mi sono alzato non c'era più né il caporalmaggiore né il frate. Nel tempo che si era dissolta la fuliggine e il fumo chi aveva le gambe buone era scappato e io mi sono trovato là da solo con questa creatura che era ormai quasi scoperta, forse per via del gran sommovimento del terreno.
Mi sono inginocchiato e piano piano, un pezzo alla volta ho iniziato ad estrarla. 
Era piuttosto pesante, perché nel frattempo l'avevo riconosciuta: era una ragazza di circa 17 anni che veniva a prendere i truccioli nel mio laboratorio, per far fuoco in casa. Aveva delle belle cosce grosse, era una bella ragazzotta. Me la sono caricata in spalla e piano piano me la sono portata a casa, che non riuscivo neanche a tenerla in spalla che sempre mi scivolava un po' dietro e un po' davanti perché era un peso morto. 
In un rifugio dove c'erano i dirigenti dell'Ilva mi guardavano dalla porta mentre passavo e mi dirigevo verso casa mia. Ma nessuno è uscito a darmi una mano. Me la sono portata a casa. Nel corridoio a piano terra c'era un materasso e là l'ho adagiata ... in quei giorni si faceva così: per essere pronti a scappare quando suonava l'allarme si dormiva vicino alla porta. Poi sono uscito in strada. In quello passava una Balilla e il guidatore l'ha caricata in macchina e l'ha portata via.
Finito il bombardamento le sorelline della ragazza soccorsa, che abitavano nei pressi del mio laboratorio, di là della via Rizzardi verso le case operaie, mi hanno chiesto se avessi visto la loro sorella. Ho detto loro che l'avevo soccorsa e che sicuramente si sarebbe trovata all'ospedale. 
Avevo riconosciuto la ragazza perché, una volta portata a casa e sdraiata nel materasso, l'avevo pulita con un po' d'acqua calda che avevo nella cucina economica (era l'unica acqua che avevo, perché i rubinetti si erano rotti). Le avevo pulito un po' la bocca e poi ho riconosciuto la sottanina, la stessa che aveva addosso quando era venuta in bottega a prendere i truccioli per bruciare; una sottanina gialla a pois. «Ma sei tu», ho esclamato; e la ragazza ha risposto solo con un flebile lamento.
Dopo tre mesi incontrai in via Cappuccina a Mestre anche sua madre che mi disse che la figlia si era salvata e che la loro famiglia era proprietaria di un pezzo di terreno. Volevano darmene un po', mezzo campo, come ricompensa, ma io gli risposi che non volevo niente. 
Della ragazza ricordo il cognome: Carraro, ma non il nome. Mi pare che dopo sia andata ad abitare verso i Quattro Cantoni a Mestre, ma l'ho persa di vista.
Qualche anno fa volevo anche comunicare il mio caso quando in TV fecero una trasmissione in cui si poteva riferire se si aveva salvato qualcuno, ma poi non ne ho fatto niente. Mi ero anche tirato giù il numero della TV per farlo, ma poi ho lasciato perdere... Però adesso pagherei qualsiasi somma per incontrarla; ora avrà sui 60 anni.
Mi trovai sotto a tutti i bombardamenti di Marghera e l'episodio della ragazza avvenne nello stesso giorno in cui bombardarono anche a Treviso: il 7 aprile 1944.
A Marghera hanno ucciso molte persone perché hanno trovato insediamenti operai facili da bombardare. Poi hanno trovato la scusa che là si trovavano i camion della benzina utilizzati dai tedeschi. Ma era una scusa.
*
Le industrie di Marghera invece non furono colpite. Solo una bomba cadde davanti all'Agip, senza però colpirla. 
Si sono conservati le industrie, non hanno colpito la ricchezza, perché hanno detto «un domani può servire anche a noi». Hanno colpito sempre la classe operaia, a partire dalla Ronzinella; lungo la ferrovia hanno distrutto tutto. 
Non mi parli degli americani!
Il mio laboratorio era fatto a torretta ed era sistemato in un edificio in cui c'era anche un bar che si chiamava proprio Alla Torretta. Un'osteria povera che vendeva solo fagioli, o poco più. Si chiamava Da Tito, mi sembra, ed era in via Rizzardi, sulla sinistra di via Rizzardi scendendo dal cavalcavia.
Il mio laboratorio fu colpito in pieno da una bomba, ma sono riuscito comunque a riparare la macchina grazie a un armatore di Marghera, il signor Rizzardi - barese di origine - che mi consigliò di andare a Mestre in un'officina di sua fiducia.
Riparata la macchina mi sono trasferito a Saletto e ho lasciato perdere Marghera.
*
La difesa antiaerea era praticamente inesistente, quelle poche batterie che c'erano, avevano a disposizione dei bidoni di olio che accendevano per fare fumo. Ma non si fa mica la guerra col fumo! Erano senza munizioni. Gli aerei avrebbero potuto abbassarsi a venti metri. 
Le ho viste io queste batterie antiaeree: ce n'era una davanti al viale, vicino al mio laboratorio  in via Rizzardi. [...]

venerdì 13 agosto 2010

Antonio Deon, Marziai BL

Nato nel 1907.

Nastro 1986/16 – Lato B      (da 04:43  ascolta l'audio)                 19 giugno 1986

D. Com'era la situazione durante la guerra?
R. Durante la guerra… non si aveva niente da mangiare. Eh! andavo sotto i tedeschi a battere col martello, a batter ghiaia. Ci davano una panettina di pane in quattro e si faceva bastare fino a sera, e un poca di minestra. Tante volte la minestra la facevano con le téghe de cassìa [bacelli di acacia] le si chiamava noi. Fame fin che si voleva! Ci si chiamava la “compagnia Bau”.
D. Bau? Perché Bau?
R. Perché si andava a lavorare … si avevano dei caporali tedeschi che ci comandavano e noi si era femmine, donne, tose, vecie; quelli che ce la facevano, insomma. Si andava su là per la strada, chi con un martelletto, chi con la pala, chi con un rastrello per inghiaiare la strada, per far in modo che si passasse.
Compagnia Bau la si chiamava noi. Era per prendere in giro un po', così; abitudine nostra.
D. Tutti quelli del paese che erano rimasti qua, lavoravano su questa “compagnia Bau”?
R. Quando c'era da lavorare, una squadra andava sulla strada verso Caorèra.
In quell'anno i tedeschi hanno portato via tutto quello che c'era. Il carbone che era fatto … ce n'era già di fatto carbone e l'hanno portato via. Come hanno portato via il maiale per le case e il fieno. Noi si aveva 18 vacche fra grandi e piccole, si avevano due asini, si avevano 14-15 galline, si avevano 6-7 pecore e capre e siamo rimasti con una vacca. Tutto, tutto ci hanno portato via.
D. E cosa mangiavate, allora?
R. Si andava a prendersi erba, dove la si trovava, qualcosa. C'era ancora mio padre che aveva nascosto un poche di fagioli sotto le pannocchie…
Tanti sono morti di fame; ne sono anche morti di fame!
D. Proprio morti di fame?
R. Morti, morti di fame.
D. Come sarebbe a dire “morti di fame”, cosa gli succedeva?
R. Perché quando non si trova niente da mangiare, si può morire, no! Si vedeva che el casca, viene magro. Era la fame, non trovava da mangiare, e moriva. E' morto uno che era un prigioniero, uno che avrà avuto, non so, un trent'anni. Con la ritirata era rimasto qua, e dopo è morto di fame sotto i todeschi. Era uno del paese, sì… solo che era rimasto qua nella ritirata. Invece di andare, era andato a casa. Si chiamava Solagna Biasio.
D. Altri che sono morti di fame?
R. Ah, ce ne sarà stato ancora qualcuno, ma io non posso saperlo … Ah! Tanta fame, neanche parlarne! È morto anche il povero mio nonno, ma è morto dopo, quando sono venuti gli italiani. Ha mangiato subito troppo… Mio nonno si chiamava Antonio Deon, come me.Quando sono venuti gli italiani si trovava da mangiare dappertutto. Trovava carne, trovava pane, si trovava di tutto da mangiare, quando sono venuti gli italiani. Si trovava fin che si voleva, per amor di Dio! C'era pane da par tuti i cantói… e allora qualcuno ha mangiato troppo, e così non va. 
Anch'io l'ho rischiata, per dire. I militari mi hanno domandato se mi piaceva la carne grassa. Io non sapevo se era grassa o magra e ho detto di sì! Mi hanno dato della carne grassa, me ne sono liberato, ma…
Eh, un anno brutto, sì! Un anno brutto…
D. E hanno fatto malanni, questi tedeschi, non so, con le donne...
R. Eh! Un poco di tutto… I soldati, si ubriacavano, appena arrivati, che trovavano vino del nostro. Ma dopo del nostro non ne avevano più, neanche loro. Avevano fame anche loro.
I tedeschi no, ma i ongaresi, i austriachi avevano fame anche loro. Perché dove ci sono i militari - ho fatto anch'io la guerra - dove ci sono i militari, se c'è abbondanza per i militari, anche i borghesi trovano qualcosa da mangiare [...] ma quando che gli manca anche al soldato, allora i borghesi possono morire.
D. Ma perchè gli ungheresi e gli austriaci avevano più fame dei tedeschi?
R. Dapprima sono arrivati i tedeschi, hanno finito la roba e dopo loro sono andati sulle altre bande… e qua sono restati sti óngarési. Tanti ce n'erano ongaresi, austriaci. Avevano fame anche loro come noi; come noi no, ma abbastanza fame anche loro…
D. E voi, erba! Che erbe cercavate?
R. Eh, quelle che erano migliori, nel prato, dappertutto. Così, quel che si trovava, barbabietole, quel che si trovava, lumache. Si trovava e poi si andava anche a rubare, per i campi … un po' di tutto. Magari per i campi c'era qualcosa, ma poco, niente…
D. C'erano contadini, qua nella zona?
R. Eh,c'erano contadini! Anche noi si era contadini, per modo di dire. Ma chi poteva seminare se ci avevano portato via tutto? E poi non si aveva neanche più le forze per zappare i campi, perché allora non si andava con l'aratro, si andava con el sapón [la zappa]. 
[...]

martedì 1 giugno 2010

Emigrante in Francia: mi chiamavano macaronì

Ricordi di un emigrante italiano in Francia fra la Prima e la Seconda guerra mondiale. 
Luigi Disastri, nato nel 1900 a Saletto di Breda di Piave (Treviso)

Questo brano fa parte di una più ampia intervista effettuata da Camillo Pavan nel corso delle ricerche sull'ultimo anno della prima guerra mondiale, dopo Caporetto.
A differenza dalla quasi totalità degli altri testimoni veneti, in questo caso l'intervistato parla prevalentemente in italiano, anziché in dialetto.
Luigi Disastri, che nel secondo dopoguerra ricoprì anche incarichi pubblici, con la sinistra, nell'Amministrazione comunale di Breda, è morto nel 2004.

Nastro 1993/4 – Lato B                             1 settembre 1993

Ero caporal maggiore (sergente, quasi). Mi son congedato [nel giugno 1922] e mi son messo a fare il falegname. Tutti i lavori che ho fatto per qualche mese qui a Saletto non me li hanno mai pagati nessuno [...]
Ero vestito bene, avevo le scarpe rosse. Avevo fatto un po' di camorra ...
["far camorra": pratica molto diffusa in tutti gli eserciti, presumo. Certamente in quello italiano ai tempi della leva di massa e nell'immediato primo e secondo dopoguerra. In cosa consista lo spiega molto bene Disastri]: «ci si arrangia, da militari
Con questo tenente si andava in motocicletta a prendere della nafta, a prendere del gasolio, a prendere della roba, a bidoni, che poi lui lasciava un po' di lasco anche per me...
Avevo le scarpe belle, un vestitino bello a righe, il cappello, la camicetta e quando mi son presentato a tirar i soldi mi hanno detto: «Vestito così, vieni a soldi? Non ne abbiamo soldi ... aspetterai».
Allora ho preso su e sono andato in Francia, ed è stata una catastrofe.
Perché in Francia non è che si trovino le mele mature che cadono dal melo... . [C'era] una cortina non indifferente. Prima perché non sai parlare e poi perché quando arrivi là credi di trovare un mondo nuovo che ti dà la pappa in mano.
Invece, prendi il [mio] primo datore di lavoro, un certo [...] Robert; il primo che ti prende a lavorare. Ma ti porta a mettere dei piloni, dei travetti di sostegno sotto una baracca dove c'è tanto fango così. E devi mangiare, andare lavorare, ed è inverno. Poi prendi il carretto, carica i pezzi di travetto e tira in due. Andar lavorare così. L'ho fatto tre mesi finché dove mi alloggiavano ho conosciuto una ragazza, una certa Fifine che non mi ricordo più il nome di famiglia ... che avevano una piccola osteria. Essa mi ha portato a Villars.
A Villars (vicino a  Saint-Étienne, nella Loire) c'era uno stabilimento di falegnameria e mobilificio.
D. Come mai lei è andato proprio lì, all'inizio?
R. Io, quando sono andato via da qui sono andato a Saint-Étienne.
D. Chi le aveva detto di andare lì?
R. C'era già uno che lavorava in "mina", ci sono tutte mine [miniere] là. Lui ci ha detto che si trovava del lavoro. Siamo andati in tre, là. Uno poi è andato a finire in mina. L'altro è venuto a casa per non andare in mina; io ho trovato lavoro da questo monsieur Robert.
Erano tutti e tre da Saletto. [Quello che ci ha chiamato ... ] era un Davanzo, era il figlio di Andrea Davanzo e lo chiamavano el moro; era tutto moretto, era come un africano. Lui lavorava in mina, era già pratico, lui. Aveva una donna, assieme. Dormiva nelle case dei minatori.
Io da Saint Etienne sono andato a lavorare a Villars in uno stabilimento dei signori Renaud e Mattous. E là sono stato tre anni. M'hanno voluto bene, andavo in corriera da Saint-Étienne a Villars. Mi portavano a mezzogiorno a mangiare a casa, mi riprendevano all'una e mezza e mi riportavano a casa alla sera.
Dopo è venuta su mia moglie; mi sono sposato, dopo tre anni che ero in Francia [...]
Vicino a dove abitavo io c'era uno che aveva una bottega di ferramenta e mi ha trovato un [nuovo] padrone che aveva un'azienda di mobili, che montava mobili in serie. Mi ha detto: «Guarda, se vuoi guadagnare soldi, ti porto, ti faccio prendere io da monsieur Noiret... », un nome così, che finiva con T, non mi ricordo più.
Così ho lasciato Villars e sono andato da questo qui. Per un periodo di tempo ho lavorato a cottimo e battevo tutti i cinquanta operai. Li battevo tutti, perché al massimo c'era un operaio che faceva 50 lire al giorno e quando io ne facevo 70 si è vergognato e si è licenziato. Un napoletano faceva 12 franchi al giorno. E poi più di 35, 40, 50 franchi al giorno nessuno riusciva a fare. Eravamo 60 o 70 operai.
D. Cosa c'era da fare?
R. Montare mobili in serie, in stile Liberty.
Ci davano tutto preparato, pronto. Bisognava essere svelti, bisognava essere svelti, svelti, svelti. Comunque facevo sui 70-75 [franchi al giorno]. Poi hanno fatto uno sciopero e io ho dovuto accodarmi allo sciopero. Il padrone è montato su un tavolo e ha detto: «Sentite, cosa volete?»
«Vogliamo che i prezzi siano aumentati ... ». E lui: «Fate come monsieur Disastrì, che guadagna 75 franchi al giorno». Eh, gli ho detto: «No, 70». E lui: «Eh no, 75 al giorno ne fate, non 70!».
Poi [il padrone] ha dovuto andare via e io non ho voluto seguirlo, perché mi piaceva stare a Saint-Étienne.
Allora questo negoziante di ferramenta mi ha mandato da un'altra ditta ... una ditta per la quale nessuno voleva lavorare perché il padrone era molto bravo ma cattivo. Aveva 50 – 60 operai, ma un padrone che era ... macchè ingegnere, aveva gli occhi di fuoco. Bell'uomo. Ma, tutti avevano paura. C'erano pochi ... bisognava essere molto bravi per restare da lui.
[Quello della ferramenta] mi ha detto: «Ascoltatemi, Disastri ... Ecouté moi, monsieur Disastrì. [... il padrone] ha nome Robert, ma lo chiamano tutti "la vacca", perché è cattivo, eccetera eccetera. Provate a vedere se ce la fate». Mi ha scritto un bigliettino e mi sono presentato nell'ufficio.
Buon giorno signore, chiedo del lavoro, mi manda il signor [...]
E lui mi ha chiesto - in francese, si capisce - «Cosa sapete fare?»
Io gli ho risposto: «Mi metta a lavorare, poi vede cosa so fare» [...]
Mi ha dato del lavoro, e c'era un certo Regìs, che era il magazziniere ed era un piemontese che era con lui da vent'anni, anche trenta. Già vecchio, questo Regìs, ma bravo, buono. Ero il primo italiano che andava dentro là, su sessanta operai.
Il padrone ha detto a Regìs di portarmi il lavoro, una tavola con un disegno in piccolo. Io conoscevo un po' il disegno, grazie ai militari che mi avevano fatto studiare un po'. Mi ha fatto portare tutto il necessario davanti, così. Qui c'era la porta dell'ufficio, qui c'era la porta che andava fuori e io ero qui così... Il padrone, quando mi hanno portato la roba [...] è venuto, si è presentato davanti con la riga in mezzo, con degli occhi di fuoco, faccia rotonda, forte come un leone, con la vestaglia grigia e poi si è messo davanti così, davanti al banco.
Io ho preso dei pezzi e poi mi sono fermato.
[Il padrone] ha detto: «Continuate, continuate».
E io: «No».
«Perché?»
«Perché se lei va via continuo a lavorare, sennò io non vado avanti».
Beh, [mi ha assunto e in quello stabilimento] ci sono stato dieci anni e otto giorni.
Sono stato là e ho guadagnato molti soldi. Ho battuto ... a un certo punto ho battuto il capo operaio, che gli mancava un dito e mi chiamava macaronì. E proprio perché mi chiamava macaronì quando mi hanno dato da fare un campione, un campione di colonne per l'hotel Gillet de Lyon ... quando mi hanno dato la seconda colonna da fare, dopo la sua ... lui ha impiegato 48 ore e io, per batterlo, ho impiegato 24 ore.
Allora è venuto vicino, quando gli ho presentato la colonna, fatta meglio di lui, senza neanche un, chiodo, tutto incollato con [...], pulita; una colonna molto bella, che divideva la hall di un albergo. Mi è venuto vicino e mi ha detto: «Dì, macaronì, non sei mica morto a forza di lavorare, non sei crepato... »
«Eh, mi è rimasta ancora un'ora... !» E poi, tanti anni dopo, quando ero artigiano in proprio, è venuto a domandarmi scusa e mi ha detto; «Mi hai battuto, eri più forte di me.»
Ma quando ero giovane come te, facevo con questa mano qui ... quando ero giovane come te, non mi batteva nessuno.
D. Dove ha fatto l'artigiano?
R. In Francia, sempre, e sempre sui mobili. E adesso le faccio anche vedere ... ne ho anche un pezzo qui, un pezzo che facevo a quell'epoca e che ho rifatto in questi giorni, dopo 60 anni, perché lo facevo che avevo 32, 31 anni e lavoravo per Bois d'Auray di Parigi... ed era nel '32.
D. È sempre rimasto nella zona, o...
R. Si, sempre rimasto là. Ho lavorato anche per Lione, ho lavorato anche per Parigi, ma sempre rimasto a Saint Etienne. [...]
Poi c'è stato qualcosa, guardi. Là dicevano molto male degli italiani. Io difendevo il mio paese, sapevo parlar bene il francese e quando questi francesi dicevano male di Mussolini, dell'Italia, che qua morivano di fame, che non avevano neanche i chiodi per inchiodare la cassa da morto ... io mi ribellavo, e li mettevo a posto. Con le buone, ma gli facevo capire che in Italia c'è gente onesta, che sono più poveri [a causa del]la natura, perché non hanno le risorse che avete voi. Vengono qui, io lavoro, mi guadagno il pane, ma spendo il mio denaro qui, mangio qui, dormo qui. Dunque aumento il benessere.
Sapevo difendermi.
C'erano degli sbandati, c'erano tanti italiani sbandati che facevano quasi pena, a dir il vero. Non avevano un po' di moralità, niente. Se c'era uno sciopero facevano tutti lo sciopero. Se c'era da gridare «Abbasso Mussolini» correvano tutti per le strade...
Io ho cominciato - con Peratone e Cesa - a formare un gruppo, una società di italiani. Un gruppo di italiani in società. Abbiamo preso una stanza in affitto, pagando poco, che poi il governo italiano ... poi ci hanno anche rimborsati, a dir il vero. Abbiamo formato la «Casa dell'Italiano».
Dunque tutti gli italiani, di qualunque colore... È stata dura, ci son voluti cinque sei anni, eh. Che siano di destra, di sinistra, bianchi, rossi e verdi, tutti potevano venire al giovedì a giocare le carte (si apriva al giovedì sera) e alla domenica giocare le carte e stare insieme, leggere dei libri. Avevamo una piccola libreria, eccetera; c'era un grammofono. Abbiamo formato questa «Casa dell'Italiano».
I francesi sono un popolo in gamba e anche molto organizzati. Perchè loro, [con] tutti gli stranieri, secondo la nazionalità, ne radunavano venti o trenta attorno a lei. Lei ha trenta nominativi di italiani: nome, indirizzo ... lei deve sapermi dire cosa fanno cosa non fanno, se vivono onestamente, se sono ladri, se sono patrioti, se sono troppo patrioti, se sono antifascisti, se sono fascisti. Perché io poi ho conosciuto il maggiore Campigli e la Guglielmina, che era figlia di italiani; il dottore – era bravo quel dottore [...]
D. Erano antifascisti o fascisti, questo dottor...
R. No, quelli lì erano impiegati francesi, gente messa dalla Francia.
D. Ma quelli che lei ha conosciuto, erano fascisti o antifascisti?
R. Erano tutti antifascisti, esclusi i militari. In Francia erano tutti antifascisti, escluso la gente colta. Tutte le persone che avevano una certa cultura, non erano antifascisti, al contrario. Tutti gli altri, che è la grande fascia del settanta per cento al di sotto, erano tutti antifascisti, ma tutti, anche i partiti che non capivano la ragione. Inutile spiegargli che Mussolini non ha fatto tutto del male, che ha messo dell'ordine, che c'erano i Balilla [...]. Qui c'era qualcosa anche di buono, non tutto cattivo.
D. Lei spiegava queste cose, allora?
R. Si capisce! Ma la persona colta capiva la ragione, la sapeva meglio di me, perché era istruito, veniva anche a prendere il caffè in casa. Gli altri non lo capivano.
A un certo punto io sono venuto in ferie, Era nel '38, nel tempo che hanno fatto .... c'era Hitler, gli Inglesi e poi c'era Lavall che hanno fatto un convegno non so dove [...] per arrangiarsi fra di loro. E c'era uno sciopero quasi generale, in Francia, contro proprio questi affari. Io ho preso su e ho detto, visto che c'è sciopero, invece di far sciopero vado a casa un po' di giorni e ho scritto sulla porta «Chiuso per ferie». Quando sono venuto in Italia, loro mi seguivano.
D. Loro...
R. Quelli che mi stavano dietro, che stavano dietro a tutti gli italiani. «Disastri si è spostato, è andato in ferie», e prendono nota... questi francesi addetti a questo gruppo di stranieri nel quale c'ero anch'io. [...] Quando sono arrivato alla frontiera, non so il perché, c'è stata una discussione, da ridere, da scherzare, e il poliziotto, il finanziere che doveva timbrarmi il passaporto che io entravo in Italia non lo ha fatto. Io avevo anche dato in mano a lui, ma non hanno timbrato i passaporti, me l'hanno tornato senza timbrarlo, tanto il mio come quello della moglie.
Quando sono rientrato in Francia dopo dieci-quindici giorni, che qui avevo dei parenti, mi sono portato dietro delle zucchette a forma di uovo - una volta ce n'erano molte da queste parti, le tenevano per bellezza. Arrivato alla frontiera la Finanza francese apre le valigie e trova queste zucche piccole come uova, e mi fa: «Cosa sono queste qui?». Dico: «Sono uova che fanno le galline italiane». E allora dai, ridi con queste uova delle galline italiane ... e non mi hanno timbrato il passaporto.
Quando ero andato in Italia avevo delle economie, e le avevo depositate (perché là alla cassa di risparmio alle volte mi permettevano di ritirare, alle volte chiudevano e non li davano più, c'era un po' di tira molla) ... le avevo portate in casa di un certo nipote di [...] E quando sono andato in Italia mi son ritirato i miei soldi nel caso mi occorressero [...]
Il fatto è che non mi hanno timbrato il passaporto. Loro hanno saputo che sono rientrato, hanno saputo che sono uscito ... come hanno fatto non lo so. Il fatto è che un bel giorno mi sento arrivare nel corridoio, con quel passo che hanno loro, con gli stivali con le scarpe pesanti, con l'elmetto e con il sottogola, con il fucile nella spalla, mi sento arrivare qualcosa che è militare. E mi arrivano i carabinieri, la Gendarmerie. Mi fanno:
«Bonjour monsieur Disastrì»
«Bonjour messieurs, in cosa posso servirvi?»
«Il passaporto»
«Non ce l'ho qua, bisogna che vada a prenderlo». Vado a prenderlo e apro il passaporto.
«Siete uscito il giorno tale – avevano una carta in mano – e qui non ve l'hanno timbrato. Dove siete passato?»
«Eh, si scherzava, si rideva...»
«Qui siete rientrato...»
«Guardi che c'è stato quell'affare delle uova, che poi erano zucchine...»
«Ah – ha detto – bisogna che voi andiate in tal punto, domani.»
E m'hanno mandato a un commissariato. Io conoscevo il sindaco. Lo conoscevo perché con il mio padrone avevo lavorato con il sindaco e mi stimava molto, perché aspettava che mi naturalizzassi lì, questo sindaco. Me l'avrà detto venti volte: «Si faccia naturalizzare, che poi è tranquillo, lavora per conto suo. Vi aiutiamo noi...»
No, no... non potevo fare il francese, essendo italiano, io. Poi gli altri, quelli che sanno fare le facce, a me non interessano. Il fatto è che vado in questo ufficio e lì mi fanno parlare e dico quello che ho detto ai gendarmi.
«Non è sufficiente. Il giorno tale è andato in tal punto»
E difatti là ho conosciuto quel dottor ... dentista, oculista, eccetera. Era bravo. E lui era assieme, che poi ho conosciuta questa signora Guglielmina che faceva parte di quelli che seguivano gli italiani. Là questo dottore seduto così e io ... qui c'è una porta semiaperta, qui c'è una porta chiusa. Lui mi parla e mi dice:
«Monsieur Disastrì dovete dirmi tutto ciò che è successo».
Gli dico esattamente quello che è successo. Ho detto:«Guardate, io non farei tanto così contro la Francia, vivendo in Francia, ma neanche se mi coprono di milioni». Perché i carabinieri mi hanno detto: «Voi siete un ex ufficiale» - «Ma piccolo – ho detto – molto piccolo. Non un ufficiale che si occupa di servizi... ».
Spiego e rispiego poi gli dico: «Guardate dottor - De Angelis si chiamava, guarda, adesso mi viene – guardate dottor De Angelis che io, quando vado fuori di qui preparo le valigie e me ne vado a casa».
Ha detto: «Ma siete matto, vous êtes fou», e dice: «La polizia fa il suo dovere, non dovete mica offendervi. Sono male informati, forse li hanno informati male. Non dovete scappare. Scappare, perché? Non vi hanno mica detto di andare via»
«Senta, ma io non voglio storie, me ne vado via».
Fatto sta che mi convince intanto di restare là e di continuare. Poi – quando gli ho spiegato – mi dice: «Adesso madame, che c'era la signora, potete chiudere la porta dietro». C'era la polizia che sentiva.
Non mi è andato bene. Non mi è andato bene. Ho litigato con i clienti che avevo. Ho pagato dei debitini che avevo. Avevo duecento franchi di legname, che non mi ricordo più il nome, verso la piazza Carnot ... era un magazzino che riforniva di legna, gli ho detto "venitevelo a prendere" che io vado a casa. Vado via.
Sono andato a Lyon. Al consolato ho detto: «Mi mandi quelli lì che fanno il trasporto internazionale».
Sono venuti, hanno caricato tutto quello che c'era e sono venuto a casa .
Sono venuto a casa e sono andato a lavorare prima al Campo Sant'Angelo a Venezia, da una ditta. Poi mi sono stabilito qui. Ho portato a casa, mi sono messo qui, sulla casa di mio padre. Ho cominciato a fare l'artigiano, ho lavorato anche molto.
D. Aveva figli?
R. Sì, due maschi e due femmine.
D. Dove sono adesso i figli, dove abitano?
R. Uno è in Francia, la ragazza è a Torino. Due, un maschio e una femmina abitano qui a Saletto.
D. Non è più andato in Francia?
R. Ah ... sono andato sempre. Sono andato cento volte. Ci andrei anche domani. La Francia è il mio paese. Io ho gli amici, là. [...]