martedì 17 agosto 2010

Angelo Dalla Palma, presa 10 Montello

Nato il 2 febbraio 1912 a Coldarco frazione di Enego (VI). 
All'intervista è presente (e partecipa) anche la moglie Teresa Francescato, nata nel 1913 a Coldarco frazione di Enego (VI).
I coniugi Dalla Palma sono residenti a Santa Mama del Montello (TV).

Nastro 1994/12 - Lato A                   9 maggio 1994    

Siamo in via "Nord Montello" (Panoramica), vicino alla chiesetta di Santa Mama, al confine fra il confine di Volpago e quello di Crocetta, a poca distanza dal Cippo degli Arditi.

Marito. Prima abitavo sulla presa 14, ma sono nato sulla 10, e sono rimasto sulla 14 dal 1936 al 1962.
Pensavo di non arrivare neppure ai 50 anni, perché non sono mai stato un uomo molto forte, invece ... comunque ora sento che a machinéta non va tanto bene e non posso neppure aiutare la moglie.
*
La sera che siamo andati profughi, a casa mia c'erano 18 ettolitri di vino, e li abbiamo lasciati là. Ma io non pensavo a quelle cose, ero un bambino e pensavo a una cassa di pere che avevamo e volevo prenderne un pochine.
Siamo partiti con una famiglia che abitava là vicino e aveva le bestie da lavoro, abituate al giogo. Le hanno attaccate alla carretta e davanti ci hanno messo una mussa. Noi bambini siamo saliti sulla carretta e siamo andati su per la presa 10 - la nostra casa era sul versante nord del Montello - e ci siamo diretti verso Volpago. Poi siamo andati profughi verso Camposampiero, a Villa del Conte.
*
Moglie. Abito in questo posto fin da piccolissima. Sono del 1913 [...]
Marito. Sono stufo di vedere gli zingari che vogliono entrare in casa mia, e una volta ho preso la forca e li ho fatti correre.
*
Quando sono andato profugo avevamo una cassa di pere e non pensavo ad altro, non certo alle vacche, o al vino o a tutto il capitale che rimaneva là. Mio padre si è portato dietro una vacca e l'ha mantenuta poi in una stalla.
Le pere erano in una cassa grande, di circa un quintale, e prima dell'inverno le avremmo mangiate. Erano pere grosse così, e quelle che non mangiavamo noi le regalavamo. Non avevano un nome preciso ... mi pare ancora di vederle. Erano buone e avevamo un solo pero.
Abitavamo sulla presa 10, sopra il tronco che va a Santi Angeli, a circa un km dalla chiesa. Case comunque ce n'erano anche allora sparse un po' dovunque sul Montello. [....]
Moglie. [...] Mi ricordo che qua, dopo la prima guerra, era tutto differente. Sul confine fra Volpago e Crocetta, c'erano tutte morerine [gelsi selvatici], piantate da una e dall'altra parte del confine. Senza viti.

Nastro 1994/12 - Lato B

Era tutto differente. La strada c'era anche prima, ma non era asfaltata e parte per parte c'erano due file di moreri che la fiancheggiavano.
Da bambina sono venuta sul Montello in casa dei miei zii che non avevano figli. Vi sono rimasta finché mi sono sposata.
Gli zii si chiamavano Pietro Dalla Palma e la zia (sorella di mia mamma) Cappello Giustina. Avevano comprato sul Montello ancora prima della guerra.
Marito. Tutti quelli della montagna sono venuti giù nel Montello. La gran parte degli abitanti del Montello sono originari dalla montagna! [...] 
*
Finita la guerra del '18 abbiamo trovato la nostra casa senza coperto e senza solai, solo con i muri. Vi abbiamo messo sopra dei teli di tenda per ripararci dalla pioggia, e un po' di paglia per terra per dormire. 
Alla notte ci voleva uno che restasse sveglio a far la guardia perché i topi mangiavano le orecchie! I topi erano arrivati in tempo di guerra: il fieno non era  stato mai tagliato e sul prato i passaggi dei topi avevano formato come delle gallerie fitte fitte. Non regnavano altro che i topi. 
La causa della loro presenza erano anche i rifiuti che i militari avevano lasciato e in più l'erba non era stata tagliata. 
I topi che «me magnava e recie», non è un modo di dire: di notte bisognava far la guardia.
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A Villa del Conte, dove eravamo profughi, abitavamo in casa di Stellin Pietro. Ricordo che i contadini piantavano nell'orto un po' di tutto e io andavo negli orti a rubare gli zucchini e le zucche per darle alla vacca che ci eravamo portati dietro, perché facesse latte ... e i proprietari mi correvano dietro col bastone.
Siamo venuti via da Villa del Conte appena finita la guerra. Ma anche durante la guerra mio padre ritornava a volte a casa, "su al Diese" (su, sulla presa 10) a prendere il fieno con un cavallo che noleggiava.
Sul Montello sentiva i tedeschi di là del Piave che tiravano col cannone, perché sopra il Montello gli italiani avevano fatto una trincea profonda e larga due metri. Là era il fronte. 
Il padrone del cavallo diceva a mio padre: «Scappiamo perché i tedeschi ci ammazzano».
«No, no, diceva mio padre, stanno bombardando più in su, e noi siamo sotto», cioè più in basso della linea che dovevano colpire i tedeschi. La nostra casa infatti era sul versante nord del Montello e malgrado le linee di difesa italiane e le granate tedesche mio padre riusciva a portare a casa il fieno, in piena guerra.
Al ritorno sul Montello abbiamo trovato degli austriaci che erano prigionieri. Erano pieni di fame. Ce n'era una compagnia su una buca. Io sono andato a portargli un po' di pane e loro mi hanno dato 'na spineta [un'armonica a bocca] lunga così: più contento di me non c'era nessuno, suonava proprio bene.
I prigionieri erano sulla presa 10, proprio sopra casa nostra. Erano là, dentro a una buca, pieni di fame.
*
Io sono andato a scuola "alla Peschiera", che si trova in cima alla 12, vicino all'osteria di Sbeghen. La Peschiera era un laghetto "fermo". Da dove abitavo ai Santi Angeli per arrivare a scuola dovevo camminare un'ora. Ma allora eravamo boce e si camminava forte...
*
Mi ricordo che quando siamo tornati da profughi qua a S. Mama c'era lungo la strada una fila di granate alta un metro e lunga venti metri, che poi le hanno portate via. Per terra c'erano petardi, "signorine", bombe.
Le chiamavano signorine perché avevano il manico di legno e una sottanina sottile e dentro c'era l'esplosivo. I petardi erano come una scatoletta, facili da esplodere e ancora carichi.
Ricordo un caporale che andava a trovare una ragazza vicino a casa mia e "per farsi vedere" ha colpito con una fucilata (1 colpo del fucile '91) un petardo che era a una ventina di metri, giù in fondo a una buca, e gli è arrivata una scheggia proprio in mezzo alla fronte; per fortuna era superficiale.
Ricordo inoltre che sul nostro confine mi è capitato di piantare il vanghetto per terra e ho colpito esattamente il teschio di un austriaco. Gli ho spezzato giusto la mandibola, con tutti i suoi denti. L'ho presa in mano e l'ho portata a casa. Qualche giorno dopo è venuta a trovarci una donna di Camposampiero che avevamo conosciuta da profughi e io le ho messo la mandibola dentro la sporta. Quando se n'è accorta per poco sveniva. 
I boce no capisce gnente! Robe che non si dovrebbero fare.
Poi il morto l'hanno portato via. Non ricordo chi l'abbia portato via e dove l'abbia portato. Ricordo solo l'episodio di questa ganascia intera che si è staccata con tutti i suoi denti.
*
Quando siamo scappati dal Montello c'era la nostra famiglia assieme a quella che abitava sotto di noi e che aveva il carro e le bestie che erano in grado di lavorare. Sul carro siamo saliti solo io e un altro bocia di quella famiglia che era un anno più giovane di me. 
Siamo rimasti al coperto di questo telo che avevano tirato sopra al carro in qualche maniera, perché era sera e piovigginava. Ci siamo diretti su per la Dieci e c'erano tutti camion che andavano su e giù per le strade. Siamo arrivati a Volpago [...]
L'altra famiglia si chiamava Forlin (il marito) e aveva sposato Rosina Malacarne. Ricordo che era lei che conduceva le bestie. Era di sera e stava per venir notte, buio.
Della nostra famiglia eravamo il papà, la mamma e quattro fratelli di cui la più vecchia era Giacoma (1901). Davanti al carro c'erano due bestie e una mussa. Noi avevamo in stalla tre bestie e purtroppo due abbiamo dovuto lasciarle in stalla perché non sapevano lavorare. Ne abbiamo portato con noi solo una, legata dietro il carro.
Moglie. Anche i miei zii avevano le bestie ma non le facevano lavorare perché perdevano il latte. Questa era l'idea.
Marito. Abbiamo portato via poca roba per vestire, anche perché l'altra famiglia aveva caricato più roba. Il carro era carico e ci hanno fatto salire solo noi due bambini più piccoli. Tutti gli altri camminavano a piedi.
L'altra famiglia non ricordo più di quante persone fosse composta.
Delle mie pere, che erano in una cassa appena su della scala, sono riuscito a portarne via solo un poche.
Moglie. Anche mia mamma ha dovuto andar via dal paesino della montagna, da Coldarco ... e piangeva per aver dovuto lasciare a casa le pere: aveva quell' albero e altro non aveva!
Marito. Quando siamo ritornati da Villa del Conte mio padre si diede da far per ricostruire la casa, anche perché lui si arrangiava a far tutto, capomastro ma anche balconi, finestre e tutto.
Moglie. Mio zio ha ricostruito la casa con i sassi del Piave.
Marito. Mio padre ha utilizzato la roccia di una buca che avevamo nei campi. Per far saltare la roccia si comprava la polvere. Era una roccia viva, che mio padre sapeva anche ritagliare nella misura richiesta.
Per far saltare la roccia si faceva un buco con dei ferri lunghi un metro e mezzo-due metri (circa) che si chiamavano "barramine". Con questi ferri si faceva un buco battendo la roccia fino alla profondità richiesta. Dentro al buco si versava la polvere e poi le si dava fuoco con una miccia.
Sulla presa 14 avevamo un'altra cava ancora più grande e uno del posto con quella roccia si è costruito una gran casa. E io (all'epoca dell'ultima guerra) ho avuto bisogno di chiedergli due secchi di calce, che in tempo di guerra non si trovava, e loro - che ne avevano una buca piena - non volevano darcela, eppure continuavano a cavar crode lo stesso. Solo dopo molte insistenze ci hanno dato questa poca di calce.
Su per la Dieci c'erano dei ricoveri fatti dai soldati italiani. Uno in particolare, là dal tronco di strada fatta per andare ai SS. Angeli, si inoltrava nel monte per più di dieci metri. In quel ricovero c'era acqua nascente e dopo la guerra andavamo a prenderla là. Ma un anno, nel 1922, acqua non ce n'era sul Montello e per trovarne abbiamo dovuto andare dalle parti di Sernaglia. 
[...]
Marito. Ricoveri ce n'erano dappertutto. Erano come delle caverne, dei buchi; penso che ci siano ancora, anche se l'ingresso è ormai ostruito con un po' di terra davanti. Questi buchi erano stati aperti dai soldati, ma erano al naturale, senza armature, senza niente.
[...]

Nastro 1994/13 - Lato A

Moglie. [...] E la falce? (el faldìn). Quando avevo 10-12 anni mi hanno dato el faldìn per segare l'erba. Cosa crede, non provavano mica pietà per questi bambini, li facevano lavorare.
La famiglia dei miei zii era composta di 12 figli di cui due sono morti da piccoli: uno si è annegato in un mastello d'acqua e una è morta appena nata.
Quando mia zia da bambina mi mandava ad acqua, mi dava dei recipienti piccoli adatti all'età.
Scendendo verso il Piave a fianco della chiesetta di Santa Mama, fiancheggiata da tutte acacie, un boschetto fitto - poi quando hanno fatto il canale è cambiato tutto - passavo e vedevo che c'erano queste bombe. 
Ce n'erano di quelle tonde e di quelle col bastoncino che avevano una cordicella con una "forchetta" che la teneva ferma. 
Mia zia mi diceva: «No sta mia tocar!»
Ricordo che una volta ho appoggiato per terra questi secchielli e mi sono detta: «Ma guarda che belle cordicelle che hanno queste cose qua». Era appena finita la guerra e mi faceva voglia di prenderle queste cordèle. Sono andata proprio vicino a questa bomba, me lo ricordo come fosse adesso, e l'ho presa in mano. 
Volevo strappare la forchetta perché allora avevo i capelli lunghi e mi sarebbe andata bene per trattenerli. Stavo per farlo, ma poi mi sono detta: «Mi hanno detto di non toccare, è meglio che lasci là». Così l'ho messa giù, ma ce n'erano dappertutto di queste bombe e sono rimaste là per molto tempo, anche dopo che erano passati i soldati a prenderle.
Nel terreno erano sparsi picconi, badili e i miei zii si sono tenuti un pochi di questi attrezzi perché andavano bene per il lavoro, gli altri li hanno messi da una parte per venderli.
[...]
Altre bombe erano lunghe una trentina di centimetri, quelle che avevano il manico. Molti sono morti o feriti maneggiandole. 
Uno qua vicino, ad esempio, Antonio Dalla Costa, è rimasto ucciso dallo scoppio di una di queste bombe. Avrà avuto 18-19 anni ed era parente di mio zio. La bomba è scoppiata mentre cercava di svuotarla ... e mio zio è stato chiamato appena avvenuto lo scoppio. Arrivato sul posto ha visto questo giovane che aveva appena mangiato [...] e ha detto mio zio che aveva ancora la pastasciutta che gli usciva di bocca. Gli era scoppiata la bomba in mano e gli si era aperto tutto il canale davanti.
Anche cartucce c'erano per terra, numerosissime e si raccoglievano per vendere. E ce ne sono ancora anche adesso: sono andata a zappare proprio prima qua dietro sui fagioli e ne ho viste due, ma non le raccolgo neanche più. Una volta però si vendevano. C'era gente che passava a prenderle su. 
C'era in particolare una vecchia che passava con l'asino e vendeva forchette cordelle aghi... [?]
I miei genitori non si sono mossi mai da Coldarco o meglio mia madre non si è mossa mai. È nata ed è morta a Coldarco; invece mio padre andava emigrante.
Mia madre si è mossa solo quando l'hanno portata a Bassano perché le è venuto un infarto ed è morta (aveva 75 anni). 
Per la verità ha dovuto andarsene via anche durante la guerra. È andata profuga ma non mi ricordo dove. Quando è partita piangeva perché non aveva potuto portarsi via niente, neppure le pere. [...]
MaritoIl caporale che si è preso la scheggia in fronte, poi non è andato più a trovare la ragazza del Montello, e la gente (i ragazzi) del posto lo prendevano in giro e gli cantavano una canzone: «El caporale, dà un colpo e poi va via, e la Maria lo piangerà», sull'aria della Biondina capricciosa garibaldina trulla là
Poi questa Maria ha sposato uno di Sernaglia. Quando è morto il padre di Maria, suo marito - che si chiamava Jijo - è venuto in chiesa col cappello senza levarselo dalla testa (forse era ubriaco) mentre tutti in chiesa avevano il cappello in mano. Da allora tutti l'hanno chiamato Jijio cavete el capel. Per dire l'ignoranza del tipo.

MoglieMi chiamo Francescato Teresa e sono figlia di Giuseppe e di Cappello Margherita. Ho abitato con gli zii fino a quando mi sono sposata con Angelo, nel 1935.
Dopo sposati siamo andati ad abitare a SS. Angeli nella casa della famiglia di Angelo, sulla 10, dove i Dalla Palma erano proprietari di 8 campi di terra e dove ho anche avuto la prima figlia.  In tutto abbiamo avuto quattro figli, tre femmine e un maschio che ora abita a Ciano e fa il carpentiere, mentre le tre figlie si sono sposate e sono casalinghe.
Marito. Dopo un po' siamo andati a stare sulla 14, su una campagna di 8 campi di terra comprati da mio padre e là siamo rimasti fino agli anni '60, quando sono morti gli zii di mia moglie - che non avevano figli - e siamo venuti ad abitare qua.
Ma sulla 14 andava male. La terra non rendeva niente. Vi siamo rimasti trent'anni ma non abbiamo risparmiato neppure i soldi per riparare un balcon (erano tutti rotti). Poi per fortuna sono cresciuti i figli. 
Il ragazzo ha imparato a fare il carpentiere qua a Ciano e due delle ragazze sono andate in Svizzera e si sono messe da parte i soldi per il corredo, perché noi non si aveva neanche sinque schèi
[...] La figlia più giovane è riuscita a fare le scuole medie a Montebbeluna - è stato un gran sacrificio - e poi è stata assunta come collaboratrice in una farmacia a Crocetta, dove è rimasta per quattro anni.
Qua sul Montello erano condizioni di vita tremende. D'inverno le prese diventavano quasi impraticabili. 
Una sera uno che abitava su per il Montello, Tommaso Cavalli, si è presentato a casa mia e mi ha chiesto il favore di andar a cercare qualcuno che gli prestasse calesse e cavallo per poter accompagnare il dottore a visitare sua moglie (Savarise Carmela) che stava male. 
Il dottore si chiamava Giuseppe Calderino, era zoppo e aveva la moto, ma su quelle strade la moto non riusciva a correre. 
Allora abbiamo chiesto a uno là vicino che aveva cavallo e calesse se ce li prestava. Ma quello ha detto che ci avrebbe dato solo la barachina (il calesse, el sarét) e che dovevamo arrangiarsi a trovare il cavallo da un'altra parte. 
Abbiamo trovato il cavallo da un tipo piuttosto strano - De Faveri Giuseppe detto Nini Zacaria - che ha accettato subito di venire. Con lui ci siamo recati da chi aveva promesso di prestarci il calesse, ma quello intanto ci aveva ripensato e si è rifiutato di darci il calesse. 
Allora Nini Zacaria prende la coperta che c'era sopra el sarét e la mette sopra il cavallo. 
Siamo andati a prendere il dottore; era sera e stava quasi per diventare notte. 
Il dottore non era mai stato sopra un cavallo e così - dopo averlo messo in groppa - io e Tommaso lo tenevamo in equilibrio uno da una parte e uno dall'altra, mentre Nini camminava davanti. E il dottore scherzava: «Adesso facciamo la fuga in Egitto, come nostro Signore». 
Ma alla fine siamo arrivati a destinazione.
Sulle stradine del Montello, non asfaltate, c'era un pantano alto così.
[...]
Era dura per i dottori, ma neanche il postino ce la faceva a venire su quando era brutto tempo. Allora lasciava la posta giù, alla bottega-osteria da Martinel, e quando si andava a bottega ci si prendeva la posta...

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