mercoledì 13 ottobre 2010

Paolo Sostero, Purgessimo UD

http://Nato il 30 giugno 1910

Nastro 1996/3 - Lato A                                 15 aprile 1996

I soldati venivano qua a riposare [...] restavano quindici venti giorni; si vedono ancora gli spiazzi che avevano preparato per gli attendamenti.
Quel monte che si vede, noi in friulano lo chiamiamo Uispít e ho letto nella storia che quando i longobardi venivano giù gli indicava la pianura, perché prima di venir avanti guardavano, mica andavano a mosca cieca. Uispít vuol dire punta, ma nella mappa viene chiamato Purgessimo.
Sopra al Purgessimo ora c'è il trasmettitore.
Si può salire da quelle case sopra il paese, prima della chiesa c'è un bar da dove parte la stradina a zig zag.
Vicino a Castelmonte, dove c'è il confine, era pieno di trincee. Sono andato a vedere quei posti, in motorino, quando ero più giovane.
Anche qua sopra sul Purgessimo le avevano fatte, e qualcosa si vede ancora [quando] a volte vado a raccogliere quella specie di asparagi selvatici (urtisúi).
Dopo la guerra sono stato consigliere di Purgessimo, per la Democrazia Cristiana. Ma adesso qua sono tutti quanti [della Lega], parlano tutti di Bossi.
[...]
All'epoca della prima guerra ero piccolo, e un giorno sono venuti tanti compressori, cinque sei, guidati da dei civili. Ero là con mio fratello e mi hanno detto: «Aspettate qua, state attenti se viene il nostro comandante e venite a chiamarci», e sono andati a bere mezzo litro di vino.
Poi hanno fatto il ponte. La piana non era come adesso, non era stata bonificata: c'erano tutti appezzamenti, acquitrini, e quando veniva un temporale si vedeva acqua dappertutto perché non c'era deflusso. È stato poi Pelizzo, il sindaco che è diventato anche onorevole, a bonificare. A ricordo gli hanno anche fatto una cappella che c'è ancora là. L'acqua veniva fatta defluire fino al Madriolo, attraverso i campi.
Nei giorni della ritirata gli italiani hanno portato quattro cannoni di grosso calibro, 305: ne ho anche un proiettile a casa, vuoto. Sopra il Purgessimo c'erano i 75.
Alcuni giorni prima [della ritirata] i soldati ad un certo punto erano partiti tutti da qua. «Guarda, non si vede più nessun soldato», diceva la gente meravigliata che veniva a curiosare con i mezzi che c'erano allora, che non c'era neanche la bicicletta. Erano andati via, erano andati tutti a rinforzare le linee.
Da qua i cannoni italiani di grosso calibro sparavano in direzione di Luico e del Matajur. Gli altri hanno risposto ma hanno sbagliato tiro e tutti i proiettili sono finiti nei campi. Hanno fatto dei buchi ma non sono riusciti a prendere i nostri cannoni che erano postati vicino alla bottega di Margutti che vendeva pane (ma all'epoca era dei fratelli Busolini, uno Beppo, uno Antonio e un altro non mi ricordo).
I cannoni erano proprio in centro al paese. Sono venuti una mattina. Noi si andava a scuola: c'era un capannone, non la scuola come c'è adesso che l'hanno fatta nel '35. Eravamo in venti nella mia classe, fra bambini e bambine, in prima elementare. Noi bambini si andava un giorno a scuola e un giorno si andava a cercar carrube (sa che i soldati mangiano carrube), si andava a cercar pagnotte. Poi c'era la cavalleria, i cavalli, c'era un sacco di gente e noi eravamo curiosi di vedere. [...]
In quella casa di Margutti detto Cencic – sono slavi venuti da Montefosca, mi pare – là, in quella zona, avevano fatto un poligono. Tante baracche. Hanno chiamato le donne per portare la polvere, mi pare che poi abbiano anche scioperato. O Dio, ma tante cose non me le ricordo. Facevano dei sacchetti. C'erano tante stoffe e le donne facevano dei sacchetti per mettere questa polvere da sparo per i cannoni. La pallottola poi aveva dentro come delle piastrine, come fossero delle caramelle.
Insomma noi ragazzi si andava a vedere.
Nel 1917 è stata un'annata un pochino scabra [magra] perché c'è stata la siccità, e qua nel Friuli se non piove un mese addio granoturco.
Io e mio fratello si andava a prendere acqua là, dove c'è una sorgiva che noi chiamavamo di Bachetti e adesso chiamano della Madonnina, perché c'è una cappellina dietro quella catasta di legna e adesso ci vanno anche tanti ragazzi a drogarsi e lasciano le siringhe per terra; un'altra sorgiva è la vicina e si chiamava di Quain, è un soprannome locale, poi c'e n'era un'altra ancora. Erano due tre fontane, sorgenti, e le si chiamava come la prima, la seconda, la terza... Poi c'era anche un acquedotto [militare]. Mi ricordo quando hanno portato la tubatura, ma noi l'acqua non l'abbiamo mai bevuta perché la portavano fino a Pavia [di UD].
Dietro la fontana di Bachetti i soldati avevano fatto una buca dove portavano ad abbeverare i cavalli, altrimenti avrebbero dovuto andare sul Natisone. Là c'erano questi depositi di polvere da sparo e qualche giorno prima della ritirata il deposito ha preso fuoco, non so se per una sigaretta o per quale altro motivo.
Quando c'è stata la battaglia [di Caporetto] la gente scappava. Venivano da Castelmonte e da tutte le parti, da Tribil, da tutti quei paesetti e quando arrivavano qua gridavano «scappate, scappate».
Certuni dicevano: «Io non scappo, saranno mica demoni! saranno mica bestie!»
Difatti mio padre e mio fratello sono restati qua, mentre mia mamma con sei di noi altri, tutti bambini – il più grande aveva 14 anni io ne avevo sette – siamo andati via. [...]
Siamo venuti via, abbiamo caricato; mi ricordo che io non trovavo una scarpa, uno zoccolo e così sono scappato con un solo zoccolo ai piedi tic, tac, tic, tac ... abbiamo caricato un camion.
I soldati sono venuti giù, hanno lasciato tutto abbandonato, però sono riusciti a tirare giù i cannoni: mi ricordo che quei cannoni li avevano portati su con i cavalli, ma poi non so come li abbiano portati giù.
Da Purgessimo c'era anche un telefono che andava al corpo d'Armata che era a Spessa o a Corno di Rosazzo, mi pare. Poi c'era un comando di divisione anche in Carraria, qua vicino nella villa di un signore, che noi si chiamava l'Umanitaria (più tardi, al tempo del fascio).
I soldati che venivano giù ci hanno detto «scappiamo». C'era un camion vuoto e vi siamo saliti in quattro cinque famiglie su un unico camion. Mi ricordo che vi era montata una vecchia. Piangeva e teneva in braccio un bambino piccolo di tre anni e mi diceva «stai vicino a me, tieniti alle gonne».
Non siamo andati a Udine direttamente per Moimacco, ma dapprima verso Manzano.
Io non avevo mai visto le lampadine ... vedere una lampadina rossa, una lampadina verde.
La gente veniva dall'alto Friuli, da Gemona. Tutti quanti sapevano. Spingi, spingi.
Ci siamo fermati alla stazione di Udine. Prima ci hanno mandati in prefettura da dove ci hanno detto: «Andate alla stazione, ci sono gli ordini di andare alla stazione.»
C'erano i carabinieri, confusione, scuro. C'era solo qualche lampadina rossa. La gente spingeva, mi sono perso. Mia mamma! piangeva, «dov'è il mio bambino?»
Mi ricordo l'indomani mattina m'ha ritrovato e m'ha fatto sedere sul treno e là sono stato senza mangiare, fino a Bologna.
Nelle stazioni venivano sempre le crocerossine. Davano una scatoletta di carne, o una pagnotta, o qualcosa da bere.
Ma quanta confusione, quanti profughi!
Siamo andati fino a Sessa Aurunca. Mi ricordo che siamo passati per Roma che pioveva e pioveva e in questo vagone, che era stato un pochettino in abbandono, pioveva anche dentro.
Due miei fratelli sono andati dove si appoggiano le valigie e dormivano là. Insomma siamo arrivati fin laggiù.
A Sessa Aurunca si andava a scuola. Noialtri, poiché parlavamo in friulano, la gente ci era un pochettino avversa, ci dicevano «tedeschi».
Eravamo in un castello, e due anni fa sono tornato da quelle parti anche se non sono andato proprio in quel castello.
Era la diocesi più piccola del mondo. [...]
Il Castello era nel centro del paese. Là c'erano le scuole, proprio sul cucuzzolo: c'era una scalinata e si andava su.
Noi però si dormiva dabbasso, in un convento di frati. Sotto c'era anche una centrale elettrica che funzionava non con la dinamo ma scaldando l'acqua, come con una locomotiva. Ottenevano la corrente elettrica con cui facevano illuminare il paese fino a mezzanotte. Era un paese vecchio, con viuzze così.
In questo convento ci avevano preparato bene da dormire, per ogni famiglia, e quando siamo arrivati ci avevano preparato anche un pranzo. Sono venuti a prenderci coi camion a Sparanise, e poi ci hanno fatto una bella festa in una chiesetta antica sconsacrata.
Io riuscivo a capire la loro lingua u napoletano, e anche adesso ... quando qua da noi sentivo i soldati napoletani che parlano con quella enfasi, con quella maniera di esprimersi, mi piaceva sentirli parlare. Il romano no, mi è antipatico, perché non parlano neanche con le labbra, non è vero?
Mi ricordo che si andava a scuola e il mio compagno di banco mi portava sempre una mela.
Un giorno siamo andati a fare una passeggiata col maestro. Eravamo in 28-30 in classe, in seconda elementare, e il maestro aveva detto: «Portate qualcosa da mangiare anche ai profughi», e tutti portavano qualcosa, chi una mela, chi un po' di pane.
Mia madre mi svegliava alla mattina quando dovevo andare a scuola e prima mi diceva: «Vai a prendere il pane». Bisognava andare sul cucuzzolo di questo paese, su per gli scalini. Appena arrivavi là c'era il vigile che ci conosceva e diceva: «Avanti, prima i profughi». Allora c'era sempre qualcuno che protestava: «Accidenti ai profughi, è colpa loro se ci hanno messo la tessera sul pane», come fosse colpa nostra quando in realtà era una cosa nazionale. Dopo portavo a casa il pane e si mangiava quello che c'era.
Comunque non è che si abbia patito la fame, ci si arrangiava.
Eravamo in diversi del nostro paese, tutte famiglie del paese. Eravamo andati giù con i camion e volevamo stare tutti assieme.
Siamo stati là fino in febbraio-marzo del 1918 quando ci hanno detto che chi voleva lavorare, guadagnarsi qualcosa ... perché con il sussidio noi prendevamo una lira e i vecchi due, come si fa a mangiare, vestirsi, con così pochi soldi? ... ci hanno detto che se volevamo lavorare potevamo andare in Lombardia.
Siamo andati a Rezzato, in provincia di Brescia. Il paese è sotto una montagna, ma la ferrovia passa tanto in giù.
Noi bambini si andava a scuola, ma io non sono stato promosso perché sono arrivato in ritardo. Dopo mi è venuta anche la spagnola.
Andavo anche a risponder messa e il prete mi dava una scodella di caffelatte, mi voleva anche bene.
La spagnola per me è consistita in un po' di mal di testa e vomito. Mia mamma a tutti quanti ci ha messo nel letto, ci ha portato del brulè, un po' di vino. Chi andava a badare che il ragazzo non deve bere? e io mi sono poi alzato. Ho visto invece morire un altro ragazzo, che stava davanti a casa mia, figlio unico con il padre al fronte, c'erano la nonna e la mamma con lui. Il ragazzo si è ammalato ed è morto, in due giorni.
Della nostra famiglia non è morto nessuno, anzi, dicevano in paese: «Guarda, i profughi hanno portato il male! di loro non muore nessuno.»
[C'era sempre un po' di diffidenza], come adesso che sono qua i bosgnacchi, oppure i croati, i sloveni, che ancora sussiste una politica di odio e di rancore, che non vogliono pagare i debiti di guerra, le foibe. Potevano ben pensarci prima, ma hanno aspettato che morisse Tito, per risolvere, ma non si risolve più.
A Rezzato, i nostri paesani hanno fatto sapere che volevano mangiare polenta. Il comune ci ha portato una "caldaia" di rame: si comprava la farina e si faceva polenta col radicchio, polenta e salame. Si mangiava con le mani o col pirü come dicevano i lombardi.
A Sessa Aurunca gli abitanti del paese non mangiavano polenta, erano tutti pecorai.
Sono stato poco tempo fa in quel paese, con mio cognato. Il paese è sotto e io gli ho detto andiamo a veder sopra. Ma poi lui non aveva tempo perché voleva tornare a casa in serata.
A Rezzato i grandi li mandavano in una fabbrica di birra che c'è prima di arrivare a Brescia, una di quelle rinomate, e questi ragazzi che avevano finito la quinta elementare andavano a lavorare, per due lire al giorno.

Nastro 1996/3 - Lato B

Di Sessa Aurunca nel complesso il ricordo è positivo. Era buona gente ... poi c'è sempre l'ostile. Hanno detto quelle donne, anche un prete ha detto: «Potevate stare nei vostri paesi.»
A Sessa Aurunca eravamo in sei famiglie di Purgessimo, quelli che erano stati caricati sul camion, sull'unico camion. Eravamo sempre stati assieme. Erano i camion 15 Ter della Fiat, con le gomme piene. Era un camion grande, ci stavano tante persone.
Dopo la guerra 15-18, nella guerra successiva, io ero soldato a Sassari e li avevamo ancora in dotazione nella nostra compagnia.
[Nel camion 15 Ter] ci eravamo stati stretti stretti, in piedi. Arrangiarsi.
Non ci siamo portati via niente da casa. solo un po' di roba da vestire. Qualcuno è riuscito a portarsi un paio di lenzuola, un ricambio di biancheria, un po' di soldi o qualche ricordo caro.
A Rezzato, c'era con noi il marito di una sorella di mia madre, ed eravamo solo in nove. C'era un ragazzo che era andato a lavorare in una fattoria, là a Rezzato.
[...]
Siamo ritornati a casa nel mese di marzo del 1919, e in una casa qua nel centro del paese c'erano una trentina di prigionieri austriaci e ungheresi, tutti insieme.
Ai prigionieri hanno fatto esumare i soldati italiani che erano morti sulla collina durante la ritirata: erano 11 casse.
Durante la ritirata [i soldati italiani] erano arrivati non da Stupizza, ma attraverso le montagne [...] i nostri non sapevano neanche le strade.
Me l'ha raccontato mio padre che aveva voluto rimanere in paese, cosa è successo quella volta. A tutte quelle baracche gli italiani in fuga hanno dato fuoco, mio padre è andato là e ha portato via quattro lamiere che abbiamo ancora.
C'era un lanciafiamme, e c'era anche una scuola di lanciafiamme qua a Purgessimo; mi ricordo che si era ragazzi e si andava a vedere.
Mio padre diceva che i soldati sono venuti giù... Un italiano è stato colpito. È rimasto là a terra per due giorni e chiamava «aiuto!», ma nessuno aveva coraggio di andarlo a prendere, per paura che ci fosse una spia o qualcuno di guardia e così è morto. Gli hanno messo una croce, che c'era ancora là nel '19. L'hanno sotterrato proprio là, dove c'è quella catasta di legna vicino alla fontana della Madonna.
Lassù sulla montagna invece erano in undici, i morti. Erano su per la montagna, si vedeva la croce. Quando li hanno raccolti li hanno portati un po' nel cimitero di Cividale e un po' in quello di Udine.
A mio padre i tedeschi che stavano scendendo dietro alla gran massa degli italiani hanno chiesto:
«Dove sono gli italiani? Dove sono?»
«Eh, sono giù di là», indicando Cividale, e l'hanno lasciato andare.
Mio padre, Antonio, era del '62 del secolo scorso.
Mio padre aveva voluto restare a casa assieme al figlio (Antonio anche quello, classe 1904). Ha seguito per un po' la gran massa che scappava ma poi è tornato subito indietro, perché aveva le mucche, a casa.
C'era una croce [sepoltura] anche giù di qua, appena fuori del paese, poi ce n'erano altre due [...] sulla strada.
Dice mio padre che ha visto la truppa austriaca venire avanti: è venuto giù anche il comandante a cavallo e c'era un soldato italiano davanti a loro che correva e correva, ma a Cividale avevano fatto saltare mezzo ponte. Il soldato non riusciva a passare, ogni tanto veniva fuori per vedere se riusciva a trovare la strada per passare ... e in quello un tedesco gli ha mirato e lo ha fatto fuori. L'ufficiale ha estratto la pistola e ha ammazzato il soldato che aveva ucciso l'italiano.
[...]
Durante l'anno di occupazione, a Cividale c'era un monsignore decano, si chiamava Liva e lui sapeva il tedesco. È venuto come a patrocinare gli interessi dei parrocchiani, a dirimere le questioni, anche le ruberie, perché c'erano anche dei borghesi che andavano nella casa del confinante.
Mio padre che aveva un dieci dodici pezzi tra pentole e rami vari, li ha sotterrati, perché il rame era ricercato per le spolette delle bombe. Ma andavano a vedere dove la terra era mossa: erano i borghesi, i friulani stessi, gente del paese. Se non era di questo paese era di un paese vicino, oppure era gente che era scappata, disertori, gente che si nascondeva e che si metteva in combutta con questi civili perché avevano bisogno di soldi.
Mo padre aveva una mucca e ha sempre fatto il vitello. Faceva 24 litri di latte quando era fresca di parto, per due-tre mesi; dopo ne faceva dieci, undici. L'ha tenuta per tanti anni che era venuta tanto vecchia questa bestia. L'ha presa e l'ha portata dove ci sono quelle rocce là, sulla montagna, ma erano quelli del paese, che venivano a vedere e ti facevano la spia e [volevano soldi] «altrimenti ti denuncio.»
C'erano delle commissioni per la distribuzione, come poi al tempo dei partigiani, e se c'era qualcuno che aveva odio contro di te ... senza sapere perché e per cosa ti ammazzavano.
La gente dava un milione di corone per avere un litro di latte. Erano soldi grandi come fazzoletti. Mio padre un giorno ha detto «ma cosa vuoi fare di queste qua», ha preso le corone e le ha buttate sul fuoco. Tutti si sono scandalizzati: «Oh, Antonio "soci" - che vuol dire cieco, il soprannome - Antonio ha bruciato i soldi, che ricco che è». Ma poi quando era andato a fare il cambio non gli hanno dato niente. Vai, vai, gli hanno detto.
È venuto su uno giovane, un disertore che non era riuscito a passare il Piave. Con lui erano altri due e sono rimasti nascosti a casa. Mio padre li guardava e appena finita la guerra sono tornati a casa. Uno era di San Donà di Piave, giù di là. Io non li ho visti, perché quando sono tornato da profugo erano già partiti. C'erano delle spie, gente invidiosa [...] e sono venuti i soldati tedeschi con la baionetta in canna a cercarli, ma mai sono stati scoperti.
Degli altri due disertori, uno era originario di Mantova, proveniva da un ospedale militare perché aveva preso la sifilide e poi è morto.
Dicono poi, così raccontavano i vecchi, che c'era un comando di divisione che aveva la cassaforte, durante la ritirata. Da quella casa che si vede là davanti, sulla collina, sono venuti giù con il mulo portando la cassaforte del reggimento. Ora è un'osteria, da Mosolo; la chiamavano l'osteria a Mezzastrada, nei pellegrinaggi per Castelmonte. Là si dice che gli italiani abbiano lasciato la cassaforte. L'hanno sotterrata con l'accordo che quando sarebbero tornati avrebbero diviso il capitale, perché la chiave l'avevano portata via con sé i militari. Sono tornati poi i militari, ma dov'era la cassaforte? Quello dell'osteria gli ha detto: «Io non vi conosco, io non so niente». Da quella volta l'osteria ha cominciato a marciare bene, la casa è stata aggiustata, hanno messo a posto bene il tutto, e la gente di queste cose si è accorta...
Il paese di Purgessimo non è stato né bombardato né rovinato; aveva preso fuoco appena qualcosa... Quando da Luico sparavano di qua, tutti i proiettili sono andati nel terreno paludoso, c'erano un mucchio di buche.
Durante l'anno dell'occupazione c'era molta miseria. Morire di fame no, ma miseria sì. [...]
Quando siamo tornati, nel 1919 al mese di marzo, non siamo neanche andati a scuola perché avevano bombardato la scuola perché là dentro ci avevano messo un magazzino di bombe. Nel resto del paese era solo stato bruciato qualche fienile.
Questo monsignor Liva aveva la funzione di paciere. Più di una volta a mio padre diceva: «Se non porti il latte all'ospedale ti denuncio alle autorità tedesche, ti faccio mettere nel concentramento». Mio padre gli rispondeva: «Ma se non ne ho». Perché la mucca fa latte quei tre quattro mesi ma dopo non ne fa più, eh! E se fa un litro di latte dobbiamo pur mangiare anche noi. [...]
Ognuno cercava di arrangiarsi. Vicino a noi un uomo aveva undici mucche. Ognuno che veniva, tagliava la catena e si portava via la mucca. Non era tanto il tedesco che rubava, ma la gente del luogo che poi ti vendeva la carne al mercato nero, come è stato anche in questa guerra qua.
In quei giorni della ritirata di Caporetto è stata una baraonda, saranno restate qua in paese neppure ottanta persone, su duecento scarsi che erano. [...]
C'erano tante di quelle armi! Dio quante armi che c'erano! Munizioni da tutte le parti. In un posto poi le hanno fatte saltare, nel 20-21. Noialtri ragazzi si andava a vedere, le si trovava lungo i fossi, si avvisava la maestra e la maestra avvisava i carabinieri. C'erano quelle bombe con il manico che chiamavano "le signorine", oppure quelle altre che chiamavano "sipe". [...]
Il parroco di Purgessimo era scappato [...] Tanti qua del paese sono scappati anche con i buoi. Caricavano sul carro il maiale, e dicevano che poi per strada lo avrebbero ammazzato.
All'inizio in paese e dappertutto c'è stato un gran spreco e poi, dopo la prima fase, sono venute le truppe di stanza che non trovavano più niente ed erano inferociti.
Mi raccontava un vecchio che abitava nel mio cortile che il 1917 era stata una buona annata di vino. Non era Tocai o Verduzzo, quella volta. Era Malvasia, vino americano, ma allora bastava far vino, nero o bianco che fosse. Sono venuti giù i tedeschi e tam, tam, tam nelle botti: fuori il vino a volontà. Dapprima facevano bere il padrone, e diceva questo vecchio che in cantina c'era vino per terra alto fino al ginocchio.
Qualcuno aveva il maiale che ormai era quasi pronto. Mio zio che aveva il porcile proprio a portata di mano, là sulla porta di casa, si è visto tirar fuori il maiale e squartarlo. Lo facevano cuocere, mangiavano e bevevano e poi molti morivano, perché anche per loro erano mesi che stentavano in linea, lassù. Dopo davano la colpa ai paesani e volevano bruciare il paese...
Quando abbiamo dovuto scappare [...] qualcuno ha detto di essere andato fino a Manzano, qualcuno un pochino più in giù fino a Basagliapenta, Codroipo, ma poi sono tornati a casa con le pive nel sacco, senza riuscire a passare il Tagliamento.
[...] In principio, appena dichiarato guerra, ce n'era della roba! [...] A Sanguarzo c'era una fila di forni e facevano pane per tutti, ma montagne di pane.

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