sabato 9 ottobre 2010

Renato Schioppalalba, Varago TV

Nato il 6 febbraio 1903

Nastro 1994/1 - Lato A                                     Giovedì 3 marzo 1994


Renato Schioppalalba, Varago di Maserada, 1903
Sono nato nel "palazzo" [villa veneta] che si vede dietro la chiesa e che in questi giorni stanno restaurando. I miei antenati erano signori da Venezia, proprietari di quel palazzo e di 160 campi di terra in paese. Inoltre avevano un negozio di pellicceria a Venezia. Un fratello di mio bisnonno era un canonico che è stato seppellito nella chiesa di Santa Maria del Giglio a Venezia.
Mio padre si chiamava Elia e mia madre Tersilia Pianca, rispettivamente nati nel 1872 e nel 1881. Hanno avuto cinque maschi e una femmina.
[...]
Sono andato a imparare il mestiere di fabbro a 13 anni nel 1916, a Vascon, da Cuzzato. Era un vecchio che aveva i figli soldati. Aveva una botteghetta da fabbro, prima dei portici.
Sono rimasto là un pochino e poi sono andato a Spresiano a fare il maniscalco in una bottega mandata avanti da due ragazzi perché il padre era morto da poco; il più vecchio dei due era del 1900. Mettevamo i ferri ai cavalli e le ciape [appositi ferri] ai piedi dei buoi.
All'epoca di Caporetto lavoravo a Spresiano. 
La bottega di maniscalco era proprio in centro, un poco prima di dove hanno poi costruito il monumento, lungo la strada statale. Ricordo che lungo la strada c'erano tutti paracarri a intervalli regolari. A fianco della chiesa di Spresiano c'era inoltre un portego che passava sopra la strada, da un lato all'altro. Sopra c'erano delle abitazioni, di cui era proprietario o un Mingotto o un Beltrame (non ricordo). In paese lo chiamavano "el portego de Bressan" e sotto al portico c'era uno stallo per i cavalli. L'osteria di Beltrame era più indietro, prima del monumento, dove c'è l'osteria anche adesso.
Sotto il portico si fermavano i cavalli. Avevano la possibilità di mangiare l'avena sulle mangiatoie e anche si riparavano se pioveva. Lo stallo era di proprietà di Bressan.
La nostra bottega da maniscalco era proprio piccola, 'na botegheta: sarà stata tre metri per tre. Oltre alla nostra bottega in paese c'era un altro maniscalco.
Io ho sempre avuto passione di fare il fabbro e per le macchine, fin da piccolo. Ricordo che quando venivano in paese le macchine da battere frumento, quelle a vapore ... "mi iera mato pa e machine". Mio padre voleva farmi studiare, o ingegnere o dottore, ma io niente, avevo passione per le macchine.
Mio padre faceva il tessitore, come i fratelli Monti. Lavorava in proprio, a casa sua e ha lavorato fino all'epoca di Caporetto. Faceva la tela: tela da braghe, tela da camice. Aveva un unico telaio. Faceva la tela e poi la vendeva a metri. Lavorava soprattutto il cotone, che andava a comperare a Treviso.
Ritirata di Caporetto
Ricordo tutto questo via vai di gente che vedevo dalla nostra botteghetta. Profughi che scendevano con i carri e i buoi, con i cavalli. Venivano giù dal Friuli, perché i tedeschi venivano avanti e loro scappavano. Tutta una processione di gente. Soldati con i camion. Chi andava, chi veniva, un'enorme confusione. Finché l'ultima sera che siamo rimasti in paese abbiamo iniziato a sentire le sciopetae qua sul Piave.
Così mio padre ha preso la decisione: «Fagoti e via!»
Abbiamo fatto fagotti. Eravamo cinque fratelli e io era il primogenito. [...] Siamo partiti a piedi portandoci dietro quel po' di roba che si poteva prendere. 
Avevo messo i viveri dentro a un sacco legato sopra e legato sotto in modo da poterlo mettere in spalla a mo' di zaino. Dentro ci ho messo del pane, dei salami, vino, formaggio, farina da fare la polenta, fagioli, cipolle ... quello che c'era.
Mio padre su un altro sacco più grande aveva messo dentro le pignatte, i mestoli, i cucchiai, i coltelli.
Nel palazzo di famiglia sono rimasti il fratello e la sorella di mio padre (Bepi e Maria), che erano da sposare. Sono rimasti "par tendarghe [vigilare] a so roba". E vi sono rimasti per tutta la guerra. Non gli è successo niente anche se il palazzo è stato colpito da dodici granate (ma è rimasto in piedi).
Dentro al palazzo si è messo il comando di presidio e gli zii si sono stabiliti in una loro casetta adiacente. La scritta "comando di presidio" è rimasta impressa ancora per anni sulla facciata, sopra la porta centrale.
Avevamo tutti un sacco in spalla, un saco par omo
Mia mamma aveva in braccio mio fratello Bepi; mia sorella che era piccola aveva solo un fagotèl, una roba piccola. Ognuno secondo le sue possibilità. Tutti a piedi, senza carri.
Siamo partiti da casa nostra di sera, noi cinque fratelli con il papà e la mamma; siamo partiti per andar a prendere il treno a Treviso. Era sul tardi, circa le otto della sera. Niente dormire, camminare a piedi nel buio, colonne di militari che scendevano e che salivano.
Quando siamo arrivati a Lancenigo – dove ora c'è la pizzeria e all'epoca c'era una fornace (fornace Bettiol) – abbiamo trovato una colonna di militari con i camion 18 BL che risalivano la strada verso il Piave.
Mio padre ci chiamava sempre per nome, perché era buio e aveva paura di perderci. C'era un'enorme confusione, movimento di soldati e di profughi; ci tenevamo per mano, con i sacchi in spalla.
Sulla colonna di militari che risalivano si trovava quella sera anche il proprietario dello stabilimento Monti, che era il figlioccio di mio padre: si chiamava Bruno Monti, e quando ha sentito mio padre chiamarci ha chiamato a sua volta: «Sàntolo! Aristide!»
Ci ha chiamato e ha chiesto a mio padre:
«Santolo, dove andate?»
«Eh – ha risposto mio padre – vuoi che restassimo qua che si sentivano già le schioppettate? Vado via, vado via.»
Monti gli ha detto: «Spetè santolo, che chiedo al tenente se vi può portare avanti un po' con il camion, magari fino a Treviso.»
È andato a chiederlo al tenente ma è ritornato dopo poco dicendo che no, non era proprio possibile, perché c'erano molti blocchi, uno a Lancenigo, uno al capitello di Sant' Artemio...
Abbiamo continuato a piedi. Abbiamo camminato per tutta la notte; piano, perché c'erano dei bambini piccoli. Alle prime luci del mattino, verso le sei, siamo arrivati alla stazione di Treviso, senza aver dormito niente. 
Non pioveva, era una notte nuvolosa.
Le strade erano piene, c'era confusione. La strada non era asfaltata.
Nessuno era passato ad avvisarci e a farci partire. Siamo partiti per iniziativa di mio padre. Il prete è rimasto in paese.
Mio padre originariamente era intenzionato di dirigersi all'isola d'Elba, perché aveva conosciuto in paese un militare che gli aveva detto di andare a casa sua, all'Elba, dove ci sarebbe stato solo suo padre e sua madre che li avrebbero di sicuro accettati in casa.
Arrivati alla stazione di Treviso c'erano le crocerossine che distribuivano generi di conforto. Ci hanno dato del caffelatte e dei biscotti. C'erano anche delle suore.
Verso le otto ci hanno imbarcati in un treno e siamo partiti con quelle vaporiere di una volta, ciuf ciuf ciuf ciuf, e avanti fino a Bologna, dove siamo arrivati alla sera. Dalle 8 della mattina alle 8 della sera.
A Bologna ci hanno mandato in sala d'aspetto. Anche là c'erano delle crocerossine che ci hanno dato caffelatte e biscotti.
Siamo rimasti a Bologna per la notte. Al mattino ci hanno caricati su un treno e ci hanno detto che si doveva andare a Pistoia, dove forse c'era posto per i profughi.
Siamo arrivati a Pistoia verso le 10 e siamo stati fermi alla stazione, in treno. Poi sono venuti a dirci che posto non ce n'era, e bisognava andare a Pescia.
Metti in moto ancora il treno e andiamo a Pescia. A Pescia ci tengono fermi un'altra ora e neanche là c'era posto; bisognava andare a Montecatini.
Intanto si era fatto il primo pomeriggio e finalmente siamo arrivati a Montecatini dove abbiamo trovato posto.
Ci hanno sistemati da un'affittacamere. [...] Eravamo su due stanze e una cucina fuori della casa, di là del cortiletto, su un'altro edificio.
L'affittacamere era una donna anziana, con una nipote, non del tutto apposto con la testa.
Siamo rimasti a Montecatini fino alla fine della guerra.
Ci trovavamo bene e poi andavamo anche a lavorare.
All'inizio ci passavano 250 grammi di pane al dì a testa, con la tessera; e anche il riso e la pasta, ma tutto con la tessera.
Ci davano un sussidio di una lira e 50 a testa e due lire al capofamiglia.
Certo che duecentocinquanta grammi di pane noi lo mangiavamo già prima de far marenda [prima colazione]. Allora io e mio fratello Aristide andavamo per la campagna con il sacco. Mio padre ci aveva dato dieci lire d'argento per comperare la farina. Noi chiedevano ai contadini se avevano un po' di farina da vendere e questi contadini rispondevano: «Oh bimbo mio non ce n'abbiamo manco per noi! Il governo ci ha sequestrato tutto, ma se ne volete una brancata.» Avevamo un sacchetto per la farina e un sacchetto per il pane e così un po' di qua un po' di là alla sera venivamo a casa con i sacchetti pieni di roba e tutta la famiglia poteva mangiare.
E soldi non ne volevano.
Tutti i profughi andavano in giro per le case in cerca di mangiare.
Per far fuoco andavamo per le pinete in cerca di pigne. I pinoli erano già usciti e le pigne cadevano per terra; si andavano a raccogliere le pigne con il sacco e con quelle si faceva fuoco. Si andava in collina, sulle montagne che circondavano Montecatini, io e i miei fratelli Ferilio e Aristide. Ci eravamo fatti prestare un carretto e con i sacchi si andava su, e in qualche maniera si faceva fuoco per una settimana. Per mangiare avevamo un focolare
Niente stufa in camera, niente gabinetto in casa ma fuori.
Poi siamo andati a lavorare, io e mio padre, in un'officina in cui si producevano granate. Officina che era venuta profuga anche lei a Montecatini, da Castelfranco Veneto: l'officina Rebellato, di cui era capotecnico militarizzato Menon Guglielmo da Roncade. In quest'officina lavoravano una cinquantina di persone sia maschi che femmine a turni continuati notte e giorno. 11 ore a turno più un'ora di riposo a mezzogiorno e una a mezzanotte.
Io avevo poco più di quattordici anni e mi hanno messo a lavorare al tornio (avevo già un'infarinatura da casa). Si trattava comunque di un lavoro "fisso": tirar giù il pezzo finito, mettere su quello grezzo e mettere in moto il tornio che era già programmato. Lavoravo "a contratto" [a cottimo] e sono arrivato a prendere sette lire al giorno – mi sembra che fossero circa 20 centesimi al pezzo – mentre la paga normale era sulle tre lire e mezzo al giorno. Cioè prendevo circa il doppio; ed erano bei soldi.
Mio padre l'hanno messo invece al montaggio, dove provavano le ogive e i diaframmi dentro. 
Facevamo granate da 149 e da 105 mm diametro, lunghe circa mezzo metro.
Mai nessun incidente in fabbrica e neppure scioperi o proteste.
C'erano sia uomini che donne ma le donne erano di meno. Inoltre c'erano una ventina di operai specializzati con la fascia tricolore sul braccio che coordinavano il lavoro; cioè impostavano il lavoro delle singole macchine in modo che noi non facevamo alto che prendere il pezzo grezzo e portarlo a compimento.
I militarizzati erano una specie di capi. Poi c'era il capotecnico Menon che era sopra tutti.
Nessun problema in fabbrica, di nessun genere.
Con la gente del posto mi trovavo bene, ma in fabbrica lavoravano prevalentemente profughi. Pochi erano del posto; gli operai erano profughi e militarizzati.
Montecatini anche all'epoca aveva alberghi e l'ippodromo.
I toscani ci trattavano bene, altro che qualche volta dicevano, magari ai bambini loro: «Stai zitto sennò ti faccio mangiare dal profugo!». 
Però non c'era ostilità nei nostri riguardi. Noi ne abbiamo conosciuti tanti del posto.
Recentemente – sette anni fa – sono ritornato a Montecatini. Ho rivisto la casa d'allora. Non c'è più l'affittacamere ma la casa, sia pur rinnovata, c'è ancora e si trova all'angolo di Via del Salsaro [Salsero]. In quell'occasione ho trovato l'attuale proprietario e gli ho detto che nel 1917 ero stato profugo là, e il proprietario mi ha fatto festa e mi ha invitato in casa sua.
Siamo ritornati a casa appena finita la guerra. 
Già il giorno 10 [novembre 1918] eravamo a Varago, io e mio padre, anche se non si poteva. 
Non ti davano il permesso di ritornare in quella che era la zona di guerra, ma noi siamo ritornati da "clandestini", senza permesso e senza niente. Un "franco" in tasca l'avevamo, perché da profughi eravamo riusciti a metter da parte 10.000 lire. Tutti soldi che tenevamo in casa, non in banca; tutte carte da mille, quelle grandi.
Arrivati di sera alla stazione di Mestre vi troviamo sentinelle dappertutto che ci chiedono cosa facciamo là. Con le sentinelle non si poteva pensare di uscire... Siamo rimasti un po' in sala d'aspetto e poi siamo andati un pochino in giro all'interno della stazione, fino all'una circa. All'una, me lo ricordo come fosse adesso, c'è la sentinella seduta là con il fucile sulle ginocchia, che dormiva. Abbiamo provato a fare un po' di rumore e il soldato non si muoveva. Mio padre ha detto: «Proviamo ad andar fuori». E pian piano, pian piano ce l'abbiamo fatta ad uscire dalla stazione.
Siamo arrivati a casa a piedi. Dall'una di notte alle undici e mezzo del mattino. Lungo la strada c'erano camion di soldati, ma non ci hanno fermato.
Quando siamo arrivati a casa nessuno ci aspettava. Abbiamo trovato i fratelli del papà che - sorpresi - ci hanno chiesto: «Qua siete voi? come mai ?»
Poi io sono rimasto a casa, mentre mio papà è ritornato a Montecatini.
A Montecatini eravamo venuti a sapere subito di questo armistizio.
La notizia si era diffusa subito e non si è andati più a lavorare in officina. Tutti fuori a far festa, una festa che non so. Tutti in piazza con le bandiere a sigàr [urlare] che la guerra è finita.
Quando sono arrivato nei miei campi a Varago, proprio dove c'era un filare di viti ci saranno stati due quintali di cartucce, baionette e munizioni varie. Perché nei nostri campi, oltre ad esserci il comando nel palazzo, c'era un accampamento di militari con le tende. E proprio a cinquecento metri dal centro del paese, sulla nostra proprietà, c'erano quattro piazzole di cannoni da 149, lo stesso tipo di granate che facevamo noi.
Tutte le siepi di acacie erano sparite. I soldati avevano tagliato tutto. Secondo me era per facilitare il transito delle truppe che dovevano passare dappertutto. Però a ben pensarci le viti erano rimaste in piedi. Allora forse le siepi erano state tagliate per far legna da fuoco...
A casa nostra, nella stalla, aveva trovato alloggio la Settima compagnia inglese dei pontieri, quella a cui è stato dedicato il monumento di Salettuol. Quando noi siamo tornati gli inglesi erano già partiti perché erano andati a fare il ponte sul Piave e ci hanno rimesso le penne quasi tutti, tanto che gli hanno fatto il monumento. Ed erano partiti proprio da casa nostra, dove avevano dormito sulla tèda [deposito di fieno sopra la stalla].
La nostra campagna era tutta devastata perché vi avevano camminato sopra con i camion, con i trattori, con i cannoni. La nostra terra in linea d'aria è distante circa due chilometri dal Piave, ma non c'erano trincee e non c'erano neppure morti.
Ma ne ho visti di morti, sul Piave. Perché sono andato subito sul Piave – dalla parte dei tedeschi sulla sinistra – e sono passato sulla passerella a Salettuol (ma ce n'erano diverse di passerelle). Vi sono andato assieme ai miei amici, a quelli che non erano andati via, perché in tanti erano rimasti a Varago, anche ragazzini della mia età o più giovani.
Siamo andati subito a vedere e ricordo un ricovero. Era stato sfondato perché vi era caduta una granata che aveva forato i travi di acacia, sopra i quali era stata distesa della terra. Dentro là ho visto tre morti tedeschi che erano ancora là dopo una settimana.
La campagna un po' alla volta l'hanno messa a posto mio zio e mia zia che erano senza figli e che lavoravano sette campi di terra [...].

Nastro 1994/1 - Lato B  fino 19:37 [su cassetta]  venerdì 4 marzo 1994 

[...]
00:45 Monti, quello della tessitura, era anche lui come mio padre un piccolo tessitore di paese. Erano alcuni fratelli ma due in particolare facevano quel mestiere: Venerio ed Evaristo, mentre Bruno, che era figlioccio di mio padre faceva il falegname. I due tessitori avevano un telaio ciascuno e inoltre avevano altri telai per alcuni dipendenti. Tre di questi telai erano meccanici, e non essendoci la corrente li facevano andare con il motore a scoppio. Pon pon pon pon pon, si sentiva il rumore.
Erano partiti dal nulla e hanno trovato l'articolo giusto.
Prima della [grande] guerra facevano la tela, perché i contadini della zona coltivavano la canapa e il lino. Lo lavoravano in casa, in famiglia – lo filavano – e poi lo davano ai tessitori che preparavano la tela che serviva per le braghe, le giacche, uso familiare e consumo locale.
*
03:06 Le munizioni che ho visto appena arrivato a casa sono state raccolte poco dopo da una squadra di soldati che è venuta a pulire tutto, anche le bombe.
Io poi sono andato a lavorare con le cooperative che erano sorte per la ricostruzione, bianche e rosse. Sono andato a lavorare come fabbro per una cooperativa e facevo canevassi [catenacci] per le porte, bartoèi [cerniere] per i balconi, ecc. Era una cooperativa rossa di cui non ricordo il nome, sorta ad opera di piccoli impresari della zona. Era di Maserada, ma non ricordo con precisone, perché non vi sono rimasto molto parché no i pagava mia, i iera tuti deinquenti. Facevano lavorare e poi non pagavano.
04:49 Sono andato via e ho impiantato una bottega di fabbro a casa mia. Avevo 19 anni [...] e mio fratello dell'11, Ferilio, mi faceva da garzone. Lavoravo lo stesso per le cooperative, però mi facevo pagare alla consegna della merce.
Erano tutti ladri uguali, quelli delle cooperative, tanto che Bruno Monti che faceva il falegname assieme allo zio Renato, fratello di mia mamma, si è messo in società con una grossa falegnameria per costruire i serramenti delle case. Questa società "Monti-Pianca" è andata in fallimento, perché le cooperative non pagavano. Hanno chiuso con un deficit di 44.000 lire, di quegli anni.
06:24 Chiusa la società, Bruno Monti è entrato nello stabilimento che avevano aperto i suoi fratelli, mentre invece mio zio Giuseppe Pianca è stato sistemato dal senatore Caccianga che gli ha dato una mano ad avere l'appalto [rivendita generi di monopolio] e un'osteria. L'osteria c'è ancora a Saltore, ma ora è un bar. Là vicino c'è anche la villa di Caccianiga, che però non si vede dalla strada perché è in mezzo a un bosco. Sempre là vicino c'è anche la villa del senatore Visentini, che un tempo era anche quella proprietà di Caccianiga: infatti il senatore ha sposato una Caccianiga ed è venuto ad abitare in una di queste due ville.
08:13 Ad un certo punto le cooperative hanno finito di lavorare e a me è rimasto ben poco lavoro per i contadini: fare i carri, i cerchi per i carri, gli attrezzi di campagna. Ma i contadini soldi non ne avevano e ho dovuto chiudere bottega, perché quando era ora di andare a comperare il carbone e il ferro per fare il lavoro non avevo i soldi per farlo. Li "avanzavo" ... e ancora li avanzo!
Il fatto è che anche i contadini non avevano soldi. Aspettavano sempre quando avevano le gaete [i bozzoli], quando avevano un vitello da vendere, il frumento, il granoturco...
09:37 Sono stato costretto a smettere e nel 1921 sono andato a lavorare da Ronfini, [in via Roggia] a Treviso e vi sono rimasto finché sono venuti i fascisti che hanno spaccato tutto perché il padrone era repubblicano [...] 

13:27 Ho fatto il militare in artiglieria a Ferrara e finito il militare sono andato a lavorare da Menon a Roncade, da quello che era stato il mio capo a Montecatini. A Roncade faceva motorini, biciclette, automobili, di tutto.
Io ho cambiato specializzazione e sono andato sui motori e sulle macchine a vapore che venivano riparate là da Menon.
Da Menon ho lavorato poco più di un anno. Poi mi sono licenziato perché si trattava di fare 11 ore di lavoro al giorno e 16 km all'andata e 16 al ritorno con una bicicletta tedesca che se gli metti un motorino di quelli di oggi non riesce neppure ad andare avanti.
14:49 Ho trovato posto a Treviso nel garage di via Canova dove lavoravo sempre nelle macchine – manutenzione dei motori – e dove sono rimasto fino al 1930.
Nel 1930 sono andato a Spresiano, davanti alla stazione, come meccanico da un padrone che aveva tre macchine a noleggio e un camion a rimorchio. Il padrone si chiamava Roberto detto Bala ... il vecchio padrone era Luigi, con i figli Ciliano e Ferruccio che avevano anche osteria e ristorante.
16:05 Sono rimasto a Spresiano cinque anni finché sono partito per l'Africa orientale, dove sono stato 13 anni a l'Asmara. Ma ho girato tutto l'impero come camionista. Lavoravo per conto dei Bet di Treviso: Angelo Bet e Giuseppe, Bepi, e i suoi tre fratelli più giovani. Angelo no, lui era rimasto a Treviso.
17:00 La sede della ditta era a Decamerè, a circa 40 km dall'Asmara e là vicino c'era l'aeroporto di Gura dove si trovavano tutti gli autotrasportatori italiani.
Io sono arrivato fino a Gima, al lago Tana, a Gondar. Trasportavo tutta roba dei soldati; non era difficile il lavoro.
Sono ritornato nel 1948 perché prima non si poteva rientrare: ci voleva il permesso dei signori inglesi. Ero stato prigioniero, ma sono scappato due volte dal campo di concentramento... [19:37 - fine intervista]

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