domenica 19 settembre 2010

Giovanni Geronazzo detto Fasól, Funer di Valdobbiadene (TV)

Nato il 28 aprile 1911, residente a Funer.

All'intervista sono presenti (e intervengono) anche la moglie Giuseppina Vanzin, nata nel 1915 a San Vito di Valdobbiadene e la cugina Caterina Geronazzo, nata a Funer il 6 maggio 1907.

Nastro 1994/31 - Lato B                                       23 agosto 1994

Giovanni. Siamo stati costretti ad andare in Carnia a Interneppo, vicino al lago di Cavazzo, sotto il monte Festa.
Qua, proprio davanti alla porta di casa nostra a un certo punto è arrivata una granata. Erano i nostri italiani che dal Monfenera tiravano di qua.
Nel borgo di Funer è arrivata una bomba incendiaria giusto su una casa che aveva anche il fienile, che si è incendiato, [ce l'ho ancora] giusto davanti ai miei occhi. E proprio qua, sulla nostra zona c'erano le batterie dell'artiglieria [austro-ungarica]: sette-otto pezzi che tiravano di là.
Moglie. Noi siamo andati profughi col nostro parroco Don Giovanni Tura. Abbiamo scavalcato tutte quelle montagne [...] che vede là, siamo andati fuori "sotto Fontana" e siamo stati a Pordenone. Il ricordo che ho è che andavano "a carità" per le porte, a farina. Mi hanno portato in braccio, perché avevo due anni.
E dietro al parroco tutto il paese, o meglio tutti quelli che volevano partire, perché molti sono anche rimasti qua.
Sulla nostra casa avevamo il comando tedesco e dal Grappa sparavano direttamente sul paese e sulla nostra casa, vicino alle scuole di San Vito, la casa grande che c'è sulla strada. Era proprio dal Grappa che sparavano, non dal Monfenera. Oltre al comando c'era anche la Croce Rossa. 
Dal Grappa col cannocchiale ci vedevano ogni passo che facevamo; sembra un po' come a Sarajevo che si vede alla televisione, anche se non è che a noi ci facessero proprio un massacro così.
Ora abito in via Col de Roer [lungo la strada che inizia dalla casa vinicola Mionetto].
Vicino c'è il santuario della Madonna del Caravaggio, con feste il 26 maggio e l'8 settembre.
La casa dei Geronazzo è grande, una volta c'era latteria. È un'importante famiglia agricola patriarcale.
Cugina. Ci hanno portati nel Friuli ad Alesso, sul lago di Cavazzo. Era un paese in mezzo alle montagne, niente campagna. Era difficile trovare da mangiare, ci toccava venir giù per Udine "a carità".
Sono partita [per la profuganza] assieme a Giovanni e ci hanno divisi una volta giunti a Gemona. Ci siamo decisi a partire dopo che è arrivata una granata che ha fatto quattro morti e cinque feriti. Perché le varie famigliole che stavano su per le rive sono venute tutte qua, perché gli sembrava di essere più sicure. Avevamo tutto il portico della casa pieno [di gente]. Si aveva messo un poco di fieno e si dormiva là mentre gli italiani già tiravano, finché un bel giorno è arrivata la granata, proprio qua.
Ci sono stati dei morti, e quelli sono restati qui; noi siamo andati profughi.
Le famiglie che erano venute a rifugiarsi da noi erano quelle di Franco Mattiazzo [...]. La nostra casa era, sembrava, un po' più fuori tiro.
Dopo quella granata i tedeschi ci hanno portato fino in piazza nella casa grande di Piva e da là ci hanno trasferito nei paesini su nel Friuli. Con dei camion ci hanno portato dapprima a Santa Maria di Lago dove siano rimasti per 15 giorni, dalle parti di Follina, oltre Follina. Dopo ci hanno trasportato sul Furlan e là abbiamo passato un anno rabioso.
Eravamo in venti nella nostra famiglia, prima della guerra, e di venti siamo rimasti in tredici. Due-tre morti qua, due-tre morti là; un pochi con la guerra, un pochi sotto la bomba.
Da profughi c'era tanta fame. Dei nostri nessuno è morto di fame, ma una famiglia che era là vicino ha avuto qualcuno che è morto per fame. Era la famiglia Reboli.
Gli abitanti del posto non "potevano vedere" i profughi, perché andavano a carità e loro non ne avevano che per loro. Perché erano paesetti di montagna, nascosti su di là. Allora i profughi più grandi, le donne più anziane - io ero bambina - venivano giù per Udine a carità e qualcosa portavano a casa.
Giovanni. Era ancora vivo il nonno Carlo Geronazzo, che aveva circa 80 anni. 
Sul nostro terreno i tedeschi avevano piazzato sette tiri d'artiglieria. 
Quando sono ritornato da profugo ho avuto subito voglia di andar a veder dove si erano sistemati i tedeschi. C'erano ancora le cataste di proiettili non utilizzate, quattro cinque cataste; dopo è venuto il Genio a ripulire.
Prima di farci andar via, i tedeschi ci hanno fatto andare sul Col de Roer, una montagnetta che è qua di dietro. Oltre a noi Geronazzo c'erano gli Agostinetto, i Franco e i Vettoretti. Ormai non si sapeva più che santo chiamare.
Erano stati mandati via tutti e noi eravamo fra i pochissimi ancora rimasti qua.
Io avevo tre fratelli sotto le armi, fra cui un volontario. Erano Floriano - in artiglieria - Luigi e Carlo, il volontario. Uno era sul Salarol, faceva parte del fronte del Grappa. Tutti e tre sono ritornati.
La sera prima di essere trasferiti è arrivato un bombardamento dal Grappa, e ha preso di mira proprio il Col de Roer. Là si erano sistemate, in una cantina, 15 persone circa e altre erano sistemate in edifici attorno.
Una bomba è arrivata quattro-cinque metri davanti a noi sul cortile, che era in terra nuda, e anziché scoppiare è andata sotto, facendo tutti crepi nel terreno.

Nastro 1994/32 - Lato A

Ricapitolando. Dalla nostra casa, dove abitiamo anche adesso, siamo stati obbligati dai tedeschi a trasferirci sul Col de Roer, e là siamo stati bombardati.
Mio nonno non voleva andare via a tutti i costi.
Il giorno del bombardamento era pomeriggio. Inizialmente le bombe non ci colpivano, poi è arrivata la bomba che non è esplosa e poi hanno aggiustato il tiro e io ne sentito una [partire e] arrivare. Mi dicevo "ormai mi prende", invece è andata qualche metro più avanti in modo da colpire proprio la cantina dove era ammassata la maggior parte delle persone. È andata giù per la cantina: sette morti sul colpo e vari feriti.
A quel punto i tedeschi ci hanno portato via tutti con i carretti. Anche io e mia mamma siamo saliti. Assieme a me c'erano altri due fratelli più giovani di me, due mie sorelle (Giustina e Resi) [...] in tutto compresi mio papà e mia mamma eravamo in nove.
Quando eravamo verso Follina, era un tempo incerto e a un certo punto è iniziato a nevicare. Abbiamo fatto la strada in queste condizioni senza niente, perché nella fretta non avevamo potuto prenderci su niente. 
Eravamo come quei poveri disgraziati che sono profughi là nella Jugoslavia, un fac-simile, c'è poca differenza.
Poi siamo stati portati a Gemona e da là mandati nei vari paesi. Noi a Internèppo, un paese di montagna, circondato da tre montagne grandi, con scogli di roccia e alla base c'era il lago di Cavazzo. Poco lontano, sulla punta di questo lago c'era un paese che si chiamava Sampiago [Somplago].
In primo tempo mio nonno ... per merito suo siamo riusciti a superare la crisi della guerra, perché su di là non c'era più niente. Mio nonno era riuscito a portarsi via qualcosa di soldi e con i soldi ha aiutato tutta la famiglia, sia la nostra che i cugini. In questo modo siamo riusciti a superare la crisi.
Mia madre Teresa Carraro era il centro, quella che più si dava da fare per portar fuori la fame. Lei davanti, e altri più giovani assieme a lei, si dirigeva per i paesi in cerca di qualcosa da mangiare, "a carità". Un po' di latte, un po' di farina, col sacchetto, con le dàlmede [calzature, zoccoli di legno] ai piedi. E qualche volta cercavo anch'io di andare con mia mamma.
Non è che gli abitanti del posto fossero cattivi, ma avevano poco o niente anche loro.
Quando siamo partiti da Valdobbiadene, la prima tappa dopo Follina è stata Vittorio.
Mia mamma è riuscita a tirar su un poca di legna e ha cercato di fare "un foghetto" per la polenta, ma non aveva neppure la calièra [il paiolo]. Ha chiesto agli abitanti della zona e le hanno prestato una caliera di ferro grande. Supplicando abbiamo trovato anche la farina e l'acqua ... e sul più bello che già stavamo pregustando la polenta, arriva un tedesco armato che ci ha fatto spegnere il fuoco e ci ha buttato via tutto. Si pensi come siamo rimasti noi, con la fame che avevamo.
Il viaggio da Col de Roer a Gemona, con i tedeschi, è durato giorni, in queste condizioni.
A Interneppo si è interessato il prete del paese per ricoverarci nelle varie famiglie e noi ci siamo sistemati in una casetta che dietro aveva anche un po' di orto.
Ce la siamo cavata per merito di mio nonno che si era portato via qualcosa. Non mi risulta che sia morto nessuno dei paesani, da profugo.
E quando vedo alla televisione la Jugoslavia e quell'altra guerra che c'è laggiù, in Ruanda, e mostrano questa povera gente che si trasferisce perché c'è la guerra, e li vede con qualcosa sulle spalle, ecco, un fac-simile si era noi.
Quando siamo poi ritornati a casa, era tutto sottosopra. Fortunatamente la nostra casa era un po' nascosta ai tiri del Grappa, ma non così quelle sul Col de Roer. Varie buche le abbiamo trovate anche noi, ma non tante come sul Col De Roer.
La nostra casa era stata comunque colpita, in particolare, da una grossa bomba. Inoltre erano spariti balconi e travature, ma nel complesso le murature erano ancora in piedi; una delle poche.
Al ritorno mio papà e mio zio si sono dati da fare per ripristinare la casa. Nel nostro terreno c'erano dei ricoveri dei tedeschi e in questi ricoveri c'erano molte travature di cui si sono serviti per riparare un po' alla volta le case. 
In particolare dietro la nostra casa c'era un ricovero grande, più degli altri, una vera galleria sotto la collina. Ma altre gallerie c'erano anche lungo la strada che va giù verso la campagna, per salvarsi dalle artiglierie. Si trattava di ricoveri lunghi 20-30 metri nella collina e i nostri vecchi un po' alla volta li hanno smontati recuperando le travature e il legname. Ma oltre a un certo punto non sono andati e hanno lasciato là tutto, che si chiudesse da solo all'interno. 
La nostra famiglia era grossa, aveva una distilleria di grappa. Dopo la guerra l'ha rimessa in funzione ma è durata poco, due tre anni solo, ricomprando le attrezzature.
Però più anticamente, prima ancora della guerra, sotto il bisnonno c'era anche la latteria che poi è stata chiusa. Mio nonno poi teneva le vacche in montagna d'estate, sulla Barberia, Colteron e Tendanela [?], Mariech (che adesso l'ha presa l'Ispettorato). Eravamo sempre proprietari.
Da profughi, ce la siamo cavati per merito di mio nonno che aveva dei soldi e di mia madre che ha buttato via ogni riguardo ed è andata a carità.
[...]
L'unico acquedotto che funzionava dopo la guerra era in piazza a Valdobbiadene dove c'è la banca. Là c'era l'unica fontana che ancora funzionava e tutti si andava là con le carriole, con qualsiasi mezzo, una processione a prendersi l'acqua.
Sul Col De Roer hanno fatto una tabula rasa, una specie di Montecassino.

Nastro 1994/34 - Lato A

Aggiunte e precisazioni, 15 settembre 1994

Sono sposato con Giuseppina Vanzin dal 1946. Ho avuto due figli, un maschio e una femmina.
Sono figlio di Giuseppe Geronazzo e Teresa Carraro.
Il fatto di Revine. Quando il nostro gruppo di profughi già stava pregustando la polenta ... non gli sembrava neppure vero, sul più bello arrivano due soldati tedeschi che hanno buttato tutto per terra, senza mangiarlo. Ci veniva da ammazzarli (per dire).
A Interneppo con fatica mio nonno aiutava tutti, perché per grazia di Dio si era portato via i risparmi che aveva, e quella è stata la nostra salvezza.
Fra gli abitanti di Interneppo c'erano di quelli a cui facevamo compassione e, per quello che potevano, aiutavano. Ma, poricani, avevano poco anche loro e quel poco che avevano se lo tenevano. Per fortuna avevamo il nonno: era po' come nell'ultima guerra, chi aveva soldi riusciva a trovare la roba al mercato nero.
Poi era mia mamma che aveva più coraggio ad affrontare la situazione. Partiva alla mattina per andare a carità con un sacchettino a tracolla, assieme ai figli.
Eravamo nove figli. Tre erano in guerra; profughi eravamo in tre maschi e tre femmine di cui una è morta poco dopo la guerra.
A Gemona c'era il comando dei tedeschi e là, poco lontano, aveva trovato alloggio una mia zia, Gigia: due stanzette per lei e la figlia. Io e i due fratelli una volta eravamo passati di là andando a carità e questa zia Gigetta, cugina di mia nonna, ha avuto compassione vedendoci. Ci ha detto di andare dentro e ci ha preparato, spalmandole con il coltellino, due fette di pane con la marmellata di mele che aveva in un vasetto di latta. Ci pareva di aver fatto un pranzo.
Mia zia aveva una figlia giovane e bella, non so se sia magari per quello che riusciva ad avere la marmellata dai tedeschi.
A Interneppo c'era una chiesetta e il parroco veniva una volta alla domenica a far messa e qualche volta a mio nonno ha portato farina, latte e pane.
Di fronte a Interneppo c'era il monte Festa.
Era una montagna con bosco ma anche tanti punti rocciosi e nella roccia c'era una caverna. Ogni tanto i tedeschi facevano delle perquisizioni, con i loro sibili [fischietti?] ... delle perlustrazioni, specie negli ultimi tempi prima che arrivassero gli italiani, ma non sono mai riusciti a trovare la caverna.
Mi raccontava mia mamma che nella caverna c'erano parecchi disertori italiani e le donne del posto a mezzanotte gli portavano da mangiare. I tedeschi venivano in perlustrazione anche nelle nostre stanze, ma non li hanno trovati mai.
[...]

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