lunedì 6 settembre 2010

Giovanna e Maria De Zorzi, Fener BL



Nate rispettivamente nel 1912 e 1910

Nastro 1994/19 - Lato A                                        30 maggio 1994

Il nastro inizia con una brevissima intervista al maestro Cristiano Codemo, 1912, testimone e studioso della guerra, autore di pubblicazioni in materia e direttore del museo della Grande Guerra di Alano di Piave, aperto al mattino della domenica.
Racconta che una parte degli abitanti di quei paesetti (e di Fener) riuscì a scappare di notte con il vecchio parroco lungo la ferrovia e andò profuga in Calabria.
Il maestro Codemo andò profugo a Fara di Feltre, dove suo padre morì di fame. Lui personalmente andava con una piccola gamella in giro dai tedeschi sperando che avessero un po' di compassione, e qualcosa davano, quel che potevano.
«Ero in un cortile e ogni sera, essendo piccolo e smilzo, mi alzavano e mi facevano passare per una finestrella per andar a rubare le uova delle galline»...
I tedeschi lungo la strada arrivarono fino a San Sebastiano; c'è una chiesetta. S. Sebastiano era controllata dagli italiani [...].

Inizio testimonianza delle sorelle De Zorzi.
[A parlare è quasi sempre Giovanna]

Mio padre faceva il postino e mio nonno  era ufficiale di posta [...]
All'epoca della guerra mio padre Antonio De Zorzi, 1879, era soldato a Modena dove faceva il falegname addetto agli apparecchi militari.
Mia madre si chiamava Meneghin Pierina, nata nel 1882.
Il giorno che siamo partiti, ricordo che mia mamma aveva in braccio il bambino più piccolo (aveva un anno) e passavano i bersaglieri ... quando sono passati questi bersaglieri gli hanno messo il cappello loro in testa. Stavano andando in direzione  di Treviso. Camminavano tutti in fila.
A dirci di andare dove siamo andati è stato un certo Segato.
Noi saremmo potuti andare dove sono andati tutti gli altri di Fener, a Tortoreto in Bassa Italia, invece questo Segato Giuseppe che era un maresciallo dei carabinieri ha detto: «No, no, l'é na roba de passajo» (me le diceva mia mamma, queste cose) «basta andare verso Schievenin e dopo, attraverso la montagna, si va verso Feltre».
Siamo andati a Schievenin, ma là c'erano i soldati e tiravano anche là. 
Ricordo - avevo cinque anni - che è caduta una bomba proprio davanti alla grotta dove eravamo noi. Sono andata fuori a vedere e mia mamma "noo, non andar fuori!"; tutto un fumo ho visto!
Il parroco invece è partito ed è andato giù per la Bassa Italia, a Tortoreto in Abruzzo e là se la sono passata bene, la fame non la hanno patita.
Invece noi...
Mia mamma andava a lavorare con i tedeschi a raccogliere le carote e riusciva a nascondere qualche carota dentro il risvolto della sottana, in basso. Quando arrivava a casa io andavo subito a toccarle la sottana per vedere se c'erano carote. I tedeschi le seminavano nelle campagne di Feltre.
La maggior parte del paese è andata a Tortoreto.
Anche il maresciallo Segato ha ritenuto opportuno, a un certo punto, di andare anche lui a Tortoreto con la famiglia; ma è stata una fortuna, un caso, non una sua cattiveria.
Noi invece, i miei nonni Meneghin e un'altra famiglia di Meneghin, eravamo a Prada di Schievenin, sulla montagna, in una malga assieme ai contadini. Non ricordo il nome di quella famiglia.
Da Schievenin, con il carrettone e i cavalli, i tedeschi ci hanno portato a Feltre. 
Per arrivarci c'erano due strade: una che andava con una rampa così in mezzo alla montagna e una era la strada provinciale dove passavano le macchine.
Siccome che stando lassù i nostri italiani si erano accorti che c'erano i carretti che camminavano lungo la strada hanno iniziato a sparare, e i tedeschi ci hanno fatto scendere giù tutti e abbiamo preso la scorciatoia nella montagna.
C'era con noi anche la famiglia di Onorato Menin.
A Feltre ci hanno messo in un palazzo che era tutto vuoto, in città, in piazza, insieme ad altre famiglie.
Ci siamo messi a dormire per terra e siamo rimasti là non molto tempo. Poi siamo andati in una casa a Umin di Villabruna. Là una sera è scoppiata la polveriera di Umin e ci siamo dovuti chiudere tutti in casa. Era una roba spaventosa.
Da Umin siamo andati a Sospirolo, dove siamo rimasti fino alla fine della guerra quando siamo ritornati a Fener.
Eravamo (siamo) tre fratelli: Maria, Giovanna e Giovanni (1907) che ora abita ad Asti dove era andato a lavorare, ha trovato la fidanzata ed è rimasto. Dapprima ha lavorato a Cairo Montenotte e al tempo della seconda guerra si è ferito in fabbrica così si prende l'invalidità. [...]
Quando ad Umin è scoppiata la polveriera, noi eravamo molto distanti e non ci è successo niente, è solo arrivata qualche scheggia.
In seguito siamo andati via da quel paese, ma sarebbe meglio dire "ci hanno mandati via", perché i profughi non li potevano vedere.
Una volta andavo "par carità" [a elemosinare] io e mia cugina Angelina, che ha un anno di meno di me, e siamo capitati in una famiglia che ha dato ad Angelina una scodelletta di minestra, piccola come quelle da caffè. Di minestra. 
Prima di darla anche a me la padrona mi ha detto: «Te la do, ma tu bisogna che mi dica un'Ave Maria». Mia cugina l'aveva recitata quest'Ave Maria, ma io ho detto alla padrona di no e così non mi ha dato la minestra. Per avere una scodelletta del genere io avrei dovuto dirle un'Ave Maria? Piuttosto sono rimasta senza minestra.
Ah, lascia stare. I bellunesi sono pessimi, cattivi!
Intervistatore. Forse avevano poca roba anche loro...
Giovanna. Ma che avevano la loro casa, le loro bestie, la loro roba, avevano tutto!
Mia sorella era seduta giù in una panchina e osservava i padroni di casa che mangiavano le patate, e le sbucciavano per mangiarle. Quando avevano finito di mangiarle, mia sorella è andata a raccogliere tutte le bucce, cercando di non farsi vedere. Ma i padroni l'hanno vista lo stesso e hanno detto: «Varda, varda, la magna quel che traón via noaltri!» Ci prendevano in giro, e io sono magra per natura ma mangerei tanto. Avevo sempre fame.
Per fortuna che i nostri nonni avevano dei soldi e potevano comprare in qualche maniera dello zucchero, del caffè, della grappa. Poi mia mamma e mia zia vendevano la roba e con i soldi ricavati andavano dai contadini e compravano sorgo, farina per far la polenta, fagioli, patate, roba da mangiare.
Mio nonno Andrea Meneghin ... di famiglia erano siori. Erano contadini con terra propria, andavano vendere i loro prodotti a Montebelluna. Grano e legna, perché erano padroni di bosco e montagna sulla Monfenera. Mio nonno era un contadino che se la passava discretamente, e in più facevano anche tanto vino. Facevano del vino buono, sulle rive lungo la strada. Era vino bianco, buono. Si vedono anche adesso passando lungo la strada quelle viti. Per questo aveva dei soldi, o meglio aveva i marenghi d'oro, messi da parte.
Soprattutto mia zia Corona era in gamba in questi traffici. Era scaltra, perché lei aveva l'osteria prima della guerra, e aveva anche lavorato in filanda. Magari ... parlando con le donne chiedeva dove si potesse trovare qualcosa, pagando. 
Malgrado tutto questo darsi da fare poco si mangiava lo stesso. Ne ho patita tanta!
Mangiavo i cavi delle viti, dalla fame che avevo. E ho preso anche le botte dalla mamma perché faceva male quella roba là. E poi mangiavo el pancuc [panevin, Rumex acetosa], una pianta che è dolce e si trova in mezzo all'erba. Io andavo là, mi sedevo per terra e mangiavo quello.
Tanta fame!
Si mangiavano e mòse, cioè quando si fa una polentina molla molla molla e poi la si versa sul piatto con il latte, e la si mangiava con il cucchiaio.
A Sospirolo si stava un po' meglio, ma anche là erano cattivi.[...] A Sospirolo non ti guardavano; i profughi non li potevano vedere. 
È come adesso che portano qua i negri e non li possono vedere, una roba simile, ecco.
Qua non ci sono i negri, qua da noi? Perché vogliono venire qua? Che stiano giù di là, no? Non c'è nessuno che li vuol vedere.
Quando siamo siamo tornati qua, subito dopo la fine della guerra, Fener era tutto per terra. I miei nonni laggiù alla stazione hanno fatto su come un baraccon. E là si dormiva sul fieno. 
Dopo ci hanno costruito le baracche, quassù vicino alla chiesa di San Michele.

Nastro 1994/19 - Lato B

Quando siamo tornati dalla guerra mandavano roba, pacchi, qua a Fener. Roba da a vestire, e altro, ma noi siamo proprio stati sfortunati.
Quando eravamo su di là si pativa la fame, siamo venuti giù di qua ed eravamo sempre senza niente. C'erano vestiti, c'erano lenzuola, c'era roba ... come fanno adesso che mandano via tutta questa roba per i poveri. Una volta mio padre ha detto al parroco: «Almeno dateci qualcosa anche per i nostri figli» e il parroco ci ha dato una scarpa par sòrt [spaiate].
E pensare che quelli che sono andati giù di là non hanno patito né fame, né niente. E bevevano, perché giù di là c'è vino buono. E le femene erano sempre ciòcc (ubriache). 
Noi invece non abbiamo preso niente.
Il parroco vecchio di Fener si chiamava Don Rizzardo Ferretto ed è andato a Tortoreto. 
Noi per aver ascoltato quel sapiente là siamo rimasti di qua del Piave. I Segato in un primo tempo sono rimasti di qua poi invece sono andati di là del Piave ... perché si erano portati in montagna molta roba, le bestie, ecc. Poi chissà dove è andata a finire tutta quella roba.
I tedeschi hanno ammazzato tutte le bestie e noi bambini andavamo in cerca di quello che c'è dentro alle bestie, l'intestino, el tampinàss. Ma poi lo mangiavano dei ragazzi più grandi di noi che avevano sui sedici diciassette anni ed erano sempre nascosti per paura che i tedeschi li portassero via. [...]
A Schievenin siamo rimasti abbastanza giorni, perché ricordo che quando ci hanno portato a Feltre c'era la neve per terra. Me lo ricordo perché avevo e dàlmede ai piedi, cioè come delle scarpe solo che avevano la suola di legno.
I ragazzi grandi si erano nascosti perché avevano paura che i tedeschi li portassero a far la guerra con loro. Si erano nascosti nella greppia delle bestie in stalla e si facevano mettere sopra il fieno. Ogni tanto venivano fuori, ma appena vedevano movimento di soldati tedeschi si nascondevano sotto la greppia.
Quando siamo partiti da Feltre ci siamo persi di vista con questi ragazzi perché ognuno è andato per conto suo.
A Feltre siamo rimasti nel palazzo per un po' di giorni e secondo me non ci doveva essere rimasta tanta gente, in centro a Feltre, perché lasciare i palazzi vuoti, così. Neanche i mobili c'erano, perché mi ricordo che dormivo per terra, sul legno. A Feltre vedevo solo soldati.
A Umin non ricordo di preciso come sia successo che è esplosa la polveriera. Forse qualche soldato ha sbagliato a toccare...
A Sospirolo si stava un po' meglio, ma si andava sempre "par carità". Là il ponte [sul torrente Mis] era stato fatto saltare e allora con il carretto con cui si andava par carità ... io e mia cugina portavamo su per l'altra sponda una delle due ruote, mio fratello l'altra, mia madre e mia zia il resto del carretto. 
Così ci toccava fare se volevamo portare a casa quel poco che avevamo trovato andando par carità.
Una volta i tedeschi hanno portato via mio nonno. L'hanno portarono dalle parti di Udine e gli hanno sequestrato tutta la roba che era riuscito a portarsi da casa [?].
Tanta fame, mia mamma piangeva.
«Mama, mi ó fàm.»
«E cossa te dae da magnar, che no go gnent.»
Allora via par carità. Qualcosa magari si riusciva a comprare con i marenghi, dai contadini, ma in ultima neanche con i soldi si riusciva a comprare più niente.
Anche i todeschi erano pieni di fame. Tedeschi ce n'erano dappertutto, anche a Sospirolo. La zona era tutta piena di tedeschi.
Molti sono morti di fame, cascavano per terra lungo la strada, ma non della nostra famiglia e noi li si trovava mentre andavamo par carità. Vecchi seduti là per terra, lungo la strada.
Perché noi camminavamo e si faceva tanta strada. 
Si prendeva questo carretto e sempre si spingeva, sempre con il carretto anche perché un pezzettino l'uno e un pezzetto l'altro si saliva sopra, a turno, e si faceva un po' di strada sedute sul carretto. Invece Nane, mio fratello che aveva quindici anni, camminava e me àmia [zia] e mia mamma tiravano il carretto.
Mia sorella più piccola stava a casa con sua cugina che aveva tre anni in meno e con suo cugino Andrea che aveva solo un anno e che da grande è diventato prete. Anche i nonni rimanevano a casa.
Sul carrettino si caricava farina, se si riusciva a trovarne, magari pagandola; oppure semola [crusca], che si mangiava anche quella.
Appena finita la guerra sono venute subito in paese mia madre e mia zia, assieme a mio nonno che ha costruito una specie di portico vicino alla stazione.
Dopo hanno costruito le baracche e el ministereto [Ministero delle Terre Liberate] ha ricostruito tutte le case di Fener. Era una ditta; la chiamavano el ministereto, gente che faceva le case, operai.
Tornata in paese, mia zia è venuta a sapere che il marito era morto in ospedale a Piove di Sacco.
Qua a Fener era tutto per terra. Ma tutto.
Non c'era niente in piedi, solo la Madonna della Salute - un capitello - era rimasto in piedi e aveva preso qualche scheggia. Prima era di là della strada ora non c'è più, l'hanno spostato.
Tutto per terra, tutti sassi, e non si poteva neppure camminarci sopra, perché c'erano le bombe sotto e magari si muovevano e rischiavano di esplodere.
Tanti sono saltati per aria, qua. Anche i nostri due cugini Forcellini. Camminavano lungo la strada dalla ferrovia verso il paese e hanno raccolto un petardo, una bomba a mano con il manico. Si sono messi a disfarlo e gli è esploso in mano.
Il parroco è ritornato quando ormai c'era la canonica ricostruita.
Hanno lavorato svelti, tanto che si può dire che nel 1920 Fener era stato ricostruito e così anche noi siamo ritornati nella nostra casa ricostruita.
*
Mio padre era postino, e quando è ritornato ha ripreso subito il lavoro. Anch'io dopo ho fatto la postina.
Mio nonno, De Zorzi Giacomo, era ufficiale postale ed è morto ancora prima della guerra, nel 1913. Allora l'ufficio lo ha preso mio zio Vittore e - morto lo zio Vittore - l'ufficio postale è stato preso in gestione da foresti.
Mio padre è andato in pensione da postino nel 1971. Si è fatto oltre sessant'anni di lavoro. [...]
Io mi sono sposata con Alessandro Bozzato e ho avuto una sola figlia.
Una figlia ha avuto anche mia sorella Maria, sposata con Giacomo Bozzato che faceva il pittore decoratore.

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