lunedì 27 settembre 2010

Sebastiano Pessotto, Bibano di Sotto (Godega Sant'Urbano, TV)

Nato il 23 settembre 1912

Informatore-accompagnatore: Renzo Cuch, Gruppo Alpini di Gaiarine.

Nastro 1998/8 - Lato A                                  Giovedì 2 aprile 1998

[...]
Il «papa Cappellari»
C'era una chiesetta in via Cappellari, davanti a Barlese, quasi in piazza di Gaiarine. La chiesetta l'ha demolita poi Barlese, non sono stati i tedeschi.
Dentro c'era la statua del "papa Cappellari", tanto che la chiamavano «a ceséta de Capeari», che era un papa.
Si vede che i soldati tedeschi erano di un'altra religione ... un bel giorno si vedono venir su questi soldati con una macchina su cui era caricata la statua in gesso del papa Cappellari.
Il «barba», fratello di mio povero nonno, ha chiesto loro cosa stessero facendo, ma loro non l'hanno badato. Siccome la statua aveva la corona, hanno tirato via la corona; poi con il ferro da barba hanno tagliato la barba [in gesso, della statua].
Era un sabato di sera, e mi ricordo come fosse adesso.
C'erano le tose che scopavano il cortile, come si faceva di solito, perché i soldati avevano lasciato in casa la nostra famiglia, per far vedere che vi abitava una famiglia normale, che non c'era un campo d'aviazione.
I soldati prendono questo papa e lo mettono in parte, lungo la siepe, perché c'era la siepe [di recinzione] davanti alle case. Prendono una sàca [un vimine] e legano il papa e ci dicono che non bisognava toccarlo, ma noi certo non volevamo toccarlo, noi eravamo bambini; poi i soldati se ne sono andati.
Il giorno successivo i soldati vengono di nuovo a casa nostra perché «i à da far manéjo co l'aparechio» [devono fare esercitazioni con l'aereo]. Mettono un soldato sull'aereo per addestrarlo a fare il mitragliere e la statua fa da bersaglio. L'aereo era a terra, da fermo, messo a una certa distanza dalla statua. Il mitragliere sparava e, se riusciva a far centro, il giorno dopo doveva andare sul Piave a combattere [perché aveva dimostrato di essere in grado di usare l'arma] e c'era bisogno di mitraglieri.
Mio zio li rimprovera per quanto stanno facendo ma loro ci scherzano su e gli rispondono ja, ja, ja.
Insomma, il mattino dopo, i tedeschi prendono un carretto, di quelli da spingere a mano, in legno, un bel carrettino fatto da noi in casa, vi distendono sul pianale una bracciata di paglia e sopra ci mettono la statua del papa. Poi fanno il loro lavoro [cioè sparano contro la statua].
Il barba gli dice «vedrete che la pagherete per quello che avete fatto».
I soldati dopo qualche giorno, o il giorno dopo, non ricordo, partono e vanno sul Piave in linea ... e il mitragliere che aveva sparato alla statua venne ucciso.
La statua era stata rotta completamente e noi bambini con i suoi pezzi di gesso giocavamo a capanón, un gioco che consiste nello spingere avanti un sasso con un piede e farlo cadere in un buco.
Poi è successo che dopo la sua morte il mitragliere - il suo spirito - continuava a farsi vedere. Alla sera quando era una certa ora i cani abbaiavano e qualcuno della nostra famiglia diceva «ah, varda lavìa, é el tedesco»....
E andata avanti così per un bel pezzo di tempo, perché ricordo che – noi si faceva il formaggio in casa, una volta, e allora ci si univa una famiglia con l'altra in modo da avere più latte – il tedesco ha continuato a farsi vedere per qualche anno.
Una sera mio povero papà ci ha detto: «Andate a prendere su un po' di erba per la maiala che ha i maialini». Noi bambini siamo andati. Eravamo io e mia cugina Rosa e quando siamo arrivati in fondo là, dove la stradina si congiunge con la strada che va in su, ho detto a mia cugina: «Vàrda el tedesco!»
Era dentro al cespuglio [bàr] dove avevano portato il gesso della statua rotta. Allora io, siccome avevo sentito dire che se lo spirito continuava a farsi vedere voleva dire che aveva bisogno di qualcosa, mi son detto «aspetta che gli vado a chiedere cosa vuole, di cosa ha bisogno». Mi son fatto coraggio e gli sono andato incontro, ma appena arrivato dove l'avevo visto, il tedesco non c'era più, si era spostato di lato. Mi sposto anch'io, ma ancora una volta quando arrivo dove lui c'era fino a un attimo prima, lo spirito non c'è più.
*
La luminaria invece era un gas che [a Gaiarine] veniva fuori dal terreno, dai fossi: un metano, che prendeva fuoco.
*
Ritornando allo spirito. Una sera, una donna della famiglia Maso, viene a portarci il latte per fare il formaggio e ci dice che passando davanti al cespuglio dove erano stati messi i resti della statua aveva sentito una tale raffica di vento che i rami dell'albero si erano piegati fino a terra. Era un grosso cespuglio di arnèr [ontano].
E prima ancora, uno dei Benedet che abitavano in una casa qua vicino, un certo Luigi, a volte quando gli capitava di tornare a casa con la mussa [asina] da Gaiarine gli succedevano delle strane cose. Una sera gli tirano giù la giacca, da dietro; veniva a casa dopo essere stato dalla morosa, non lo so, sta di fatto che si trova la giacca per terra e non vede nessuno, non c'è nessuno. Un'altra sera, raccontava sempre questo Benedet, tornava ancora a casa con la mussa e giunto in quel punto la mussa si ferma, non vuole più andare avanti e non ha potuto pensare altro che fosse lo spirito del tedesco.
Finché un'altra sera è venuta questa Maso e lei ha pensato che se c'era questo spirito bisognava far dire una messa. Abbiamo fatto dire la messa, e da quella volta non abbiamo più visto lo spirito.
Sarà stato circa nel 1924, perché la famiglia Maso era venuta ad abitare in paese qualche anno dopo la guerra.
Ritorniamo a parlare del campo d'aviazione.
Una volta un pilota, un ufficiale – perché gli ufficiali arrivavano a casa nostra alla mattina, con le auto, da Gaiarine – insomma uno si era come innamorato di me. Io ormai capivo cosa lui diceva, e mi diceva che lui mi avrebbe voluto portare in Germania, perché lui figli non ne aveva e voi siete tanti fratelli e uno può venire con me.
Un giorno, cosa fa? Prende l'apparecchio e mi fa salire su. Io ero già salito qualche volta sugli apparecchi, quando erano a terra e loro li lasciavano là, ma quella volta il pilota è partito, e io avevo una paura...
Non ricordo il nome di quel pilota, ricordo invece i nomi degli altri soldati che erano alloggiati a casa nostra. Il falegname aveva nome Carlo e faceva tutto quello che serviva in legno, sagome da tiro, ecc. Edoardo era quello che faceva l'autista e li portava fino al Piave, in qua e in là. Insomma ce n'era un bel gruppetto a casa nostra, saranno stati una ventina.
Io li capivo perché un po' si sforzavano loro e un po' ci sforzavamo noi, così ci si capiva.

Nastro 1998/8 - Lato B

Vicino a casa c'era una polveriera grossa. Era un deposito di munizioni da apparecchio, bombe da sganciare grandi come me (quando ero bambino).
Questo deposito più grande si trovava vicino alla chiesetta di [...]
Un altro deposito più piccolo, che si trovava dove ora hanno fatto il capannone, conteneva munizioni e bombe a mano. Con quelle, una volta finita la guerra, è morta una mia cugina che ha tirato via il nastro a un petardo. Questi petardi avevano attorno un nastro rosa, verde o celeste a seconda della portata, e poi un anello [la s'ciòna]. Tenevano il petardo in mano e lo lanciavano con il nastro, per dargli più slancio.
Mia cugina, che si chiamava Gianna e aveva sui 10 anni, ha tirato via il nastro tenendo in mano il petardo che gli è esploso e l'ha uccisa.
Campo d'aviazione: vi erano vari angàr [hangar]. Uno davanti e uno dietro casa, un altro dai miei cugini che fa tre, altri due erano lungo la strada dei miei cugini dalla casa rossa (la strada di Belcorbo) e poi quassù da Janotto non so se c'erano tre o quattro angàr, perché erano di due qualità, gli apparecchi. Quelli quassù erano rossi e quelli laggiù erano gialli, erano di due squadriglie, cioè. Su ogni angàr ci stavano dentro due o tre apparecchi. Alla sera i soldati li spingevano dentro e alla mattina li tiravano fuori. Per metterli in moto facevano girare l'elica con le mani tuf, stuf, stuf. A un soldato là dietro alle nostre case un'elica gli ha portato via il braccio; l'elica è partita e lui non ha fatto in tempo a ritirare il braccio. Ma non è morto, è rimasto mutilato.
Quella volta che io ho fatto il giro in aereo ho volato là intorno e avevo paura soprattutto perché i miei non ne sapevano niente.
Mio padre si chiamava Costante ed era in guerra sul Sabotino, ma durante i giorni di Caporetto era a casa. Era rimasto ferito due volte. Era andato a dare il cambio ai bersaglieri che erano stati attaccati con il gas. Prima è rimasto ferito mentre si trovava in trincea e una croda lo ha colpito alla schiena ed è rimasto ricoverato per qualche mese in ospedale. Una volta guarito è ritornato di nuovo in trincea.
Era cuciniere e una volta l'hanno fatto prigioniero, di sera. Si sapeva che forse quella sera ci sarebbe stato un attacco e lui ha detto ai suoi compagni: «Se per caso vi ritirate, avvertitemi.» Invece non l'hanno avvertito ed è stato fatto prigioniero. Era caporalmaggiore e non l'hanno avvertito. Il combattimento è stato grosso e i nostri si sono ritirati, e lui - venuta la notte - si è messo a dormire sotto le casse di cottura.
Alla mattina si trova con gli ufficiali tedeschi che camminano davanti a loro, contenti perché stavano avanzando. Allora mio padre ha detto ai suoi soldati: «Tosat, toén i mùi e scampén». Hanno caricato i muli e tutto; quando sono scappati c'era una valle stretta, i tedeschi gli sparavano, ma le pallottole restavano alte e non riuscivano a prenderli.
Un'altra volta mio padre è stato ferito. Era di sera tardi, ormai notte, era su in trincea che distribuiva un po' di caffè e di quello che c'era, perché ormai era tardi. Uno voleva mangiare, un altro non ne voleva più; ormai erano sfiniti, i soldati. Gli capita una pallottola. Si vede che hanno sentito qualcosa che si muoveva, gli altri gli hanno tirato e l'hanno colpito in petto sotto la spalla sinistra. La pallottola lo ha perforato, ma non ha colpito il cuore e così si è salvato.
L'hanno portato all'ospedale da campo e quando ha iniziato a stare un po' meglio ha chiesto di venir a casa in licenza, anche perché aveva saputo che gli era morto il nonno. Allora il tenente medico gli ha detto: «Ti posso mandare a casa anche entro 24 ore, però devi fare la "rinuncia", devi sottoscrivere che sei stato "ferito in prima linea, non per causa di servizio" e in questo caso non avrai più la pensione.» E mio padre gli ha detto: «Piuttosto di finirla qua, finché ho le gambe che mi tengono ancora in piedi me ne vado. Poi, sarà quel che sarà.»
Per questo, quattro giorni prima della ritirata di Caporetto lui era qua a casa.
Nei giorni della ritirata ha visto arrivare i tedeschi, che son venuti su per la Cal di Mezzo. Sono arrivati dietro le case e chiamavano, chiedendo della "quota Vinello". Mio padre gli ha indicato il posto che cercavano: era la chiesa di San Cristoforo.
I tedeschi hanno portato tutti i cannoni sul prato davanti, dove adesso c'è a beussera [il vigneto "alla Bellussi"], sopra Fantuz. Là dove c'è il capannone prima non c'era la belussera, c'era tutta pradarìa.
Hanno iniziato ad arrivare con i cavalli e i muli, hanno sistemato i cannoni tutti in fila, con la bocca verso il Piave. I cavalli li hanno messi sulla terra dei miei cugini, legati ai gelsi o lasciati così com'erano.
Le piste per gli aerei le hanno fatte sul terreno dietro le case, dove c'era la jèra [ghiaia]. Anche là c'erano piantajón [piantate, filari di viti sostenute da gelsi] che hanno fatto tagliare tutte da borghesi fatti venire apposta da Gaiarine. Hanno tagliato le piante senza estirpare le radici, perché sopra vi hanno steso della ghiaia prelevata da una cava che hanno scavato qua vicino di là della strada, dalla parte dove c'era la famiglia di Bortolo Brisotto con i suoi due figli Francesco e Giusto, e dove ora c'è Nardi detto Mattìo.
Hanno fatto questa cava e vi hanno messo a lavorare dei prigionieri mutilati, senza una mano.
D. Come facevano a lavorare, se erano mutilati?
R. Eppure li facevano lavorare, eh! Erano prigionieri italiani, ma ce ne saranno stati anche di stranieri e lavoravano con quello che potevano, con il piccone ... e quelli che stavano meglio con i carrelli portavano fuori la ghiaia e preparavano le piste.
*
Renzo Cuch gli chiede se sa chi abbia raccolto i volantini austriaci di propaganda che Bruno (figlio di Piero Pessotto) ha donato al Gruppo alpini.
Sebastiano, risponde che volantini ne buttavano giù in continuazione, quando passavano...
«Li buttavano giù per i borghesi, poi i boce li raccoglievano e li buttavano via.»
*
Ai prigionieri mutilati, pur di farli lavorare, avevano dato una paletta di quelle che adoperano le donne in cucina per raccogliere la cenere sul camino [?] e sia pure con questi piccoli attrezzi, alla sera i carri erano carichi, anche se i prigionieri avevano una mano sola, oppure avevano le mani senza qualche dito.
D. Sono mai venuti gli italiani qui di sopra, con i loro aerei a bombardare il campo?
R. Una sera, o meglio ad una certa ora di un giorno, arriva un apparecchio italiano e le mitraglie che erano attorno al campo ... e io so dove erano le mitraglie ... perché ce n'era una dietro le case dove abitavamo noi; una davanti alla nostra casa; una era sul palù davanti alla casa rossa dei miei cugini, di là della strada; una era sopra Zamai; una era quassù da Janotto; una nel terreno di Brisotto, che fa sei e una sulla strada, lo stesso, che va dentro e che fa sette, e una che faceva otto...
Il campo d'aviazione sarà stato grande non più di dieci campi di terreno, anche meno, non era tanto grande. La pista sarà stata lunga come dalla casa in cui siamo adesso fino alla strada, saranno stati un cinquecento metri. Ce n'erano due di piste, una per ciascuna squadriglia.
Allora ... un giorno arriva un apparecchio italiano, ma l'aviatore era uno dei nostri qua e si butta sul prato. Siccome c'erano i rivai [tratti erbosi usati per gli spostamenti di uomini e animali] alle testate della campagna, l'apparecchio si rovescia all'incontro con questo rival. Ma dentro non c'era un italiano, c'era un aviatore tedesco che di là del Piave - non si sa come - era riuscito a portar via un apparecchio italiano e a passare le linee fino al nostro campo.
Mi ricordo che siamo corsi tutti a vedere, anche con paura, perché sull'aereo ci sono le munizioni. Arrivati vicino mi ricordo che dicevano che quello che era dentro alla guida era morto. Infatti il sangue colava giù dall'apparecchio, dove l'aviatore era legato, con la testa voltata in giù. I tedeschi sono riusciti a girare l'apparecchio e l'aviatore invece era ancora vivo, ed era uno dei loro, un ufficiale. Come fosse riuscito ad impossessarsi di un apparecchio italiano, non si sa.
Dopo qualche giorno, è successo che dal Piave gli aerei tedeschi venissero verso di qua, con gli italiani a corrergli dietro. Parlavano sempre di Baracca, e forse era Baracca ... e così gli italiani hanno scoperto il campo. Allora, furbi i tedeschi, cosa hanno fatto? Tutti gli angàr - che erano coperti con teli di colore tendente al bianco - hanno preso dell'olio nero e li hanno dipinti come fossero degli alberi. Poi i tedeschi sono andati sui prati oltre l'acqua del Rald [?], hanno portato là dei nuovi teli, fingendo che là ci fossero gli angàr del campo d'aviazione.
Quando sono venuti ancora gli italiani, hanno iniziato a lasciar cadere qualche bomba già dal Restéja, ma non hanno mai colpito il campo.
I tedeschi, quando venivano via dal Piave con i camion pieni di feriti ancora sanguinanti ci chiedevano le lenzuola, in questo modo ci hanno portato via tutta la biancheria.

Nastro 1998/8 - Lato B 9 aprile 1998

[Ci dirigiamo in auto verso il luogo dove sorgeva l'aeroporto. Soffia un forte vento che disturba la registrazione, sta per arrivare un temporale.
Passiamo a fianco della casa di Janotto e il testimone dice che dietro c'erano gli hangar. Poi indica la disposizione delle mitragliatrici antiaeree che erano piazzate attorno all'aeroporto. La prima era nascosta in mezzo ai filari delle viti, nei pressi della casa all'epoca abitata dalla fam. Zamai.
Ci fermiamo con l'auto davanti alla casa dei suoi cugini, dove – durante la Prima guerra mondiale – abitava la famiglia di Pietro Pessotto]
* 
Il testimone indica il luogo dove c'erano i prigionieri italiani «borghesi però» [?], portati qui per lavorare, anche se erano invalidi...
«Quando prendevano tanto - da mangiare - era pane e acqua e si sedevano a mangiare là, ai bordi della strada.»
*
Una volta è arrivato al campo un ufficiale aviatore morto, colpito durante un'azione (uno dei due che erano a bordo di ogni aereo). L'hanno seppellito qua [vicino alla casa presso cui siamo fermi]. Hanno fatto una buca e l'hanno messo dentro a una cassa di zinco, a sua volta messa dentro una di tavole. Terminata la guerra la moglie dell'ufficiale è venuta da Vienna a esumarlo.
[Sempre nella casa davanti alla quale siamo fermi] c'era il comando dell'aeroporto, c'erano degli ufficiali. E c'era una camera in cui alloggiava il tenente medico.
Dietro la casa, che allora era più piccola, c'erano gli hangar, in legno.
Di questo tenente medico ricordo che lo vedevo curare i feriti: era come un "pronto soccorso".
Gli hangar erano fatti con le tavole, coperti sempre in tavole e di forma quadrata. Ho bruciato le ultime tavole di questi hangar qualche giorno fa. Erano in abete o pino e si sono conservate così tanto tempo perché ne avevamo utilizzate alcune per fare la greppia della stalla del cavallo.
Un altro hangar, molto grande, si trovava dove ora si vedono quegli scatoloni.
Gli hangar avevano le porte scorrevoli per far entrare gli aerei.
La pista dell'aeroporto era però più avanti e partiva da dietro alla casa in cui sono nato.
A circa duecento metri dalla mia casa natale c'era una polveriera piccola, dove venivano "innestate" le bombe che poi venivano caricate sugli aerei. Un'altra polveriera piccola, con le stesse funzioni, era là vicino, e in quella polveriera è saltata in aria anche una bambina, che era una mia cugina, giocando con un petardo.
In quello stesso posto, una ventina d'anni fa, quando hanno fatto un capannone nuovo della ditta Fantuz, sono state trovate ancora delle bombe, anche se nessuno ci credeva quando io li avvertivo - perché io lo sapevo - che lì ci sarebbero state delle bombe. Erano tutte bombe cariche e innestate. A toccarle potevano scoppiare tutte, come poi hanno detto i soldati che sono venuti a prenderle.
La polveriera in tempo di guerra era coperta con dei teli sopra ai quali era stata messa della terra in modo che crescesse l'erba, per nasconderla.
Dopo la guerra la polveriera era ancora là quando io andavo a scuola, e mio povero papà è andato a Conegliano, dai carabinieri, a denunciarla. Sono arrivati gli artificieri d'artiglieria. Sono venuti qua due tre volte, hanno preso le bombe e le hanno portate su quel fosso laggiù. Dicevano che le bombe non avrebbero fatto un grande scoppio, ma quando sono state fatte scoppiare hanno fatto uno scoppio grandissimo, un grande buco, e la terra è stata lanciata dappertutto e molto lontano.
Dopo di allora gli artificieri non sono tornati più, ma sono rimaste ancora delle bombe "signorine", che avevano come delle gonnelline.
La direzione della pista era sulla linea Gaiarine-Bibano [sud-est/nord-ovest]...
Sempre vicino al fosso avevano scavato una buca che avevano riempito di benzina per il rifornimento dell'autocentro. Questo serbatoio di benzina è stato poi svuotato dagli italiani.
[...] Le piste erano due, una per andare e una per tornare, e due erano anche le squadriglie che erano dislocate nel campo, una con gli aerei dipinti di rosso e una con gli aerei dipinti di giallo. Aerei che erano comunque più o meno uguali, a parte il colore.
[...]
Una volta un aereo scendendo è andato a cozzare con un'ala contro la noghèra [il noce], ma gli aviatori che erano a bordo si sono salvati. Sono rimasti feriti e li hanno portati all'ospedale. Quello che è arrivato qua morto, è arrivato dal Piave già morto.
[...]

Nastro 1998/08 - Lato B

[...]
Mio povero papà, beh, [i tedeschi] l'hanno portato via anche lui [assieme ad altri del paese]. Li hanno portati in Cansiglio, a tagliare piante che portavano sul Piave.
Li hanno portati lassù, ma siccome c'erano le malghe, e conoscevano quelli delle malghe, alla seconda volta mio padre è scappato da prigioniero, ed è venuto a casa.
D. Ma poi l'hanno ripreso, qui a casa?
R. I "carabinieri", quasi ogni giorno venivano - quelli di Godega - a fare il giro a cavallo. Quando è arrivato a casa mio povero papà, siccome c'erano tutte le sentinelle attorno alla casa, i "carabinieri" venivano sì a prendere informazioni, ma le sentinelle non li facevano entrare in casa. Perché, anche prima, mio povero papà [aveva un incarico di fiducia]: custodiva i soldi e quello che avevano [di caro, di prezioso] i soldati che andavano al Piave, e quando tornavano restituiva i loro soldi, le corone. Tanti gli affidavano anche l'anello.
Mio padre prima aveva fatto tre anni di carabiniere, poi è diventato caporale e caporale maggiore di cucina. È stato ferito sul Sabotino.
A Opacchiasella gli austriaci hanno lanciato il gas sui bersaglieri, e quando i nostri sono andati su hanno dovuto fare, a braccia, cataste di morti. Tutti morti, perché avevano lasciato uscire il gas nella valle. Diceva mio padre che le piante erano lustre [avevano il tronco lucido] a forza di tentativi di sollevarsi da terra per sfuggire al gas, ma riuscivano a restare sollevati da terra un poco, poi cadevano.
Insomma mio padre non è stato più toccato, niente.
Quando [i tedeschi] hanno caricato - la sera prima che andassero via da qua – hanno chiesto a mio padre e a quelli che erano qua di aiutarli a caricare la roba, ma senza ridere. Non ridere.
Noi avevamo anche i maiali. C'era una maiala con i suoi maialini e uno di questi maialini è scappato; l'abbiamo cercato nel campo ma non lo abbiamo trovato più. [...] Il soldato che accudiva i maiali era di un'altra religione, perché si buttava a terra per pregare, e aveva nome Elia.
[...]
C'era la polveriera lassù, e quando i tedeschi sono scappati hanno portato via quello che sono riusciti a portar via, di munizioni. Ma molte munizioni sono rimaste là.
Poi sono venuti gli italiani con la trattrice a caricarle. I nostri uomini erano laggiù nel campo, me lo ricordo, perché non era bene stare vicino a dove caricavano le munizioni, e c'era un certo Leone che portava la trattrice. Leone era il gestore del dopolavoro, dell'osteria che c'era ad Orsago.
Terminato di raccogliere queste bombe, si mettono, ufficiali e sottufficiali - in otto di loro - a pulire una bomba, a disinnescarla. E mentre stavano disinnescandola è scoppiata e sono morti tutti quanti, anche la cagnetta bianca che era con loro. Me lo ricordo: tutti i militari e anche Leone. Era subito dopo la guerra, c'erano ancora le canne del granoturco sui campi.
Negli ultimi giorni della guerra, gli austriaci hanno preso gli apparecchi, e via.
Gli italiani non sono passati di qua a corrergli dietro, loro passavano per le strade grosse, non per le stradine, non per le campagne.
Gli austriaci prima di partire si sono fatti aiutare dai nostri uomini a caricare la roba, quello che sono riusciti. Non hanno rubato roba nostra, perché non c'era più niente da portar via. Perché quando erano arrivati hanno portato via tutta la biada e il raccolto ormai fatto del 1917. Quando sono arrivati hanno detto: «per domani sera che siano via tutti - i miei cugini - e vuota la casa». I miei cugini in parte sono venuti a casa nostra e in parte si sono sparsi per le case di conoscenti: da Segato Giuseppe, quaggiù, da Brisotto e in altre case nei dintorni.
[...] Comunque mio padre è riuscito a salvare un po' di vino. Una botte l'hanno sotterrata, l'hanno portata sul campo, l'hanno messa in un fosso e l'hanno interrata là. I tedeschi non se ne sono accorti.
Poi gli austriaci hanno portato via le campane e anche tutto il rame per le case, per fare bombe.
[...]
Gli aviatori austriaci, durante la guerra parlavano sempre di Baracca, ce l'avevano fissa con Francesco Baracca e cercavano di buttarlo giù. Conoscevano il suo apparecchio e ne avevano paura.
Molti degli ufficiali aviatori parlavano italiano, perché erano magari qua, da Fiume.
[...] Ce n'era due di campi di aviazione, a Godega, là dove fannno la discarica a Campardo. Erano chiamati "campo di sopra e campo di sotto". Uno era sotto Godega e l'altro era sotto Colle Umberto, che è là vicino, fa confine.
Il figlio di Luigi Bongiorno, che si chiamava Giuseppe – soprannominato el Piave, perché suonava la canzone del Piave con la fisarmonica, ed era del '900 – quando sono arrivati i tedeschi da Iseo Boldan, dove c'era una strada che veniva dentro, fra la famiglia Bongiorno e quella dei Pavan, si era nascosto in una buca ai bordi della strada in mezzo ai rovi insieme con [un altro ragazzo] per non essere portato via dai tedeschi. Là gli portavano da mangiare ed è rimasto per molto tempo. La cavalleria dei tedeschi andava nei prati a pascolare e a fare "maneggio", passando sopra la strada; e loro erano sotto. Così si sono salvati la pelle, altrimenti i tedeschi li avrebbero portati via. Non so quanto siano rimasti là, so che in questa maniera sono riusciti a salvarsi.
Quella di Caporetto, so anche quella, io.
25:35 Mio zio era presente, la notte della battaglia, quando hanno sparato la mina sul Monte Nero. Alla sera avevano capito che ormai c'era movimento sulle altre linee, e allora si sono preparati. Il tenente Copassi ha detto a mio zio: «Pessotto, cerca di starmi vicino stasera, perché penso che ci attacchino». Mio zio Battista (classe 1887) era caporal maggiore di sanità, della 1104. compagnia mitraglieri, e nel rifugio, sotto, c'era un ospedaletto di pronto soccorso. Quando i tedeschi hanno attaccato mio zio è andato a portare fuori munizioni.
Hanno attaccato per primi i tedeschi e quando la montagna è saltata in aria in seguito alla mina lo zio ricordava "di aver visto le stelle per tre volte". Tre volte la montagna si è aperta e si è chiusa sopra di lui. Il tenente Copassi è rimasto ferito, gli era stato portato via tutto davanti qua, il petto. Ha fatto in tempo a dire: «Pessotto sono morto!». Era rimasta in vista la pelle del polmone e del cuore. Pareva proprio finito, invece l'hanno portato giù e dopo la guerra il tenente e mio zio si sono ritrovati.
Mio zio è stato fatto prigioniero e l'hanno portato in Germania, in Westfalia, a Colonia da quelle parti là. Ricordava che erano partiti da dove era stato fatto prigioniero e avevano superato dodici montagne...
29:33 Poi ho visto anch'io [quei posti] nel '40, nella Seconda guerra, quando ero militare a Idria con il 1° reggimento fanteria. Con l'articolo 136, da permanente, ero rimasto a casa "rivedibile" perché non stavo bene, ma nel 1940 mi hanno richiamato. Da recluta sarei stato del 5. artiglieria campale pesante, di stanza a Pola. Da richiamato ho fatto domanda di andare nel 73. fanteria di Sacile. Mi hanno detto che non potevano mandarmi perché non c'erano più posti, e volevano mandarmi a L'Aquila. Alla fine mi hanno mandato nel 1° Reggimento fanteria, di stanza a Cividale.
La siepe del cortile era in legno vivo, di onastrele ... [Cornus sanguinea?].
Il fratello del nonno, che ha chiesto ai tedeschi che sparavano al papa Cappellari cosa stessero facendo, si chiamava Giacinto. I mitraglieri che sparavano contro il papa erano in tanti, ma solo uno di loro è morto.
[...]
Sono nato il 23 settembre 1912. Al tempo della prima guerra mondiale eravamo tre fratelli: io, Antonio del 1914 e Pietro che è nato nel 1917.
Quando il pilota mi ha fatto fare il giro in aereo io avevo paura, ma non dell'aereo, ma perché i miei genitori non lo sapevano. A me gli aviatori volevano bene, mi prendevano in braccio, non avevano cattiveria.
C'erano le ragazze, ma non hanno fatto niente di male. Però una sera due soldati sono andati sulla camera in cui dormiva l'Antonietta, una mia cugina figlia di Pietro Pessotto. Mio povero papà, che dormiva sulla camera a fianco, ha fatto finta che ci fosse là vicino la polizia e ha fatto finta di chiamarla, così i due soldati sono scappati. Non siamo riusciti a capire chi fossero quei due soldati, né da dove venissero. Certo non erano fra quelli che erano stabili in casa. Venivano da fuori.
L'Antonietta comunque già aveva fatto amicizia con un soldato austriaco, che diceva che poi sarebbe tornato da lei.
Vicino alla chiesetta di San Cristofaro c'era la polveriera grande e nei pressi c'era anche un appezzamento di terreno destinato ad ortaggio, coltivato dai soldati. Io a volte andavo a prendervi qualcosa, i soldati mi davano delle bietole, qualcosa, che io mettevo in tasca.
Una volta, a un centinaio di metri dalla chiesetta, un soldato giovane incontra un altro soldato più anziano che aveva del tabacco e che gli chiede se ne voleva anche lui. Il soldato più giovane ha detto di no, perché i più anziani glielo avrebbero preso. Ma l'altro ha messo il tabacco dentro a una bomba a mano, dopo averla svuotata e aver dato a me le palline che c'erano dentro la bomba, ma erano poche. Così un'altra volta, ormai avevo capito come si faceva, ho disinnescato io una bomba a mano. Mi son preso tutte le palline che c'erano dentro e le ho portate a casa per giocare. Non mi rendevo conto di quello che facevo, del pericolo.
Ora la chiesetta di San Cristoforo è chiusa; le chiavi le ha una famiglia là vicino, uno che fa l'autista. Una volta invece era Janotto e si faceva sagra il 25 di luglio. Veniva tanta gente, anche da fuori. Si faceva la messa e il vespro, poi c'era il gioco delle bocce e un po' di osteria che veniva aperta da quelli che avevano l'osteria a Biban e mettevano una baracca o due. C'erano dolci e biscotti portati da Angelo Pianca e sua moglie che aveva nome Catina (Caterina). Si cantava.
I tedeschi, quando c'erano le loro feste, venivano nella casa di Janotto e là c'era uno che suonava la fisarmonica e facevano i loro balli. Poi bevevano il te. Non si ubriacavano mica, eh. Non potevano bere vino.
[...]

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