giovedì 16 settembre 2010

Margherita Gemionite (Rita Bertolini), Maserada sul Piave TV

Nata il 20 dicembre 1903


Nastro 1994/4 - Lato A                                Sabato 23 aprile 1994

Il mio cognome deriva dal fatto che mio papà era un orfanello preso in ospedale. [...] Era nato nel 1871 e si chiamava Riccardo, detto Carlo. Era stato preso all'ospedale di Treviso, ma si diceva che fosse stato originario dalla provincia di Udine. Era stato preso subito, tanto che diceva sempre di non aver mangiato un centesimo dell'ospedale di Treviso, perché i nonni l'avevano portato a casa fin dal primo giorno, appena nato.
Mai saputo chi fossero i suoi veri genitori, e neppure voleva saperlo, tanto che a volte io gli chiedevo: «Se vien fora to mama, vatu trovarla?»
Lui rispondeva: «No, me mama la é questa che a me à levà.»
Mio papà era molto buono ed è morto nel 1918. Era andato, durante la guerra - alla fine - con un tenente a insegnargli a mettere giù le passerelle sul Piave. Ha preso una peritonite fulminante e in neppure 24 ore è morto all'ospedale militare di Carbonera.
La nostra casa era appena di là del primo argine e mio papà vi aveva costruito vicino un ricovero. [...]. Era su una leggera altura e quindi, anche quando il Piave si alzava, l'acqua non vi arrivava mai. [...] Quando il Piave tracimava, rompeva più su, dalla parte dei "comunali", su, sopra ai monumenti degli inglesi a Salettuol. Si trattava di un punto delle grave dove il Piave si divideva: un ramo andava per San Polo e San Michele e uno scendeva per Maserada. Mio papà aveva costruito il ricovero per la famiglia, perché ci avevano detto che là sul Piave sarebbe stato "un passaggio".
Aver visto cosa era il nostro argine, dopo Caporetto, questo primo, che chiamano l'argine di San Marco!
In questo ricovero abbiamo dormito tre notti, tutti raggomitolati sotto. Tre notti dopo l'arrivo dei tedeschi di là del Piave, finché sono venuti a mandarci via i carabinieri.
Me poro pupà me par ancora de védarlo in janòcio, in cusina davanti ai carabinieri. El ga ito "copéme qua, co i me fioi, ma mi via da qua no vao". [Mio povero papà mi sembra ancora di vederlo, in ginocchio, in cucina davanti ai carabinieri. Ha detto ammazzatemi qua, con i miei figli, ma io via da qua non vado].
Il maresciallo gli ha detto: «Basta che lei vada giù dell'argine, nella prima casa, perché qua è un passaggio: l'intenzione dei tedeschi è di andare al Po diretti».
Mio povero papà ha detto: «Cossa femo?» e mia mamma: «Carlo, ndémo de à de l'argine.»
Siamo andati verso la prima casa, dove c'è la Madonna delle Vittorie, dove fanno le sagre. Da là ci siamo uniti in tre famiglie e siamo andati sulla Postioma, sulla campagna del nonno di Cenedese, quello che ha le officine.
Eravamo in trenta. Noi bambine dormivamo assieme alla mamma nella stalla, con tre bestie e una mussa. A mia sorella che poi è diventata suora ed ora è morta e all'altra mia sorella il padrone della casa ha dato una camera perché il figlio era soldato.
La sera che c'è stata l'offensiva mia mamma ha detto: «Tose vegné su a stala» perché la camera era verso il fronte, e sono venute giù a dormire. Mia sorella suora ha dormito sulla greppia e l'altra ha dormito dove che veniva fatto convogliare l'orina delle bestie, di modo che si è trovata alla mattina con tutta la schiena bagnata. E i due poveri vecchi dormivano con la testa così, dalla parte in cui le bestie avevano il sedere.
Alla mattina, quel padrone di casa là — deve essere in inferno, mi dico sempre quando ci ripenso — alle cinque, d'inverno, veniva in stalla a governare le bestie e noi dovevamo ingrumàr tutta la paglia in un angolo, svegliarci e star seduti perché lui doveva governare le bestie.
Mia mamma gli diceva:«Ma Gigio, no podé farlo un'ora pi tardi?»
Avevo una sorella di tre anni, che poi è emigrata a Cuneo, che diceva: «Mama, no a macara a mi, no a màcara a mi». Non voleva la maschera — perché avevano distribuito le maschere [antigas] — invece si teneva sempre il crocefisso in mano: «Mama, ho Gesù mi, ho Gesù mi.»
Nella casa sulla Postioma a Varago, da Luigi Cenedese (Gigio Piovesanèl) siamo rimasti da Caporetto fino alla settimana santa del 1919, assieme alle famiglie Carraro e Rossetto, le tre famiglie che erano vicino all'argine. [...]
*
Noi tre ragazze (io e le due sorelle più grandi) siamo partite per la Toscana all'Epifania. La filanda di Lancenigo era stata chiusa perché il direttore era stato richiamato militare, e il padrone - Sigismondo Piva da Valdobbiadene - ne aveva un'altra in Toscana.
Mia mamma, che era rimasta nella stalla di Piovesanel, viveva "con la sussistenza dei soldati". Dato che in una casa vicina c'era un macello di bestie per i militari a mia mamma veniva sempre fuori qualcosa: la trippa, le ossa, i pezzi di gamba dal ginocchio in giù, e in più qualche pagnotta. [...] Mia mamma si chiamava Lucchese Maria, era nata anche lei nel 1871 ed è morta nel 1947.
[...]

Nastro 1994/4 - Lato B

Il ricovero che mio papà aveva fatto prima di abbandonare la casa di là dell'argine era coperto da talponi [talpon = varietà autoctona di pioppo bianco - Populus alba] vennero utilizzati come copertura del ricovero. E proprio sopra i talponi sono cadute due granate.
Il ricovero non è stato distrutto, tanto che al ritorno - finita la guerra – abbiamo trovato ancora la roba che il papà aveva nascosto là dentro in un cesto: bicchieri di Murano che il papà aveva avuto per mezzo di un santolo che lavorava in vetreria.
Io li conservo ancora questi bicchieri, tanto che una mia parente di Murano mi ha detto che se a Murano sanno che ho ancora dei bicchieri della guerra del '18 «i te copa», perché le fabbriche dovrebbero chiudere [se nessuno rompe i bicchieri e li cambia]. [...]
Mio papà si era deciso a fare il ricovero nei pressi della casa perché ormai aveva visto i soldài in giro par e campagne, con lo zaino e la gavetta.
A fianco della casa avevamo dei blocchi di cemento e delle putrelle di ferro che sostenevano le reti. Da un blocco all'altro i soldati hanno agganciato tutte gavette, e mia mamma vi metteva dentro da mangiare in ognuna.
Erano tutti sbandati.
Io con mia sorella più piccola - che aveva tre anni - una volta vado su per l'argine e vedo come delle formiche. Erano tutti questi soldati sdraiati dalla parte del sole e sento chiamare: «Margherita, rissòtta (perché una volta ero tutta riccia di capelli), rissòtta!»
Guardo e vedo uno che conosco: «Maresciallo!»
E lui: «Va da tuo papà e dì a tua mamma che sono qua, e che mi faccia da mangiare».
Era un maresciallo originario di Caltanissetta, che veniva tutte le domeniche con la banda militare a suonare in piazza a Maserada, perché c'era il palco della musica in piazza e venivano ogni domenica a tenere allegro il paese. Mio papà aveva fatto amicizia con lui, che quando aveva finito di suonare veniva a cena da noi, magari a mangiare radicchi e un uovo, quel che trovava, per stare in compagnia.
Si chiamava Garofano Coppola e ho ancora la sua forbice per ricordo, una piccola forbice. Era maresciallo del 55 Fanteria - o al distretto, non so - a Treviso.
Io sono andata a casa e ho detto: «Mamma ghe n'é Garofano, mamma ghe n'é Garofano sull'àrden.» [c'è Garofano sull'argine]. Lo abbiamo tenuto nascosto per tre giorni sotto la paglia, non voleva più andare al fronte. Poi è partito a piedi; l'avranno fucilato per strada, senz'altro. L'avranno considerato disertore.
Noi lo abbiamo tenuto nascosto tre giorni per vedere se si calmava la situazione, se finiva questo "passaggio" come ci aveva detto il maresciallo dei carabinieri. Garofano era anche senza armi, mentre gli altri soldati erano tutti con qualche arma addosso. Era un bell'uomo, ancora giovane. Quante volte, quando prendo la forbice in mano, ancora adesso mi chiedo: che fine avrà fatto?
[...]
Una mattina siamo nella chiesetta della Madonna delle Vittorie - è un santuario - e andiamo dentro per assistere alla messa. In quello inizia un'offensiva sul Piave. Noi avevamo un carretto: eravamo io, mia sorella più vecchia che è ancora viva e quella che sarebbe andata suora. Si andava nell'Istituto per mettere in salvo qualcosa dei quadri delle suore. In quello che entriamo in questa cappella che era aperta, vediamo una tenda in mezzo alla chiesa e degli scarponi fuori e un prete ufficiale, un cappellano, che diceva messa.
Io sono rimasta fuori per far la guardia al carretto e mi sono appoggiata ad un pilastro [...] e in quello è passata una granata proprio sopra e io mi sono trovata lunga e distesa. Sono entrata in chiesa e ho detto "basta, basta, basta!". Quanta paura. E mia sorella ha detto "maledetta quella volta che ti ho lasciato fuori."
Dove è caduta la bomba adesso hanno costruito il supermercato.
Hanno trovato l'acqua, da quanto profonda era andata la granata. Avesse visto quanta terra ha sollevato! E tutti hanno detto che era stato un miracolo, perché se avesse colpito la chiesetta...
Invece nella chiesetta è caduto solo uno sdrapnel. Ha fatto un buco nel soffitto ed è scoppiato. C'è ancora la nicchia che conserva i pezzi. Il resto della chiesa è rimasta intatta per tutto il corso della guerra. Ma anche la chiesa parrocchiale di Maserada se l'è cavata con pochi danni, a differenza delle case che sono andate quasi tutte distrutte.
A quel tempo si diceva: «A Maserada la Madonna è stata profuga.» Nel senso che per evitare danni la statua della Madonna era stata portata lontano, a Salzano.
Avesse visto la festa per il ritorno nella sua chiesa della statua, nella seconda domenica di luglio del 1919. Dapprima è arrivata nella chiesa di Varago, trainata da quattro cavalli bianchi dell'artiglieria, coperti da drappi. Tutto il popolo in processione da Varago a Maserada; si sono mossi per l'occasione tutti i paesi dei dintorni, tantissima gente.
[...]

Nastro 1994/5 - Lato A

Mio papà ritornava nella sua casa, da Varago, tutti i giorni. Perché andava a vedere...
Per arrivare a casa nostra non c'era un vero e proprio fronte custodito, c'erano postazioni di mitragliatrici, in casa nostra. Erano due bocche di mitraglia che guardavano il Piave; una di esse era nella "casetta del camin" (focolare).
Nella stalla invece avevano preparato in cemento armato una postazione di cannone di quelli leggeri che serviva anche contro gli aerei ... e quella hanno dovuto minarla e così è saltato per aria il tetto della stalla.
La nostra casa non è stata colpita, ma solo rovinata. Era una casa in sassi, molto vecchia. Adesso è stata modificata ma è ancora esistente e si trova appena giù dell'argine sulla strada che va verso il Piave e San Polo, sulla destra subito pochi metri avanti; si vede dall'argine. È un po' imboscata e un figlio del nuovo padrone vi ha anche costruito un'altra casetta nuova.
Si trova abbastanza distante dall'acqua del Piave, tanto che noi non abbiamo mai avuto l'acqua del Piave in casa, anche perché c'era - proprio davanti - un "basson'', una sacca dove si insaccava l'acqua. E a volte per andare a lavorare in filanda mia sorella, che non vi doveva andare, si alzava dal letto e ci portava a cavalloni fuori dell'acqua alta, sull'asciutto dell'argine.
Le trincee erano tutte attorno alla casa, ma il vero fronte era più avanti. [...]
Il grosso dei tedeschi non fece in tempo di venire di qua perché il Signore benedì l'Italia, quella volta. Perché fece voltare da questa nostra parte tutta l'acqua del secondo Piave. Fu un miracolo.
Successe che fino al 1918 il Piave prima di Maserada si divideva in due "ramoni". All'altezza dei "Comunali", si dividevano i due Piavi. Un Piave andava per San Micièl e uno veniva a Maserada, e il nostro era sempre il più grande. Con la ritirata, il Piave da di là si girò di qua e i tedeschi si sono trovati con i piedi asciutti, ma arrivati sul nostro Piave hanno trovato la gran massa d'acqua, tanto che le onde portavano via le passerelle e hanno dovuto fermarsi.
La cavalleria, i cavalli, andavano giù a rotoli. Questo avveniva a giugno, con l'ultima offensiva, e prima non era mai successo. Tutti l'hanno detto: «È stata la Madonna che ha fatto il miracolo.» Perché le due Piavi, da che erano al mondo, i nostri vecchi le avevano sempre viste. I vecchi non credevano ai loro occhi e dicevano "bisogna che sia un miracolo".
[...]
Mio papà quella volta che siamo scappati ci ha portato con a bunèa [la carriola senza sponde che si usa in stalla] su per l'argine. Ci siamo portati via solo le coperte e le lenzuola che erano sui letti. Poi mio papà è ritornato indietro e ha visto che i soldati erano già dentro la casa, con le mastelle di tela piene di vino.
Prima di essere costretti ad andarcene da casa abbiamo dormito per tre notti sotto il ricovero in cui era stata distesa un po' di paglia. Si dormiva su degli scabelli, raggomitolati, con le spalle appoggiate alla terra. Si dormiva seduti, appoggiati l'uno all'altro.
Sopra al ricovero, come copertura c'erano dapprima delle tavole e dopo dei travi di talpon; per ultimo la terra in zolle. Là sotto, nel ricovero, avevamo trovato posto papà, mamma e i dieci figli.
Vi siamo rimasti tre notti finché è arrivato il maresciallo.
Era un pomeriggio verso le tre e mi ricordo di aver avvertito io mio papà. «Popà ghe n'é un marescial».
È venuto dentro in cucina e ha detto: «Voi siete il padrone?»
«Sì.»
«Allontanatevi, perché è un passaggio, ma è pericoloso; basta che andiate di là, giù dell'argine.»
Di là dell'argine avevano fatto in tempo a seppellire la roba. Avevano scavato una buca sotto i pavimenti della cucina e vi avevano messo dentro dei cassoni. Così ha fatto Eugenio Rossetto e Carraro Giuseppe, che abitavano di là dell'argine, vicino all'oratorio della Madonna.
Appena il maresciallo ci ha detto di partire siamo partiti, lasciando là tutto tranne le coperte e le lenzuola. Abbiamo lasciato là le galline, tutto. Anche quei due tre salami conservati sotto la cenere in una cassa messa sotto la scala. (Dapprima si incartavano con carta da giornale e poi si mettevano in una cassetta, coprendoli con la cenere. Una riga di salami, una mano di cenere. Così mantenevano il loro grasso.)
Quei salami siamo riusciti a salvarli dopo, quando mio papà è tornato indietro per la seconda volta. Quell'anno non avevamo il maiale; avevamo fatto un bel prodotto con il maiale dell'anno precedente che pesava più di due quintali. [...]
Una volta giù dall'argine ci siamo incamminati a piedi verso Varago, e la "strada Postioma". Solo la famiglia Rossetto si è portata dietro due bestie che poi sono state alimentate - si può dire - con le pagnotte dei soldati, perché vicino alla nostra casa c'era la sussistenza che quando aveva del pane vecchio avanzato lo dava a mia mamma per le bestie.
Siamo arrivati "sulla Postioma" [la romana via Postumia] da Cenedese, che era il nonno di quello che ora ha l'officina. Questo Luigi Cenedese aveva un figlio al fronte, tre figlie e un altro figlio che non aveva voglia di fare niente e si chiamava G.
Fra i profughi, gli uomini dormivano sulla tièda [fienile – deposito di fieno sopra la stalla] e le donne e le bambine dormivano in stalla, con Gigio che alle 5 della mattina d'inverno veniva a dare da mangiare alle bestie, e noi dovevamo raccogliere e mettere in un angolo la paglia in cui avevamo dormito. E mia mamma, per lasciar dormire ancora un po' la bambina più piccola, vi si sdraiava sopra, in modo da coprirla.
Il vecchio portava fuori il letame, con le porte spalancate, e noi là in un angolo ingrumài. È la verità ... e sì che non aveva niente altro da fare.
Quando c'era "baruffa in aria" noi andavamo sotto un pagliaio e si sentivano tutte le palline che cadevano sulla paglia tec-tec-tec-tec; palline di piombo.
Prima di partire da casa non eravamo stati capaci di prendere una ciòca [chioccia], una gallina che stava covando 18 pitusséti [pulcini]. E mia mamma diceva sempre: «Me bastaria ciaparme che a ciòca là.»
Mio papà, che tornava a casa ogni giorno, le ha detto: «Sai Marieta che i soldati hanno una gran cura della ciòca.» Ogni sera la cioca si preparava davanti alla porta della stalla, pronta ad entrare. I soldati la facevano entrare e l'avevano abituata ad andare dentro un cesto, lei e i pulcini; poi prendevano il cesto e con una fune lo alzavano verso il soffitto. In questa maniera allevarono 18 pulcini di un kilo e mezzo di peso e alla fine, per fortuna, siamo riusciti a mangiarli noi, perché mio papà è andato a prenderseli.
[Finita la guerra], quando siamo ritornati a casa abbiamo trovato un cassetto del comò che era stato adattato per condirvi la pastasciutta e mia mamma ha dovuto lavorare parecchio per levare il grasso!
La casa era ancora in piedi [...] solo che abbiamo dovuto cambiare tutti i pavimenti perché rovinati dal continuo passaggio dei soldati, che usavano la casa anche come vedetta.
Anche vicino alla casa sulla "Postioma" c'era un posto di vedetta, [in località] Saltore, sopra due altissimi pioppi. Da là comunicavano con la sussistenza e anche avvertivano che in aria c'era un duello... Comunque noi ce ne accorgevamo quando arrivavano i primi colpi al nostro campanile [di Maserada], perché era di alluminio e di notte la punta rifletteva. Tutte le case là attorno erano rovinate, colpa del campanile, così i nostri soldati lo hanno minato, d'accordo con il parroco, a livello della cella campanaria. Lo hanno fatto saltare dopo aver fatto calare le campane, perché il campanile faceva spècio con la luna, serviva come punto di riferimento. Tanto che il parroco di Lovadina diceva sempre: «Quando torno a casa di sera mi faccio la barba sullo specchio del campanile di Maserada.» Il campanile era fatto come adesso, solo che [la cuspide] era in alluminio lucido.
Noi sentivamo che i soldati di guardia sui pioppi comunicavano "hai ricevuto un dispaccio [?]". Anche in filanda una volta, quando ancora non c'era il telefono, per comunicare dal primo al terzo piano si usava una trombetta legata a un fil di ferro, trombetta in rame.
Noi saremo stati distante dai soldati di guardia [sugli alberi] un 500 metri.
Una mattina ho voluto anch'io ritornare a casa mia assieme al papà. Prima di arrivare all'argine c'era un campo coltivato che aveva una "rivetta" che segnava il confine. Là ho iniziato a sentire le "baruffe in aria" e allora mi sono buttata a capofitto nella rivetta, come mi aveva urlato di fare mio papà: "butate sóto, butate sóto". Quando hanno finito di spararsi – si sentivano tutt'attorno cadere le palline – siamo andati a casa nostra, a vedere della ciòca.
Da casa nostra a Varago saranno stati quattro chilometri, tutti a piedi.
*
Io sono partita da Varago nell'Epifania del 1918 per la Toscana, in provincia di Arezzo a Rassina Casentino dove c'era un'altra filanda del signor Piva.
I paesi più vicini erano Bibbiena e Ponte a Poppi. Là ho fatto una vita difficile. Quel che se ga magnà mi penso ch'el gato no lo magnaria [quello che abbiamo mangiato, penso che il gatto non lo mangerebbe], perché ai profughi era destinato non il riso, ma la risèa [riso di scarto], che aveva più bissi [vermi] che riso. Erano bissi piccoli con le alette marrone, e rimanevano in superficie a quel brodo che preparavano per noi: non brodo di carne, ma di lardo misto all'olio. Per la verità l'olio era buono.
I bissi più grossi rimanevano sul fondo e allora io a mezzogiorno uscivo con il mio piatto. Fuori della porta c'era una mastella per i cani del direttore; con il cucchiaio tenevo su il riso e scolavo giù il brodo con i vermi piccoli e quelli più grossi invece li tiravo fuori con il cucchiaio.
Carne mai vista; mi davano qualche pesce che era una specie di sgombro [...]. Era un pesce bauco come el squal [cavedano, Leuciscus cephalus], una roba rossa; e quello era una volta due alla settimana. Oppure ci compravamo frutta. Il formaggio era cattivo, aveva una puzza e non si poteva mangiare.
Frutti ce n'erano in abbondanza.
Dopo la minestra si condiva alle volte qualche cespo d'insalata. 
Mia sorella suora che non era capace di mangiare la minestra dallo schifo che le faceva – non vorrei neppure pensarci, a quanti bissi che abbiamo mangiato "ma erano morti, veramente" – mia sorella ... via di corsa appena fuori dalla filanda fino all'ortolano che era là vicino e tornava con il cespo d'insalata. Quello era il suo mangiare di mezzogiorno, con il pane senza sale, e olio buono. 
Si tagliavano due fette di questo pane dalle pagnotte grandi, vi si spruzzava un po' di sale fino, si ungevano con l'olio e poi si mangiava.
E così mangiavano anche le ragazze toscane.
Alla fine della stagione si è trovato nel posto in cui lavoravano le ragazze del luogo moltissimo sale che si portavano da casa con dei cartoccetti. Poi [le ragazze di Rassina] mangiavano anche l'articiòco [carciofo] crudo, tociàndolo sul sale, come merenda; oppure i porri, anche quelli crudi sempre intingendoli nel sale. I cartoccetti li piazzavano nei cassoni dove giravano gli aspi per far su la seta. Mettevano là sopra questi cartoccetti di sale che a volte si liquefaceva, per il calore e dovevano stare attente che non penetrasse nella seta, che altrimenti si sarebbe macchiata e rovinata. 
Loro mangiavano anche durante il lavoro mentre noi venete uscivamo una mezz'ora, anche perché avevamo il dormitorio.
Quelle del paese nella mezz'ora per il pranzo non andavano a casa, ma stavano dentro in filanda e là tociàvano quello che si erano portate via da casa.
Si pensi che a Rassina le viti costeggiavano le strade ed erano piuttosto basse tanto che si poteva prendere l'uva facilmente. Al posto dei platani c'erano lungo le strade tutti gelsi, del comune. Le donne del posto (che si erano trattenute un ditale di uova di baco da seta) facevano nascere i bachi e alla mattina, prima di venir in filanda, gli davano tanta foglia da mangiare che bastasse fino a mezzogiorno quando ritornavano a casa per dare loro nuovamente da mangiare. Così riuscivano a farsi un po' di bozzoli tutti per loro.
Non c'era alcun mezzo di trasporto. Noi facevamo le nostre nove ore di lavoro e poi alla sera si faceva un po' di ricreazione, si lavorava chi a ferri e chi all'uncinetto, si faceva qualcosa per conto nostro.
Io ho trovato anche un'amica, una buona toséta [ragazzina] che mi ha invitato. Questa toséta era ancora troppo piccola per entrare in filanda e così ha dovuto restare fuori della porta per un mese e aspettare di raggiungere gli anni. Era là assieme a due sue sorelle di Lancenigo.
C'era anche una ragazza da Nervesa, ce n'erano inoltre da Cison e da Alano di Piave. Avevano le famiglie rimaste sotto i tedeschi e loro non potevano più ritornare a casa. Stavano già in filanda quando è successa la ritirata. Così abbiamo trovato la compagnia di altre venete, se non altro poter parlare la stessa lingua. Perché ad esempio una ragazza di Vascon non riusciva a dire una parola che fosse una in italiano.
Le ragazze del luogo erano anche tanto sporche: pidocchi ne avevano a volontà. Pineta Maso (quella da Vascon) diceva loro che erano "brute passe [luride] e sporche" e loro ridevano perché non capivano la lingua. Io dicevo alla Pineta "devi dirle che sono maiale e sudiciose", allora sì che avrebbero capito. Così si facevano anche quattro risate. 
Erano sporche, e per spidocchiarsi si tiravano giù i pidocchi dalla testa una con l'altra mentre noi non avevamo i pidocchi. Si sapeva, noi, come "tenersi"! [come evitare di prendere i pidocchi].
Noi avevamo i nostri pettini adatti e ci pettinavamo bene tutte le mattine. Io avevo proprio l'ambizione di farlo ogni mattina, guai se il nostro direttore ci avesse viste mal messe con la testa.
C'erano [in commercio] dei pettini fissi e una volta, in un negozio, un'assistente [della filanda] si è comprata un pettine con i denti ravvicinatissimi.
Una ragazza le ha detto: «Maestra, scommetto che lei ha i pidocchi».
L'assistente le ha risposto: «Io spero di no, tu sì che ce li avrai!»
«Eh, qualcuno ce l'avrò anch'io"!»
Io invece non li ho mai presi. Mia sorella suora aveva una passione a pettinarmi! Avevo dei capelli che mie sorelle erano tutte invidiose.
[A Rassina] per le strade si vedevano tanti ciechi, dalla nascita.
C'era lo zio del campaner, che era cieco. Lo era diventato da dieci anni ... e per le strade c'erano tanti pericoli, tanti cavalli che passavano con le carrette. Questi ciechi erano contadini, e anche non molto curati.
Quei paesi erano poveri, tanto poveri. Erano molto poveri quasi come a Cuneo. [...]

2 commenti: