mercoledì 1 settembre 2010

Intervista a Francesco Daniel, Ponte di Piave TV

Nato il 27 novembre 1905  

Nastro 1993/03 - Lato A                           Lunedì 23 agosto 1993
         
In famiglia all'epoca della prima guerra eravamo in dieci. Mio padre si chiamava Daniel Luigi, era del 1879, portava il pizzo e aveva la barba, tanto che lo chiamavano Mosca Daniel. Mia madre si chiamava Nespolo Maria, ed era del 1885. Inoltre c'erano sette figli, due maschi e cinque femmine. Il più vecchio ero io, poi Agostino. Le sorelle si chiamavano Virginia, Palmira, Antonietta, Isetta e Italia, e tre di loro sono ancora vive.
Dopo la guerra sono nati altri fratelli e sorelle: complessivamente eravamo otto sorelle e quattro fratelli. [...]
Lavoravamo 15 campi di terra in proprietà. Che io sappia eravamo in proprietà da sempre. La casa era la stessa in cui ci troviamo per l'intervista e prima della guerra aveva solo due piani.
Si coltivava soprattutto uva e pannocchie, e un po' di frumento. La vigna era già tirata a Bellussi, ne sono certo, perché ho estirpato io la vigna una ventina d'anni fa.
In pratica avevamo metà azienda riservata al vigneto e metà a cereali e foraggio. In stalla avevamo solo quattro vacche e una cavalla. C'erano poche bestie nelle stalle, all'epoca; solo più tardi abbiamo comprato dei buoi. A quei tempi era così.
Il vino era principalmente raboso (il nero) e riesling (il bianco).
Le pannocchie erano bianche e gialle in sorte.
Le viti erano sostenute da opi [aceri campestri] e gelsi, in modo che si recuperava la foglia dei gelsi per i cavalieri e i rametti degli opi venivano utilizzati come scaràsse [sostegni] che si mettevano nel vigneto stesso e permettevano alle viti di espandere i tralci.
Avevamo anche dei boschi, verso il Piave (al cao de là): c'era arneràra (arnère = ontani) e pioppi, talponi che erano nati spontaneamente. Si trattava di un bosco spontaneo del quale si utilizzava legname al bisogno e un po' di legna la vendevamo. Il bosco in parte era di nostra proprietà e in parte era del demanio.
A causa della guerra sono andato a scuola solamente fino alla seconda elementare, perché nelle scuole elementari di Ponte di Piave si era stabilito un ospedale militare italiano fin dall'inizio della guerra.
A scuola avevo ripetuto sia la prima che la seconda, per quello nel 1915 avevo finito appena la seconda. Molto è stato anche a causa di una maestra che era severa. Si chiamava Nice Zambon (a maestra Zambon) e abitava a Negrisia. Era sorella dell'avvocato, ed era da sposare. Più che severa era cattiva: "spaccava la testa ai ragazzi", botte con la bacchetta.
Era una maestra tremenda, anche troppo, tanto che un ragazzo - che abitava qua in una casa sotto Negrisia ed era un po' duro da capire - una volta che la maestra lo aveva picchiato, si è ribellato e le ha infilato el canòto con il pennino nel sedere. Dopo è scappato e da quella volta non è più andato a scuola. Si chiamava Angelo Davanzo, ed era della classe 1896.
Da parte mia, una volta chiusa la scuola e iniziata la guerra, sono rimasto a casa a lavorare, anche perché mio padre era andato in guerra ed era rimasto ferito (mentre due fratelli di mio padre erano morti).
Mio padre era rimasto ferito a una gamba. Aveva preso come una grossa botta, che pur non avendogli fatto perdere l'uso della gamba lo costringeva a zoppicare. Era rimasto in ospedale ed era venuto a casa in convalescenza [nel 1917] un giorno prima che facessero saltare i ponti.
Appena mio padre era tornato, io e un mio cugino abbiamo scavato una trincea a fianco della casa per poter andarsi a riparare. Eravamo in 25 persone che vi si rifugiavano.
Non eravamo scappati perché degli ufficiali italiani che erano passati da quelle parti ci avevano rassicurato, dicendoci di non scappare, perché tanto sarebbe stata una cosa "di passaggio".
Nella trincea venivano a rifugiarsi anche abitanti delle case vicine, come altri Daniel (della famiglia di Luigi, che però era militare) e anche della famiglia Sartor (due ragazze e il padre). La trincea ci dava un po' di sicurezza nel caso ci fosse stata qualche sparatoria. Ma la cosa è diventata presto ben più grossa.
Siamo rimasti nella trincea tre giorni e tre notti. Solo per far da mangiare mia madre e mio padre uscivano un pochino.
La trincea era una buca scavata nel terreno e ricoperta da grossi tronchi di acacia, sopra i quali erano disposte delle zolle di terra. Vi si accedeva attraverso una piccola rampa.
A un certo punto è arrivata una granata giusto sopra la nostra casa e le pannocchie che erano nel granaio si sono sparpagliate tutt'attorno. Avevamo il maiale che pesava ormai due quintali, ed è stato colpito da una scheggia e sventrato.
Quando abbiamo visto questa cosa, dentro a casa non ci siamo più andati e siamo scappati direttamente, dirigendoci alla volta di Negrisia, perché dalla parte di Ponte di Piave c'erano i cannoni italiani che - sistemati a Saletto e a San Bortolo - sparavano in direzione del ponte. Anche perché inizialmente i tedeschi erano passati oltre il Piave, a Ponte, ed erano arrivati fino a San Biagio di Callalta. Da San Biagio però sono ritornati indietro, perché hanno avuto l'impressione di essersi spinti troppo avanti e avevano paura di rimanere circondati.
La bomba che ha colpito la nostra casa e ci ha conviti a partire è arrivata dopo che avevamo trascorso tre notti nella trincea. Era di mattina, verso le otto e mezza-nove.
In trincea dormivamo su della paglia stesa per terra. I bisogni andavamo a farli fuori, se proprio era necessario. Ma si andava poco, anche perché si mangiava poco, perché si aveva paura.
Quando siamo scappati io mi son preso sotto il braccio destro mio padre, e sotto quello sinistro mia nonna (Elena Dalla Torre, di anni 75). E sulle spalle avevo anche la penultima delle mie sorelle, la Isetta. La bambina più piccola invece era in braccio a mia madre.
Quando siamo scappati abbiamo camminato ai piedi dell'argine, per via delle pallottole che fischiavano. Eravamo in gruppo, con i ragazzini più piccoli che a volte andavano più avanti.
Non avevamo preso niente dalla casa.
Appena scoppiata la bomba siamo scappati. Il maiale è rimasto là, agonizzante. Le mucche sono rimaste in stalla dove da tre giorni non mangiavano ed erano là che si lamentavano perché non avevamo coraggio di andare fuori a dargli da mangiare, con tutte le pallottole che fischiavano.
Siamo scappati come ci trovavamo, scalzi. Non abbiamo fatto in tempo di prendere su niente, tanta era la paura per le granate che fischiavano, ed erano tante. Non abbiamo preso su neanche i soldi. Mio padre li ha lasciati là. Aveva poca roba per la verità, ma li ha nascosti sotto terra, per paura che i tedeschi li trovassero. E poi, al ritorno li ha ritrovati dove li aveva nascosti, dentro in casa, in una delle stanze che non avevano il pavimento ma solo la terra.
Il giorno in cui hanno fatto saltare i ponti era di venerdì [9 novembre 1917] e noi siamo partiti alla volta del mercoledì o giovedì successivo. Infatti hanno iniziato a sparare un paio di giorni dopo aver fatto saltare i ponti.
Siamo scappati da casa prima che arrivassero i tedeschi. Per fortuna non pioveva e ci siamo incamminati lungo la stradina che portava all'argine, fiancheggiata da una siepe di acacie su entrambi i lati.
Abbiamo camminato ai piedi dell'argine fino all'altezza dell'osteria Da Violina. Qua siamo saliti sulla strada - perché ormai non sparavano più – e abbiamo proseguito fino a Roncadelle. Poi siamo passati per Ormelle, Tempio, Lutrano, Camin giungendo a Mansuè, dove abitava la famiglia di mia madre (Nespolo Domenico era il capofamiglia).
Mentre noi stavamo scappando eravamo gli unici perché le famiglie che abitavano fuori dell'argine erano già scappate. Noi invece, qua dentro, eravamo rimasti gli ultimi a partire. Qualcuno della nostra trincea ha voluto rimanere ancora là, ma alla sera quando sono arrivati i tedeschi è stato portato a Oderzo. [...]
Lungo la strada non abbiamo trovato nessuno che scappava. Invece abbiamo incontrato quelli che erano scappati prima di noi. Li abbiamo trovati a Lutrano. Ma fino a Lutrano non abbiamo trovato nessuno, neppure soldati tedeschi che avanzavano.
A Mansuè siamo rimasti fino ad aprile, quando i tedeschi ci hanno dato l'ordine alla sera di trovarsi alla mattina successiva tutti in piazza. Là ci hanno caricati sui camion e portati ad Annone Veneto. Ad Annone c'era un treno che ci ha portati fino a Cividale. A Cividale abbiamo cambiato treno, salendo su un trenino che fino a S. Pietro di Natisone, più precisamente a Vernasso, dove ci hanno sistemati in case lasciate vuote da abitanti del luogo che erano invece scappati dopo Caporetto per andare in Italia.
Come razione alimentare i tedeschi ci fornivano 150 grammi al giorno, a testa, di "farinaccia" di cui non saprei dire la consistenza, perché non era farina da polenta, era farinass e la si cucinava in qualche maniera con l'acqua, senza sale né niente per insaporirla.
Si andava da questi slavi, perché Vernasso era il primo paese di slavi, a chiedere qualcosa da mangiare e loro non ci davano niente. Avevano patate ma non davano niente, perché se le tenevano per loro. Erano ingordi. Le avevano, ma le tenevano per loro. Perché se si andava nei paesi più indietro (non slavi), si trovava qualcosa da mangiare; ma bisognava camminare tanto.
Certo, noi soldi per pagare non ne avevano.
Si andava anche in imosinon (a elemosinare) ma nessuno ci dava niente. 
Andavo anche a lavorare, ad aiutare quegli slavi là. Ce n'era uno che mangiava un pollo alla sera e mi diceva: «Tu mangia la polenta sola, che io sono stanco questa sera, a te la darò domani la carne.» Lui mangiava il pollo e io mangiavo la polenta pura, e per forza di cose dovevo farmela bastare.
Abbiamo iniziato a cavarcela con il mangiare quando finalmente è arrivata la stagione delle castagne, a partire dalla fine di agosto del 1918. Andavamo a battere i castagni, perché oltre a quelli di proprietà delle famiglie rimaste ce n'erano molti altri che appartenevano ai profughi italiani.
Mio padre, malgrado avesse la gamba ancora zoppicante, doveva recarsi a Cividale per lavorare sotto i tedeschi. Lavorava alla riparazione e manutenzione degli acquedotti della zona. Anch'io andavo a lavorare sugli acquedotti ma soprattutto a caricare ghiaia da portare lungo le strade.
Finalmente sono arrivati gli italiani, e solo allora abbiamo iniziato a mangiare regolarmente.
I tedeschi in sè non è che ci trattassero male, non erano cattivi quelli là; ma mangiare niente, perché non ne avevano neppure loro, avevano fame anche loro.
Per primi fra gli italiani, sono arrivati i lancieri di cavalleria, che correvano al galoppo. Sono arrivati quando i tedeschi stavano ancora ritirandosi. La prima notte c'è stato anche uno scontro a fuoco, in quanto la truppa tedesca tentava di ritirarsi e non voleva arrendersi agli italiani. Gli italiani hanno sparato e sono rimasti feriti molti tedeschi e uccisi muli e cavalli. Questo è successo a Vernasso.
Arrivati gli itliani, per mangiare andavamo alle cucine dei militari, che ci davano quello che avevano in più. Andavamo in prevalenza noi ragazzi a chiedere da mangiare. Mi ricordo di aver mangiato per la prima volta con abbondanza pasta in brodo (subiòti), che erano anche buoni ... soprattutto perché avevamo fame. Comunque niente carne, solo pasta in brodo e qualche volta anche risotto. Niente vino.
Neppure ai primi tempi quando siamo ritornati a Ponte di Piave ne abbiamo bevuto; solo più tardi quando hanno messo su degli spacci a Ponte si andava a prenderne.
A Ponte eravamo ritornati con il treno messo a disposizione dai comandi italiani. Siamo arrivati fino a Ponte, perché la ferrovia funzionava fino a Ponte. Alla stazione ci attendeva nostro zio Domenico Nespolo con un mulo e un sarabàn (calesse) che ci ha portato a Mansuè, perché a Ponte di Piave non c'era più niente, era tutto distrutto.
Mio zio si comportò anche bene, perché a mia mamma spettava la sua quota di eredità.
Con il calesse abbiamo portato anche un po' di coperte che erano state utilizzate dai tedeschi e a Mansué abbiamo trascorso l'inverno, il primo del dopoguerra, finché a Ponte, nel nostro cortile ci hanno sistemato una baracca. Era la primavera dl 1919; fine marzo, inizio aprile.
Appena finita la guerra suo padre andò a presentarsi alle autorità militari, spiegando che era stato messo in convalescenza [...] poi i militari lo hanno congedato.
Quando sono tornato a casa non vi ho trovato più niente, altro che sassi. Tutto a terra; non c'era un benché minimo pezzo di tavola in piedi.
C'erano reticolati nella campagna, c'erano trincee, camminamenti che ci siamo dati da fare per chiudere.
Abbiamo tirato su le viti che erano tutte per terra, mettendo i loro pali, ma siamo andati avanti due anni prima di fare un raccolto. Il primo anno, 1919, niente.
Dopo la guerra Ponte di Piave lentamente tornava alla normalità. Sono stati costruiti dei forni per il pane.
Nella nostra campagna abbiamo iniziato a mettere da una parte (accatastare) le bombe, ma in certi casi le mettevamo anche sul fondo delle buche esistenti. Tutto questo provvisoriamente, perché poi sono passati gli artificieri che hanno prelevato le bombe e le hanno portate tutte sulla grava del Piave, dove le facevano saltare sul mezzogiorno.
Gli artificieri sono passati anche con una specie di calamita per cercare le bombe che erano in profondità.
La nostra famiglia si è dedicata in particolare a chiudere i camminamenti austriaci che c'erano nella campagna. C'erano molte trincee che erano come una specie di fossa larga circa due metri e coperta da travi di cemento armato. Travi che noi abbiamo ancora conservati in un catasta e in parte li abbiamo riutilizzati come architravi nella ricostruzione della casa.
Di queste trincee ce n'erano diverse nella nostra campagna. C'erano poi anche le trincee per gli ufficiali che avevano il fondo preparato con una mano di traversine ferroviarie sopra le quali veniva disteso del cemento [...]. In linea di massima le barre di cemento che coprivano le trincee sono tutte in buono stato e non risultano colpite da schegge, ecc. In queste trincee i soldati dormivano, anche. Mentre per spostarsi usavano i camminamenti (che invece erano scoperti).
Dopo aver chiuso le trincee e liberata la campagna da bombe e reticolati, sono arrivati gli artiglieri che ci hanno arato la terra, in modo da prepararla alla semina del mais (già nel 1919). Gli artiglieri avevano un traino di 3-4 paia di cavalli cui era attaccato un aratro.
A preparare la nostra terra abbiamo lavorato solo noi di famiglia, maschi e femmine, tutti; senza aiuti dalle altre famiglie, perché ognuno aveva il proprio gran lavoro da fare. La vigna è rimasta improduttiva fino al 1920. Per quanto riguarda l'acqua per bere, già prima della guerra avevamo una pompa a stantuffo che pescava in falda, ma i tedeschi ce l'hanno portata via. Così quando siamo ritornati ci procuravamo l'acqua da bere nel Negrisia, acqua che allora era pulita, perché si teneva pulito lungo il canale, mentre adesso ci buttano giù porcherie. Poi un fabbro di Ponte di Piave ci ha riparato la pompa in modo da poterla riutilizzare.
I cavalli che aravano la terra andavano via di corsa. L'aratro era fatto con il vomere che aveva una posizione obbligata; così un artigliere, una volta iniziato il solco, vi si sedeva sopra. In questa maniera non era obbligato a correre a piedi per tenere il ritmo dei cavalli, che andavano via molto veloci.
Ogni coppia di cavalli aveva un soldato in groppa che li conduceva, per questo i cavalli andavano via veloci. Comunque, anche se di corsa, l'aratura è stata fatta bene.
Noi a questi soldati da mangiare non potevamo darne, ma magari davamo loro un fiasco di vino, che si andava a comprare.
Una volta arata la terra si è provveduto a seminare il granoturco con un vanghetto, a righe.
Per il vino abbiamo invece dovuto faticare ed attendere di più, prima di avere il raccolto. Ci sono voluti due anni e per colmo di sfortuna nel secondo anno (1920) è arrivata anche la tempesta, e la produzione è stata molto ridotta.
Le viti, che erano a Bellussi [belussera], non erano state tagliate dai tedeschi, ma distese a terra [...] in modo che rappresentassero un ostacolo per eventuali avanzamenti di soldati italiani (par ingambararli). Era lasciato libero solo dove c'erano i camminamenti.
La casa abbiamo iniziato a farla molto più tardi, nel 1923, perché non c'erano soldi. Poi il governo ci ha dato un contributo di 25.000 lire, ma in realtà abbiamo speso trentamila lire.
La nostra casa è stata costruita da una cooperativa di Maserada. C'erano molte cooperative che appaltavano i lavori.
Noi abbiamo iniziato i lavori con la procura di pagamento promessa dal governo, ma poi abbiamo dovuto aggiungere il resto. Il lavoro è stato fatto a regola d'arte, perché i muri da allora sono ancora in piedi.
Inizialmente, nel 1923, la casa è stata ricostruita a due piani, come prima della guerra. Solo più tardi, nel 1928, è stato aggiunto un altro piano.
Oltre al contributo per la casa, qualcosa abbiamo ricevuto dal governo anche per il bestiame, e tutto l'abbiamo investito nella casa.
Per vestirci invece abbiamo dovuto arrangiarci.
Con i residuati bellici non abbiamo guadagnato niente. 
Pali di reticolato, reticolati, schegge di bombe che avevamo raccolto con molta fatica nei nostri campi e ammucchiato davanti casa... Siamo stati vittime di una truffa. Sono venuti in casa nostra con la falsità. Si sono presentati come una "Commissione", accompagnati dai carabinieri, e noi abbiamo dovuto starcene buoni.
Forse saranno stati (anzi erano) carabinieri, ma evidentemente erano pagati da quelli che venivano a prelevare la roba. Quelli della sedicente "Commissione" erano vestiti in borghese e avevano l'accento della Bassa Italia.
Si sono presentati con i cavalli e con i carioti [carrettieri] al seguito. I carioti erano Tomiot Luciano e fratello, da Ponte di Piave. Avevano un carro ciascuno ed eseguivano gli ordini della "Commissione".
Hanno prelevato la roba che noi avevamo accatastato ma non ci hanno pagato. Eppure avremmo potuto guadagnare circa 5000 lire, vista la quantità di materiale.
Avevamo soprattutto circa mille pali di sostegno dei reticolati, dei quali - in precedenza - avevamo in parte tagliato le punte per utilizzarle come denti degli erpici. Era stato molto faticoso estirpare quei paletti di ferro dal terreno e poi liberarli dai reticolati utilizzando delle trance che avevano abbandonato per terra i tedeschi. Manovrare i reticolati a mano nude, senza guanti, qualche volta al massimo aiutandosi con una forca per ammucchiarli...
La "Commissione" ci ha portato via tutto senza rilasciare alcuna ricevuta, e noi non potevano protestare più di tanto, perché c'erano i carabinieri. Io avevo intuito che era una truffa, ma cosa potevo fare ... e poi c'erano anche mio padre ed altri più grandi di me.
Questa truffa sui residuati bellici non è capitata solo a noi ma anche a tutte le altre case della grava, le case del Borgo dei Danieli, come è chiamato.
Avevamo anche recuperato dei barconi di ferro con cui gli austriaci avevano fatto un ponte nell'offensiva di giugno. Il ponte era all'altezza dell'isola, di fronte a dove nel 1993 si è svolta la sagra di San Romano e la corsa dei cavalli. Il ponte è stato colpito proprio mentre i tedeschi lo oltrepassavano e il Piave era in piena. I tedeschi sono caduti numerosissimi nel Piave e vi sono morti. Infatti quando noi siamo ritornati nella nostra campagna, abbiamo trovato nella grava moltissimi ossi, ormai senza carne.
Si trovavano ossi sparsi nella grava, nei giaroni. Di là del Piave c'erano gli ossi degli italiani, con i quali poi hanno preparato l'ossario di Fagarè. Di qua invece c'erano tutti gli ossi dei tedeschi, persi per la grava. C'era un osso qua, un osso lavvìa, una testa. 
Noi li lasciavamo la nel giaron e poi la Piave a forza di rotolare li ha calpestati, frantumati, sepolti. Adesso dopo tanti anni, saranno ormai consumati.
Quando è arrivata la Commissione falsa siamo stati un po' colti alla sprovvista, anche perché non c'era ancora una severità, c'era un po' una mancanza di poteri; non si sapeva bene a chi rivolgersi. Era l'estate o la tarda primavera del 1919.

Nastro 1993/03 - Lato B

In una giornata, il via e vai continuo dei carioti ha ripulito le nostre cataste di rottami trasportandole a Ponte, non so dove.
Hanno portato via anche tutte le schegge di granata che avevamo raccolto nei campi e che fra l'altro disturbavano il lavoro, perché si segava l'erba a mano con la falce e se la lama colpiva un pezzo di ferro si scheggiava.
Le bombe invece erano state raccolte e fatte scoppiare in precedenza dagli artificieri che, dopo averle ammucchiate nella grava, le facevano scoppiare nel primo pomeriggio. Noi che eravamo in baracca sentivamo questo gran colpo e avevamo anche paura che qualche scheggia arrivasse da noi, perché si sentivano fischiare le schegge.
La casa è stata ricostruita con un po' di pietre della fornace Bertoli di Fagarè e con molti sassi della grava. Sassi: in parte ce n'erano ancora della casa vecchia e poi si andava in grava con un mulo a prendere quelli che servivano. 
[I muri della casa avevano] "ogni quattro-cinque file di sassi, una fila di pietre (un corso de piere)".
*
Io ho fatto il militare nel 1925 e sono riuscito ad evitare la seconda guerra, anche perché dopo di me c'erano altri due fratelli che facevano il militare.
Quello che faceva guadagnare un po' alla nostra azienda era il vino, sempre buono e venduto direttamente agli osti che venivano a casa nostra a prenderlo.
L'alluvione del 1965 è stata peggio di quella del 1966, perché c'era ancora il raccolto dell'uva sulle viti (era settembre). Qualcuno è riuscito comunque a piazzare l'uva come fosse buona, ma molti altri no.
Nel 1965 l'uva era piena di fango. Dentro ai grappoli era entrata erba, fieno. Non si aveva neppure la possibilità di mangiare un grappolo d'uva; un granello d'uva non si poteva mangiarlo perché era pieno di fango. Lavandolo, al massimo si riusciva a mangiare un grappolo.
Invece nell'alluvione dell'anno successivo [1966] il raccolto era già stato portato a casa.

Aggiunte e precisazioni, 1 settembre 1993

Non ricordo a quale gamba fosse rimasto ferito mio padre.
Io ero il più vecchio dei fratelli.
Scappando [dopo Caporetto] non abbiamo trovato nessuno vicino a casa e a Negrisia perché siamo partiti per ultimi. Tutte le case erano abbandonate, ma a mano a mano che ci allontanavamo dal Piave le case erano abitate, perché da quelle parti non bombardavano.
La baracca dopo la guerra.
Era abbastanza grande. Aveva quattro stanze ed era coperta da tegole. Le pareti erano fatte con una doppia mano di tavole, in modo che non filtrava il vento ;  dentro era abbastanza accogliente. Solo che all'interno della baracca non si poteva far fuoco per cucinare, così noi avevamo approntato una tettoia dove c'era la vecchia casa, e là accendevamo il fuoco.
Molte altre baracche invece erano coperte da cartone catramato e consistevano magari in un solo stanzone. Noi siamo stati fortunati, forse perché siamo stati fra gli ultimi ad ottenere la baracca.
Le travi di cemento erano di circa 2 metri e venivano sistemate sopra le trincee in varie maniere. [...]
Come pavimento le trincee avevano delle tavole in legno, ma noi non abbiamo fatto in tempo di vederle, le tavole, perché le altre famiglie della zona che erano ritornate a casa prima di noi se l'erano prese loro.
In altre trincee vicine al Piave, trincee per ufficiali, il pavimento era in cemento e il tetto era in traversine ferroviarie coperte di terra.
Il fabbro che poi ci ha rimesso a posto la pompa si chiamava Luigi Zanusso, di Negrisia, detto Violina: aveva anche una piccola osteria, con gioco di bocce.  [14:00 fine intervista]

Nessun commento:

Posta un commento